
Tentare in pochissimi mesi un’operazione di rilancio del riformismo laico rappresenta un’opzione che potrebbe rivelarsi, alla luce degli attuali sentimenti di forte delusione ‘antipolitica’ da parte dei cittadini, alquanto rischiosa. Tuttavia, tale tentativo dovrebbe comunque essere sperimentato, anche al fine di fornire al sistema politico, inteso in senso ‘tradizionale’ ma non oligarchico, la possibilità di giocarsi una propria partita di ‘riconquista’ di un ruolo sul panorama politico italiano, in grado di dare una ‘risposta’ alle distinte derive demagogiche - ‘grillismo’, ‘giustizialismo dipietrista’, ‘anarchismo libertario’ di Nichi Vendola - che sembrano presentarsi all’orizzonte del fronte progressista italiano. Ma essere laici e riformisti significa anche ribadire la propria fedeltà a un antifascismo ‘antico’, che sappia ricollegarsi con le nostre tradizioni moderate prefasciste - quella liberale e della nobiltà morale ‘mazziniana’ - al fine di presentare all’elettorato ‘potenziale’ un’area politica impregnata di austerità laburista e di umanitarismo civile. Per riuscire a far ciò, occorre innanzitutto cominciare a incardinare una innovativa piattaforma politica collettiva tra diverse formazioni politiche, ovvero un’alleanza in grado di garantire la propria fedeltà a un programma di profondo rinnovamento della ‘forma di governo’ italiana, con l’obiettivo di eleggere una nuova Assemblea Costituente che sappia riformare l’architettura istituzionale del nostro ‘Stato-Governo’ ispirandosi al semipresidenzialismo francese, ‘corretto’ da qualche strumento costituzionale tedesco (come, per esempio, quella ‘sfiducia costruttiva’ che porrebbe il sistema al riparo da interruzioni improvvise e anticipate delle legislature). Per un altro verso, questo nuovo riformismo laico dovrà porsi in una maniera autorevolmente critica nei confronti del Partito democratico, instaurando un dialogo basato sull’esigenza di un confronto di carattere ‘qualitativo’, ma non subalterno, con la cultura popolare italiana, nella coscienza che ogni problema sociale diviene un dilemma politico e che ogni faccenda economica si trasforma, sempre, in una questione di potere. Come la seconda Repubblica ha ampiamente dimostrato, il sistema politico italiano ha un gran bisogno di essere ‘elasticizzato’ e non di vedersi ‘irrigidito’ attraverso una polarizzazione selvaggia di forze contrapposte, in un contesto economico globalizzato di difficilissima interpretazione. Un nuovo riformismo laico-socialista dovrà perciò porsi anche la questione della diffusione di numerosi ‘contropoteri di controllo’ all’interno della società civile, al fine di far uscire il Paese da quella soffocante e spesso ‘truffaldina’ oligarchia economica che lo ha, di fatto, strangolato. Nella dialettica interna tra le diverse formazioni politiche che faranno parte dell’alleanza dovranno dunque essere bandite le diffidenze reciproche e le forzature polemiche, le quali finirebbero soltanto col rinverdire l’immagine di quel ‘circo Barnum’ di ‘gramsciana memoria’ che creerebbe facilmente nuovi scenari ‘psicodrammatici’. L’obiettivo è infatti quello di un robusto ‘fronte’ politico da porre al centro degli schieramenti nazionali, in grado di egemonizzare l’intera area laica senza ‘impaludarla’ in quello ‘stagno centrista’ che sta sostanzialmente impedendo al Partito democratico ogni definitivo ‘sfondamento’ elettorale tra i ceti moderati. Un sogno liberale, laico, riformista, libertario e socialdemocratico per poter essere tale non può vedersi ‘colonizzato’ dai post comunisti, bensì deve occupare nuovi spazi che non siano a mezzadria ideologica o a insediamento ‘fisso’, svincolandosi da quelle ‘psicotiche logomachìe’ sulla propria ragion d’essere che l’hanno spesso ‘ammanettato’ in uno sterile giuoco di ‘conventicole’ interessate esclusivamente alla conquista di qualche posizione di potere. Il riformismo laico e razionalista dev’essere restituito alla lotta politica armato di idee che possano rivelarsi utili per il successivo passaggio dell’Italia verso la nuova ‘Terza Repubblica’. Bisogna dunque far comprendere al Paese la necessità di far rimanere l’Italia nell’area economica dell’euro, chiedendo tuttavia all’Unione europea di riuscire ad attuare quell’unificazione politica in grado di garantire forme di ‘governance’ che possano soccorrere per tempo le economie degli Stati membri allorquando queste risultano esposte agli attacchi speculativi della finanza internazionale. La funzione di ‘presidio di frontiera’ di questo nuovo possibile ‘polo laico’ deve imperniarsi sulla consapevolezza della propria identità riformista che può trasformarlo in un