
Dopo l’attentato di matrice terroristica subìto nei giorni scorsi dall’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi, è tornata di gran voga in alcuni ambienti, sempre alla ricerca di falsi ‘capri espiatori’, l’equazione storica tra esplosione libertaria del 1968 e terrorismo eversivo di estrema sinistra. Ebbene, va detto subito che un collegamento antropologico tra i due fenomeni in qualche modo esiste, ma solo parzialmente, poiché il terrorismo in effetti discende da un ‘ramo’ protestatario ‘autonomo’ del movimentismo carnevalesco del ’68, il quale ha prodotto, nei successivi anni ’70 del secolo scorso, una cultura ‘appartamentata’, fortemente minoritaria, priva di ogni reale appartenenza a una generazione che, invece, ha il merito culturale di aver portato innovativi punti di vista, creativi e morali, in tutti i settori professionali della società. Ricapitolando i fatti di quell’epoca, intendo perciò dimostrare come quella che iniziò a teorizzare la lotta armata come esclusivo metodo di lotta per l'abbattimento radicale del nostro sistema democratico fu solo un’esigua frangia di estremisti iperideologizzati. Nel febbraio del 1968, gli studenti dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma occuparono le facoltà di Lettere e Filosofia riuscendo a ottenere, da una parte dei professori, la promessa per la sperimentazione di una didattica ‘alternativa’ (controcorsi, seminari autogestiti, esami di gruppo e così via ). Ma l’allora Magnifico Rettore dell’ateneo, aizzato dall’ala più intransigente del corpo accademico, decise di chiamare la polizia, la quale intervenne sgombrando le aule e prendendo tutti a ‘randellate’. Gli studenti, allora, organizzarono immediatamente un corteo che si diresse verso Palazzo Montecitorio, al fine di protestare contro tali fatti, ma di nuovo la polizia li bloccò per la strada picchiandoli selvaggiamente. L’inquietudine studentesca cominciò dunque a salire anche tra gli studenti più ‘moderati’, quelli che generalmente hanno il solo interesse a terminare gli studi il più in fretta possibile. Pertanto, il giorno successivo molti ragazzi decisero di riunirsi in piazza di Spagna con l’intento di occupare la facoltà di Architettura, un edificio immerso nel bel mezzo dei bellissimi giardini di villa Borghese a Roma. Essi iniziarono a dirigersi verso le strade di valle Giulia, ma sul posto trovarono ogni strada sbarrata dalla polizia, la quale stava già presidiando da ore l’edificio. Le forze dell’ordine, non appena intravidero il corteo, iniziarono a ‘caricarlo’ pesantemente, inseguendo i ragazzi in mezzo alle aiuole e ‘pestando’ duramente chi veniva temporaneamente catturato. Ma gli studenti, all’improvviso, reagirono con forza, picchiando a loro volta i poliziotti e incendiando varie camionette e numerose ‘volanti’ della polizia: era la guerra! Il 26 marzo successivo, giorno di Pasqua, uno studente della facoltà di sociologia dell’Università di Trento chiese di entrare in contraddittorio con il prete che stava celebrando la propria predica nella cattedrale della città. Ma i fedeli, inferociti, lo afferrarono, lo malmenarono e lo scaraventarono in strada. Nei tre giorni successivi, capannelli di studenti cercarono di penetrare nella chiesa. Tuttavia, non riuscendoci, decisero di accamparsi sul sagrato leggendo a voce alta alcuni passi delle opere di Don Lorenzo Milani fino al giorno 30 marzo, in cui centinaia di locali iniziarono a lanciare mele e uova contro il portone della basilica alternando la bestemmia con l’accusa di ateismo (“Vegnì fora senzadio! Vegnì fora porcodio”!). Qualche settimana prima, il preside del Liceo Parini di Milano era stato sospeso dal ministro della Pubblica istruzione per essersi rifiutato di cacciare dalla scuola i suoi alunni con l’aiuto della forza pubblica. Immediatamente, si stabilì un clima di intesa tra studenti medi e universitari che toccò il culmine il 23 marzo, quando venne occupata addirittura l’Università cattolica e la polizia dovette reagire sgomberando