Andrea GiuliaRisulta assai difficile gestire una società che corre a trecento all’ora usufruendo di strutture istituzionali e di un apparato burocratico che viaggiano a rilento. Nessuna forza politica, nessun Partito, nessun esperto d’area è in grado di fare miracoli. In fondo, la vera fortuna del Partito democratico è stata quella di aver perso le elezioni politiche del 2008: la crisi economica globale ha infatti investito la maggioranza di centrodestra come uno ‘tsunami’, dimostrando come sia sostanzialmente impossibile riuscire a ribaltare una tendenza macroeconomica di natura strutturale, fortemente influenzata da problematiche di carattere internazionale. Quindi, la questione dovrebbe porsi nel merito di una riflessione più profonda, maggiormente inerente alle potenzialità di un nuovo esecutivo che sappia immolarsi con spirito di sacrificio sull’altare di una riforma seria ed equilibrata del nostro apparato burocratico e istituzionale, in grado di far funzionare la macchina amministrativa dello Stato nel suo complesso. Arrovellarsi intorno alle polemiche serve a poco: qui ci vuole un segnale vero, un nuovo senso della collettività in grado di alimentare nuove aspettative, maggior fiducia, indicando obiettivi concreti di rinnovamento. Il Governo delle destre era un esecutivo di natura nazionalpopolare: un po’ come il solito festival di Sanremo con un Pippo Baudo che ‘impazza’ interrotto da qualche guazzabuglio leghista e da qualche ‘strafalcione’ post-missino: uno spettacolo mediocre. Risulta pur vero che a questo festival ammorbante il consenso non mancava. Ma si trattava, comunque, di un favore di matrice post-ideologica, composto da piccolo borghesi che si accontentano delle solite cose, mescolati a persone ancora convinte che, in Italia, ci vorrebbe il ‘manganello’ per risolvere ogni problema. Poi c’era la Lega Nord, con la sua carica identitaria formata da campanacci di mucche al pascolo e di galline che svolazzano per l’aia terrorizzate dal passaggio del ‘suv’ del figlio del piccolo proprietario terriero di provincia: una genuinità mescolata a una cultura post contadina non malvagia, in verità, ma alquanto ‘crapulona’. Nell’analisi dei processi di secolarizzazione della società italiana, il fenomeno leghista avrebbe potuto rappresentare persino un elemento dinamico, un improvviso ‘distacco’ dalle vecchie logiche cattolico-conservatrici degli italiani del Nord, in particolar modo dell’ormai defunto ‘Veneto bianco’. L’impronta ideologica del vecchio pensiero contadino ‘padano’ sostanzialmente rimane la stessa: una vecchia ‘incrostazione’ che, tuttavia, ha assunto una ‘forma’ imprevista e su cui a Roma sono ormai più di vent’anni che nessuno ci capisce qualcosa. In ogni caso, la secolarizzazione leghista era un movimento da tenere in debita considerazione, da valorizzare, a suo modo, al fine di farne una vera ‘testa di ponte’ per la diffusione di una visione laica maggiormente ‘pragmatica’, più concreta, della vita degli italiani. Invece, dai più è stato tenuto un atteggiamento di ‘arroccamento difensivo’, che ha bloccato ogni reale processo di cambiamento, impedendo ogni dialogo effettivo con questa nuova forza politica, la quale, forse, poteva essere utilizzata in una maniera più feconda. Ecco, dunque, il vero problema culturale del Pd: esso si è realizzato come un tentativo di imborghesimento della sinistra italiana che ha finito con l’allinearsi a tutti gli altri conservatorismi, di svariata e discutibile natura, presenti sul panorama politico complessivo. I pochi veri scampoli di riformismo si individuano solamente in qualche esponente: nulla di più. Anche del riformismo, in verità, nessuno ci capisce granché, così come nessuno ha compreso quasi nulla delle vere origini culturali del leghismo padano. Ma tutto questo processo, tutta questa sofferta transizione, alla fin fine è destinata a implodere. E ciò non sarà responsabilità da accollare esclusivamente al centrodestra. Si poteva - e si doveva - puntare su un processo di rinnovamento politico autentico, dotato di basi culturali certe, anziché scomettere su pachidermici ‘partiti – minestrone’ che, al loro interno, contengono tutto e il contrario di tutto, dai laici ai cattolico-democratici, dai ‘figli di papà’ ai ‘precari’. Si doveva rimanere sulle antiche ‘vie maestre’: quella laico-repubblicana, quella socialista, quella liberale e persino quella democristiana. Invece, si è commesso l’errore di ridurre tutto a un miserevole scontro di potere per il potere, senza reali progettualità, senza un minimo di lungimiranza. Inutile aggiungere quanto ciò sia costato, in termini umani, ad almeno due intere generazioni di giovani italiani, che sono rimasti illusi da un rinnovamento che, in realtà, si è concretizzato come una degenerazione, lenta ma sistematica, della vivibilità sociale, lavorativa e professionale. Nessun processo di rinnovamento è stato realmente impostato; nessun provvedimento di reale riforma delle nostre istituzioni scolastiche ed educative ha sortito gli effetti sperati; tutto procede all’inseguimento di un benessere materiale dalla natura ‘evasiva’, ‘diversiva’, ‘palliativa’, compresso dentro improvvisi irrigidimenti di ordine ideologico o, peggio ancora, burocratico. Una scuola che non comprende di doversi guardare al proprio interno, che non è consapevole di dover stimolare le indoli e i talenti migliori dei propri figli, come la sete di sapere o il semplice desiderio di letture autodidatte, non potrà mai essere un centro di formazione solido per le generazioni future. Nel nostro Paese, come al solito mutano le ‘forme’, ma non la sostanza delle cose. E affermiamo ciò chiedendo venia ai lettori per il nostro pessimismo razionalistico.


Lascia il tuo commento

Nessun commento presente in archivio