interlocutore avveduto e curioso, ma non per questo dimissionario o cedevole. Il suo ruolo di ‘cerniera’ del sistema dei Partiti può infatti assicurargli un plusvalore politico dalle proporzioni tutt’altro che modeste. Ciò a patto che questa formula venga progettata con chiaroveggenza, sia cioè provvista di un ‘input’ strategico e preceduta da un dibattito di ragguardevole dignità culturale, al fine di rappresentare, per i cittadini, una nuova grande occasione per garantire equità distributiva, uguaglianza assistenziale, giustizia fiscale e tributaria. L’intrinseco valore di questa ‘intesa’ è quello di porre, una volta per tutte, il sistema politico al riparo da ogni genere di minaccia di carattere eversivo o rivoluzionario, stigmatizzando al contempo, con severità, il modello di industrializzazione che si è imposto a causa della latitanza dei poteri pubblici della seconda Repubblica. Una serie di riforme di struttura, in grado di modificare la natura stessa dello Stato, debbono, a questo punto, essere tentate, diventando l’orizzonte strategico più serio e irrinunciabile. Nessuno si faccia promotore della tesi qualunquista della preminenza e della sufficienza del programma di Governo: la piattaforma programmatica che dovrà emergere dal dibattito di questi mesi non deve dar luogo a nuovi arroccamenti, a improvvise controffensive, ad ‘agguati’ basati intorno a sfide personalistiche o di leadership, bensì deve incentrarsi intorno a una ‘cabina di regia’, un ‘alto ufficio politico’ in grado di approfondire e discutere gli aspetti sostanziali di ogni singola questione, nella consapevolezza di come gli sviluppi e gli svolgimenti del mercato siano stati corretti, nel ventennio appena trascorso, da interventi discontinui e non sempre coordinati di politica economica, i quali hanno accentuato il carattere ‘dualistico’ dell’economia italiana immobilizzando, sotto l’aspetto territoriale, la cronica differenza di ‘velocità di sviluppo’ tra nord d’Italia e Mezzogiorno, nonché generando una ‘compressione’ dei consumi più essenziali a beneficio di quelli più opulenti, oltre a un vero e proprio ‘sfasamento’ tra l’arricchimento della società e il suo effettivo progresso civile e sociale. Nel solco del più alto riformismo laico e socialista dobbiamo tornare a patrocinare una programmazione dell’intervento pubblico che permetta di superare gradualmente gli squilibri e mantenere, attraverso una razionale ‘politica dei redditi’, tassi elevati ed equilibrati di crescita, anche nelle fasi congiunturali economicamente sfavorevoli. Il continuo rinvio di riforme essenziali per la creazione di un sistema politico più moderno, maturo, liberaldemocratico, di tipo occidentale, non deriva solamente dalla limitata consistenza elettorale dei laici, bensì anche da una certa mancanza di coraggio nel denunciare l’esigenza di dover ‘bonificare’ le istituzioni dai suoi ‘cattivi servitori’, tenendo aperto un contenzioso permanente con gli altri Partiti sul buon andamento della macchina pubblica attingendo alla competenza di funzionari e di tecnici politicamente neutrali, ma ligi alla lettera allo spirito delle leggi e della Costituzione. In tal senso, personalmente mantengo alcune ‘suggestioni’ liberali che mi lasciano intravedere alcuni limiti metodologici del riformismo: non si può sempre pretendere di poter riformare tutto e tutti, a ogni costo, senza mai sopprimere organi, enti o magistrature inutili - o addirittura creandone delle nuove - nell’erronea convinzione che l’obiettivo di una buona efficienza dello Stato possa essere raggiunta semplicemente incoronando qualche ‘esperto d’area’ da affiancare ai manager e ai ‘tecnici’. Su tale terreno, a mio parere resta valida quell'idea di ‘rivoluzione liberale’ che sarebbe in grado di liberarci da mentalità arcaiche, da determinate presunzioni di identificazione collettiva con un’univoca mentalità morale e ‘naturale’ della società, nella pretesa di poter annettere l’intera collettività a un’unica visione del mondo, a un solo modo di poter intendere e impostare la vita privata, i rapporti sentimentali e sessuali, i distinti legami familiari o di semplice solidarietà collettiva. Si tratta di una subcultura assoluta, a ‘senso unico’, egoistica più che ‘edonista’, la quale ha sottoposto la società italiana a una modernità più patita che vissuta consapevolmente, a un’accettazione ipocrita di costumi instauratisi inavvertitamente, mantenendo la maggior parte della cittadinanza nella più totale mancanza di ogni capacità di elaborazione e di interpretazione culturale di autonomi e coerenti modelli di valore.
Direttore responsabile di www.laici.it e di www.periodicoitalianomagazine.it