l’istituto con la forza, sprangandone, infine, ogni accesso. Nel giro di poche ore, circa 4 mila studenti si assieparono in largo Gemelli apostrofando, per bocca di Mario Capanna, i tutori dell’ordine, affinché sloggiassero alla svelta: ne ricavarono una sortita a colpi di manganello e una cinquantina di arresti. Il 21 dicembre, sempre a Milano, un gruppo di giovani dell’Università statale organizzò una protesta contro la mercificazione del Natale innanzi al grande emporio de ‘la Rinascente’. Le belle signore della buona società meneghina stavano, in pratica, celebrando tranquillamente il loro tradizionale rito dello shopping, mentre i dimostranti discorrevano in modo bonario con i custodi del grande magazzino, quando a un certo punto una marea di curiosi si accalcò intorno agli addetti al volantinaggio cominciando a proferire parole grosse: subito piombarono le ‘volanti’ e, mentre i passanti si disperdevano, i ragazzi vennero regolarmente picchiati e tradotti in questura. Questi episodi già da soli segnalano i caratteri salienti della ‘rivolta’ studentesca del 1968: la ‘compartimentazione generazionale’ degli studenti; il rifiuto di un sapere avulso dai bisogni di chi ne apprende i contenuti; il ricorso a tattiche ‘perturbative’; ‘chiazze’ di cattolicesimo ‘dissenziente’; un antiautoritarismo che investì imparzialmente le autorità scolastiche, il clero, la politica, la borghesia e la famiglia; il desiderio di riappropriarsi di una propria ‘soggettività’; una denuncia globale e senza appello del sistema di produzione, distribuzione e consumo dei beni. Ma il ’68 italiano ha avuto connotati originali, rispetto a quanto stava accadendo nelle altre università di tutto il mondo? Quelle appena elencate, in effetti, sono caratteristiche abbastanza comuni di una ribellione planetaria che, in quegli anni incredibili, si stava diffondendo da Berkeley a Tokio, passando per Berlino e per Parigi. Tuttavia, col senno di poi, oggi possiamo cogliere alcune differenze significative: innanzitutto, il movimento studentesco fu radicalmente ‘antistituzionale’. E siccome istituzioni come la famiglia e l’università non sono uguali dappertutto, anche la contestazione assunse, per forza di cose, forme, obiettivi e stili decisamente ‘consentanei’ alla loro specifica natura. Si può notare, per esempio, come in Italia, rispetto al ‘maggio francese’, non si sia registrata alcuna reale convergenza fra gli studenti e una buona parte dell’intellettualità ‘adulta’. Nonostante ciò, si può anche continuare ad affermare che vi siano state ‘spinte’ e motivazioni di matrice prettamente ‘transnazionali’, poiché molte analisi socio-antropologiche relative a quell’improvvisa ribellione di tanti giovani in tutto il mondo vengono fatte dipendere da diversi fattori sociali e psicologici: un’esagerata permissività nella loro educazione in America; una reazione a un eccesso di autorità in Germania e in Giappone; una totale mancanza di libertà in Europa orientale; una eccessiva libertà in quella occidentale; una disastrosa mancanza di posti di lavoro per gli studenti di sociologia in Francia; una sovrabbondanza di carriere in quasi tutti i settori professionali degli Stati Uniti. Tutte cose che appaiono localmente plausibili, ma che sono in netta contraddizione con il fatto che quella rivolta fu, comunque, un fenomeno mondiale. Rimane pur vero che un comune denominatore sociale dei ‘furori sessantottini’ non è facilmente rintracciabile. Ma è altrettanto realistico affermare quanto quella generazione di ragazzi sembrò ovunque, in ogni Paese del mondo, psicologicamente colta da un sorprendente coraggio, da una clamorosa volontà di agire e da una non meno sorprendente fiducia nella possibilità di un grande cambiamento planetario. Queste sono valutazioni di carattere fortemente ‘qualitativo’, non delle autentiche cause di carattere empirico. Ma se ancora oggi ci si domanda cosa abbia effettivamente provocato quell’esplosione, diviene assurdo ignorare il fatto che il progresso tecnologico, il più delle volte, porta a veri e propri disastri, poiché la scienza non solo è spesso incapace di modificare le conseguenze del proprio stesso sviluppo, ma già allora aveva raggiunto un livello tale per cui non era più rimasta neanche una ‘maledetta cosa’ che non venisse trasformata in guerra, o utilizzata per tale fine. Oltre alla persuasione di vivere in un mondo in cui scienza e tecnica vengono utilizzate per dominare e, talvolta, persino per sterminare, quella generazione possedeva inoltre la coscienza di essere, per l’appunto, una ‘generazione’. Non si tratta di una banale tautologia: anche se l’uso di un simile concetto in quanto categoria di analisi storica non di rado è impreciso e astratto, ciò non significa che quella ‘generazione’ non abbia avuto il coraggio di introdursi a viva forza sul palcoscenico in cui si recitava la commedia sociale muovendosi come un aggregato di interessi, aspirazioni e progettualità che erano già passati dallo stadio idealistico a quello concreto, risentendo del proprio contesto storico allo stesso modo delle élites e delle associazioni professionali. Chi ha letto Stendhal sa bene che le vicende di Julien Sorel ne ‘Il rosso e il nero’ riflettono i sentimenti, gli slanci, le miserie e le passioni di tutta la gioventù francese della Restaurazione. E chi conosce le ‘Lezioni proibite’ di Jules Michelet può comprendere appieno quanto poco estemporanee siano le teorizzazioni dei giovani in quanto ‘classe’, la loro autoassegnazione di una missione rivoluzionaria, la fiducia smisurata nel potere dell’immaginazione e della parola, l’idea della necessità di una ‘controcultura’. Sin dalla metà del secolo XIX, tutte le generazioni della fascia euro-americana hanno incontrato un evento storico attorno al quale hanno costruito una propria identità: le guerre di indipendenza in Italia e in Germania; i moti rivoluzionari del 1848; la guerra di secessione negli Usa; la guerra franco-prussiana; l’affaire Dreyfus; la rivoluzione russa del 1905; la prima guerra mondiale; la rivoluzione sovietica del 1917; il volontariato internazionale in Spagna e la Resistenza contro il nazismo e il fascismo. Certamente, stiamo parlando di conflitti. Tuttavia, in tutti questi casi si è trattato di conflitti ad ‘alto tasso di legittimazione ideologica’, di guerre sentite come giuste o giustificate dalla domanda di autodeterminazione dei popoli o dalla necessaria modernizzazione di società arretrate. Dunque, nel 1968, ciò che veramente fece da ‘collante’ di un’intera generazione fu il ricatto di una guerra nucleare, la quale condannava l’umanità alla perpetuazione di tutte le sue disuguaglianze e di tutte le sue ingiustizie. Anzi, in base a ciò potremmo persino arrischiare un giudizio: i ‘moti’ del 1968 furono sostanzialmente un idioma, un nuovo linguaggio teso a includere tutte le forme di espressione, intellettuale e corporea, che si erano posti il fine di generare un nuovo spazio politico niente affatto destinato alla conquista del potere sulla società, bensì al libero esercizio della comunicazione intersoggettiva. In buona sostanza, l’idea portante non fu quella di impadronirsi del potere, ma di costruire spazi di espressione più libera, che consentissero a ogni studente di divenire un soggetto di decisione e azione. Delineato in questi termini, c’è da dire che, in Italia, il ciclo della protesta durò, tutto sommato, assai poco: cominciò con l’occupazione dell’Università di Pisa nel febbraio del 1967, passò attraverso le occupazioni da parte degli studenti di altre sedi universitarie (Milano, Trento, Torino, Padova, Roma e Napoli) e si esaurì rapidamente il 31 dicembre del 1968, con la spettacolare e disperata manifestazione davanti alla ‘Bussola’ di Marina di Pietrasanta, allorquando la polizia aprì il fuoco per la prima volta, ferendo gravemente un dimostrante. La storia successiva sarà semplicemente quella di un ‘rifluire’ di minoranze, già precedentemente politicizzate, in formazioni marxiste-leniniste fortemente critiche nei confronti del ‘revisionismo’ di Pci e Psi, ‘frutti avvelenati’ che, con alterna fortuna, diedero poi vita a ‘gruppuscoli rivoluzionari’. Bisogna anche sottolineare come nei suoi mesi più ‘caldi’ il movimento studentesco abbia mostrato una duplice composizione: da una parte, si è notata l’adesione e la presenza di leader e militanti prestigiosi provenienti dai Partiti storici (Guido Viale e Gianmario Cazzaniga), dalle organizzazioni studentesche tradizionali (Marco Boato), dai nuclei nascenti della ‘Nuova sinistra’ (Adriano Sofri, Romano Luperini e Umberto Carpi); dall’altra, quella di una massa di giovani ancora privi di esperienze associative, ma ansiosi di estrinsecare la propria creatività e di liberarsi dalla ‘cappa’ di gerarchie che li stava opprimendo da ogni lato. Pertanto, ciò che ha umanamente alimentato una seppur breve fusione ‘olistica’ di tanti ragazzi fu una vera e propria ‘fiammata’ di comunitarismo cameratesco, allegro e fortemente inventivo, una sorta di ‘carnival estudiantin’ unito a un singolarissimo clima che si era venuto a creare durante le occupazioni: nelle sale e nei corridoi delle facoltà, i ragazzi suonavano la chitarra, dormivano nei ‘sacchi a pelo’, dipingevano murales e facevano all’amore, mentre nelle interminabili assemblee in cui si discuteva la ‘linea’ a nessuno veniva negata la performance individuale, l’esibizione narcisista, l’ora di notorietà sancita da un applauso o dall’approvazione di un documento, una mozione, un ordine del giorno. Tutto ciò, naturalmente, non esclude che il ’68 non debba essere analizzato anche nelle sue profondità più propriamente politiche. Ma, su tale versante, non è neanche possibile arrivare a negare come esso sia germogliato da un fortissimo disagio dovuto alle ‘strozzature’ dello sviluppo economico italiano, combinato a una staticità del nostro quadro politico che faceva letteralmente ‘cadere le braccia’. Si tenga nota, che nel nostro Paese le agitazioni presero le mosse dall’ostilità vero il progetto di legge n. 2314 – il cosiddetto ‘piano Gui’ – nel quale, nonostante un’intera legislatura di discussioni, tutte le evidenti e necessarie modifiche dell’ordinamento universitario si erano risolte in ‘briciole’ che continuavano fondamentalmente a negare ogni forma di autonomia degli atenei, rivendicando puntigliosamente il controllo dell’esecutivo su ogni provvedimento emanato dagli organismi accademici. In altri Paesi, i problemi sollevati dai movimenti studenteschi avevano toccato la scuola solamente per chiedere una maggiore agibilità e, nelle università, per sollecitare una reale indipendenza della cultura dal potere. Qui da noi, invece, la ‘battaglia’ contro il ‘piano Gui’ finì col rappresentare l’unico elemento di coagulo prevalente, il solo realmente di massa: le elaborazioni di giovani teorici, spesso assai pregevoli, rimasero tuttavia isolate, trasformando la ‘battaglia’ in negativo e facendole assumere caratteri di retroguardia. In Francia, questo non accadde affatto: dopo il ‘joli mai’, Georges Pompidou si affrettò a predisporre una riforma generale delle università che riuscì a porre fine al controllo ministeriale sugli atenei, tarpando per sempre le ‘ali’ a ogni genere di contestazione. Anche in Italia si tentò di imboccare la medesima strada con il ddl n. 612, il quale prevedeva un reclutamento più severo dei professori, l’obbligo del tempo pieno, l’incompatibilità con l’esercizio della libera professione per il personale docente, la pianificazione delle sedi con divieto di corsi decentrati e organi di autogoverno degli atenei fondati su meccanismi di rappresentanza autenticamente democratici. Ma i democristiani la ‘buttarono’ subito in ‘caciara’, accusando i socialisti di voler imporre una ristrutturazione sostanzialmente ‘libertaria’ degli atenei. E di quel progetto di legge non se ne fece mai nulla. Solo alla fine del 1969 si riuscì a giungere a un estenuante ‘palliativo’, denominato ‘Codignola uno’ – Legge n. 910 del 1969 – attraverso il quale si decise finalmente di liberalizzare l’accesso a tutte le facoltà per i diplomati di tutte le scuole secondarie superiori e si autorizzarono gli studenti a predisporre, tramite la presentazione di ‘statini’, piani di studio individuali difformi dalle propedeuticità, alle volte assai stucchevoli, determinate dall’alto. Tuttavia, anche il ‘Codignola uno’ rappresentava una legislazione ‘monca’, che arrivò con estremo ritardo e che, esattamente per questo motivo, non riuscì a impedire che le conseguenze del ’68 dilagassero, negli anni successivi, verso un pericoloso ‘gruppuscolarismo’ arrogante e opportunista. Ma cosa proponeva, in fondo, il ’68 nelle sue elaborazioni più interessanti? Alcuni pregevoli documenti configurarono situazioni e richieste molto diverse da luogo a luogo. La differenza che balza subito agli occhi passa tra i testi più radicali, preannuncianti una diluizione del movimento studentesco e il suo stesso scioglimento nella società a fini di una battaglia anticapitalistica generale, con le ‘tesi’ più ‘moderate’, le quali si attengono a una critica dell’organizzazione degli studi e a una serie di proposte di ristrutturazione delle università sostitutive di quelle avanzate dalle classi dominanti. Le
‘Tesi della Sapienza’, per esempio, presentate dai ragazzi dell’Università di Pisa al XVI Congresso dell’Unione goliardica italiana, dichiaravano che
“il movimento studentesco ha come propria controparte la classe borghese storicamente dominante” e che
“tale dominio di classe si manifesta attraverso una serie di mediazioni che sono espressione di un piano organico del capitale”. Ne derivava che Altri piccoli lavori, co
“seguendo il metodo di una costante verifica nelle lotte della propria analisi teorica, il movimento riconosce nella classe borghese la propria controparte e si organizza in sindacato studentesco”. Altri piccoli lavori, come il saggio degli studenti di sociologia dell’Università di Trento, dal titolo
‘Potere e società’, si spingevano oltre e, adoperando un linguaggio meno ‘intinto’ nel marxismo classico, inseguiva il miraggio di un generale affratellamento di tutti i ‘dannati della Terra’:
“Il ‘potere dei fiori’ è e rimane soltanto un’etichetta se non si sostituisce qualcos’altro ai… fiori, se si compiace del proprio isolamento, se vegeta all’interno di se stesso, se non comprende che nel mondo ci sono altri esclusi, se non si collega ad essi, se non crea il fronte dei ‘senza potere’ da opporre a coloro che il potere ce l’hanno e lo usano. Una riprova che il ‘potere dei fiori’ mostra, sul terreno pratico, i suoi limiti, è da ricercarsi nel diritto di cittadinanza che gli riconosce il sistema. Il sistema non compirà la ‘gaffe’ di impedire al ‘potere dei fiori’ di vivere: non si distrugge quel che non crea problemi, ciò che non rappresenta una minaccia, quello che può essere, al limite, utilizzato dal sistema stesso come elemento di ‘colore’, interessante a vedersi. Per il sistema, invece, occorre impedire che il ‘negro’ possa capire che la sua condizione è la medesima in cui versa il ‘giallo’, il sudamericano, il ‘rosso’, l’operaio, lo studente, occorre spezzare sul nascere la possibilità che l’intreccio delle mani che si stringono possa costituire una barriera, un fronte”. Di converso, gli aspiranti architetti del Politecnico di Milano si accontentarono di ridisegnare la propria figura professionale, perseguendo una radicale trasformazione didattica, della ricerca e dell’organico attraverso la rimessa in discussione dei
“rapporti istituzionali tradizionali”, mentre gli allievi della Cattolica, protagonisti di un’occupazione che aveva lasciato attonite le autorità, ma che traeva motivo dal semplice aumento delle tasse di iscrizione, si mostrarono ancor più minimalisti, reclamando essenzialmente
“la democratizzazione immediata dell’università, l’introduzione di rappresentanze di tutte le componenti negli organi di governo dell’ateneo, la garanzia della libertà di espressione culturale e politica”. Insomma, quando le agitazioni si esaurirono, più che le analisi prolisse dei ‘compitini teorici’ ora citati o dei numerosi ‘bollettini di guerra’ emersi dalle interminabili assemblee permanenti, del ’68 sopravvissero soprattutto alcune tecniche di comunicazione adottate nel vivo delle occupazioni e che, bene o male, divennero successivamente patrimonio delle femministe e degli operai ‘incazzati’: dal
‘dazebao’, il manifesto vergato con il pennarello a spirito in caratteri cubitali, utilissimo per l’informazione interna, al
‘samizdat’, una sorta di antenato della ‘newsletter’ stampata al ciclostile e recapitata manualmente a un numero ristretto di destinatari, dalla veglia notturna, spesso ravvivata da fiaccolate tanto amate dagli studenti cattolici, al
‘sit-in’, ovvero lo stazionamento inattivo in zone dense di traffico o davanti ad ambasciate, ministeri ed edifici pubblici. In ogni caso, già all’inizio del 1969, molti ‘sessantottini’ furono costretti a tornare a casa, recuperando la propria normalità quotidiana e ristabilendo un rapporto con le proprie famiglie e con il loro lavoro. Ma essi non erano più quelli di prima: alcuni iniziarono ad arrovellarsi portandosi dentro una sensazione di ‘vuoto’, come quello di chi ha vissuto un momento irripetibile; altri contrassero la malattia del reduce risentito per l’indifferenza vagamente ostile che li circondava; altri ancora, per fortuna la maggioranza, tentarono di mettere a frutto la scoperta che
“si poteva”: si poteva contare di più socialmente, si potevano assumere comportamenti giocosamente trasgressivi, si poteva disobbedire razionalmente, si poteva realizzare qualcosa con un gruppo di persone - una rivista, una mostra, un documentario - senza dover per forza ‘piegare la schiena’ o soggiacere ai riti della competizione individuale, trasferendo nuovi atteggiamenti morali e culturali nelle proprie professioni. Naturalmente, vi fu anche chi di ritornare a casa non ne volle sapere: persuasi dalla scoperta che si poteva fare la rivoluzione, rovesciare il sistema, sconfiggere l’imperialismo, gli elementi più estremisti trovarono, purtroppo, un’opportunità che li aiutò a uscire dal vicolo cieco in cui erano finiti con l’esplosione, verso la fine del 1969, della vertenza per il rinnovo contrattuale dei metalmeccanici: il famoso
‘autunno caldo’. Tale contrapposizione si era già aperta nel settembre del ’68, ma nel febbraio dell’anno successivo avevano iniziato ad accavallarsi astensioni dal lavoro ed episodi di scontro che resero incandescenti soprattutto le officine della Fiat di Mirafiori. Dopo uno stillicidio di scioperi, dagli inizi di maggio in poi, a Torino divenne abituale la presenza di molti studenti davanti ai cancelli delle fabbriche. Il giorno 27 di quello stesso mese, un corteo di operai e di studenti ‘infilitrati’ attraversò quasi tutti i reparti della fabbrica di Mirafiori al grido di
“Potere operaio”! mentre nel successivo mese di luglio, durante una manifestazione tenutasi in corso Traiano e indetta proprio dalla ‘Nuova sinistra’, scoppiarono incedenti che si conclusero con una trentina di arresti, un processo per direttissima e l’immediato licenziamento di 18 lavoratori condannati. In settembre, la Fiat sospese, dopo mesi di continue agitazioni a ‘gatto selvaggio’ o a ‘scacchiera’, 25 mila lavoratori e, cinque giorni dopo, si registrò un fallito tentativo di occupazione della fabbrica che aveva soprattutto segnalato la presenza di numerosissimi ‘esterni’, fatti entrare di soppiatto dai dipendenti. Durante l’autunno, le lotte si diffusero a macchia d’olio, fino al blocco totale della produzione. Ma finalmente, il 21 dicembre, anche a causa del clima di angoscia in cui era piombato il Paese dopo l’orrenda strage di piazza Fontana a Milano, i sindacati riuscirono a chiudere una vertenza che prevedeva 65 lire di aumento orario per tutti i lavoratori, l’aggiunta di un giorno al periodo annuale di ferie, il diritto a convocare assemblee sui luoghi di lavoro e la possibilità di concordare il ‘cottimo’ senza pretendere un aggiornamento dei tempi di lavorazione esecutiva ai livelli massimi ottenuti dagli operai cosiddetti ‘velocisti’. Comunque sia, quel che qui preme sottolineare è il fatto che l’autunno caldo rappresentò un momento di ‘sdoppiamento’ - e poi di aperta separazione - fra operai sindacalizzati e quelli ‘incazzati’, tra organizzativisti e ‘movimentisti’, che rischiò fortemente di indebolire il sindacato ufficiale, portando numerosi lavoratori sull’orlo del ‘baratro’ professionale, materiale e persino esistenziale (come ‘radiograficamente’ documentato da Elio Petri nel film: “La classe operaia va in Paradiso”). Ma più di ogni altra cosa, queste avanguardie - o retroguardie - studentesche, attraverso una campagna sostanzialmente incendiaria, nel proprio luddismo distruttivo e astratto ridussero ogni possibilità della nascita di una nuova cultura della professionalità operaia fondata sulla reale cognizione dei processi attraverso cui le singole mansioni si inseriscono nel complesso del ciclo produttivo e industriale. Insomma, quella della ‘Nuova sinistra’, diretta discendente del ’68, rappresentò solamente una perversa ‘torsione’ del marxismo - il ‘casino’ come coronamento della lotta e il parossismo intellettuale come forma di esportazione della ‘coscienza di classe’ – che approdò, il più delle volte, al corrodimento di un moto che era già sorto di per sé, in quanto innestato da una serie di istanze ‘normalmente modernizzatrici’: richieste di relazioni industriali più equilibrate, condizioni di lavoro meno asimmetriche rispetto ai livelli di reddito e di tenore di vita dei lavoratori dipendenti, abbassamento delle ‘piramidi gerarchiche’, contrattazione permanente degli aspetti normativi dei rapporti di lavoro. In conclusione, i percorsi attraverso i quali ‘scesero in campo’ determinati ‘movimentismi’, in Italia, studenteschi, operai e, in seguito, femministi, per non parlare dei successivi ‘frutti avvelenati’ rappresentati dalla formazione di gruppi terroristici di estrema sinistra e di estrema destra, furono determinati da una modernizzazione avvenuta a prezzo di ‘laceranti convulsioni’, di vite bruciate, di febbri dell’intelletto assolutamente sproporzionate. Altri Paesi, Stati Uniti e Germania in primis, nei medesimi anni hanno conosciuto un adeguamento quasi automatico delle istituzioni pubbliche e private alle nuove possibilità offerte dallo sviluppo economico: solamente l’Italia ha dovuto sopportare costi altissimi per riuscire a ottenere ciò che, nel resto del mondo, venivano considerate richieste ‘normali’ di miglioramento delle condizioni di istruzione e di lavoro. Per dirla in tutta franchezza, anche e soprattutto nei confronti di chi spesso si rifiuta di apprendere veramente quanto accaduto nel ’68, o di comprenderne l’importanza storico-politica addebitandogli solo le ricadute più negative, appare chiarissima la necessità, intellettuale e morale, di indicare con estrema durezza che, nell'analizzare determinati fenomeni non serve rinchiudersi nei comodi recinti di un qualunquismo egoistico interamente ripiegato sul ‘privato’, bensì occorre fare un sforzo al fine di allungare il nostro sguardo e interpellare con urgenza la nostra memoria storica. In Paesi come il nostro, in cui il ‘digiuno politico’ si è protratto per troppo tempo - prima con il fascismo, poi con le serrate oligarchiche e il professionismo ‘partitocratico’ - e in cui la doppiezza, la miopia e il perbenismo dell’etica dominante, custodita specificamente dalla Chiesa di Roma, hanno represso oltre ogni misura qualsiasi desiderio di felicità possibile, era francamente inevitabile che quella libertà civile e sociale, espressa e teorizzata dal
liberale Stuart Mill, non si facesse largo a colpi di ‘cannonate’. E nemmeno che non trascinasse con sé bande di irregolari decise a conquistare anche le felicità più impossibili, adoperando le armi in maniera tutt’altro che metaforica. Non lo si poteva evitare.
Direttore responsabile di www.laici.it e www.periodicoitalianomagazine.it