
Sono in molti, di recente, a lamentare una sorta di ‘assedio’ da parte della cosiddetta ‘antipolitica’ rispetto alle consuete modalità di espressione di idee e indirizzi considerati più consoni o, per lo meno, più indiretti, genericamente allusivi, meno aggressivi. Tuttavia, la questione non investe solamente i nuovi ‘grillini’, il ‘dipietrismo’, o lo stesso aziendalismo di matrice ‘berlusconiana’, bensì possiede radici profonde, che sanciscono il grave fallimento culturale di una società come quella italiana la quale ormai necessita, con estrema urgenza, di una vera e propria ristrutturazione civile, in grado di riformulare comportamenti e linguaggi, modi di vivere e costumi, nuove metodologie di gestione e di analisi. Innanzitutto, i molteplici processi omologativi imposti nel nostro Paese attraverso la televisione hanno generato un ‘parlato medio’ tristemente omogeneo, che si è sovrapposto al vecchio ‘italiano popolare’ - il quale si innestava su una serie di varietà lessicali, fonetiche e sintattiche - mediante una semplificazione della grammatica, un restringimento del vocabolario, una fioritura di neologismi, un forte ingresso di ‘moduli’ comunicativi mutuati da linguaggi estremamente ‘settoriali’. In questo lento, ma inesorabile, processo, particolare rilevanza hanno assunto i cosiddetti ‘costrutti non unitari’, che ben si adeguano alla scarsa competenza dei parlanti riflettendo, altresì, una standardizzazione di stampo fortemente ‘massificatorio’. Mi riferisco, in particolar modo, alla sostituzione del congiuntivo con l’indicativo presente in dipendenza del verso ‘putandi’ (“credo che sei guarito”); alla scomparsa del passato remoto a vantaggio di quello prossimo (“vent’anni fa ho fatto l’appendicite”); al ricorso all’imperfetto indicativo con valore di condizionale presente (“cercavo Pietro”); all’uso dell’indicativo presente al posto del futuro, parente stretto del ‘presente continuo’ di contaminazione anglosassone (“domani vado a sciare”); alla caduta dell’articolo determinativo davanti agli aggettivi possessivi (“mio zio”); al passaggio da ‘egli’ a ‘lui’ come pronome personale soggetto; alla generalizzazione del ‘che’ polivalente (“ho affittato una casa che si vede il mare”); al frequente uso degli anacoluti (“Io il latte non lo digerisco”); all’assuefazione all’ellissi e alla prolessi (“mi sono preso ‘un’ mal di schiena”, “questo mi conforta, che sei sempre in buona fede”). Le terminologie e le locuzioni specialistiche della scienza, della politica, del giornalismo e della pubblicità hanno contribuito a ‘scardinare’ definitivamente il vero impianto normativo della nostra lingua, esaltando la funzione ‘nominalistica’ a scapito di quella ‘verbale’. Ciò ha finito col generare una lunga serie di prefissazioni e di suffissazioni, semplici o cumulative (cogestione, riconversione, ipertensione, biodegradabile, anticoncezionale, fotomontaggio, subcontinente, autocritica, neoplasia, microstruttura e così via) le quali, assorbite dal normale linguaggio colloquiale, si traducono in fattori di corrompimento sia del pensiero, sia dell’interscambio dialettico. E non tanto perché danno luogo a buffe ‘ridondanze’ (“ho fatto l’elettocardiogramma al cuore”, “ho acquistato la pillola anticoncezionale in farmacia”) quanto perché producono metafore ‘esornative’ che costellano i più ambigui e ciarlataneschi messaggi retorici. Analogamente, le assimilazioni di pleonasmi di origine burocratica hanno finito col generare una sorta di ‘antilingua’, la quale ci ha obbligato ad assistere a una vera e propria fuga dalle passioni, all’abolizione di ogni fattore esperienziale, a una ricerca disperata di una ‘impassibilità espressiva’ tesa a celare il forte timore psicologico nei confronti di ogni genere di responsabilità civile e sociale. E’ il caso, per esempio, di chi dice “preadolescente” anziché “ragazzo”, “in data odierna” anziché “oggi”, “ho effettuato” anziché “ho fatto”. Un simile modo di comunicare non rispecchia solamente l’aridità, l’avarizia morale e la dissimulazione tipica degli italiani, né l’inevitabile povertà di una ‘koinè’ che, per essere effettivamente tale, per forza di cose tende ad arrestarsi sui livelli più bassi, bensì obbedisce a determinati istinti psicologici di difesa contro interlocutori ritenuti culturalmente più esperti. Di tutto questo ne ho avuto prova diretta sin dai primi anni della mia personale esperienza giornalistica, allorquando venivo inviato da televisioni o emittenti radiofoniche, con tanto di ‘troupe’ al seguito, al fine di registrare i pareri di cittadini o di personaggi televisivi anche assai affermati: messi di fronte a un microfono o a una telecamera, quasi tutti gli intervistati, nel rispondere, ricorrevano a ‘paradigmi di derivazione’ intersecati con una infinità di pause, esitazioni, sequenze ‘fàtiche’ (“ecco”, “in effetti”, “capito, no?”, “vero?”, “per così dire”), che nascondevano veri e propri complessi di inferiorità e che servivano disperatamente a mantenere in ‘asse’ costruzioni semantiche e sintattiche decisamente deboli. Ciò evidenzia, brutalmente, un amalgama linguistico che non è stato governato in alcun modo durante i lunghi decenni di dominio democristiano della Pubblica istruzione. Il mondo della scuola, infatti, si è ritrovato letteralmente preso in ‘contropiede’ da un’italianizzazione lutulenta, che ha portato intere ‘schiere’ di insegnanti a tollerare i ‘dialettismi’ più grevi confondendo il ‘bilinguismo’ con la ‘diglossia’ o, viceversa, ad asserragliarsi dietro a un ‘purismo’ anacronistico il quale, paradossalmente, ha finito col respingere proprio l’apporto delle culture più autentiche e tradizionali del nostro Paese. Il fenomeno è ben descritto nelle pagine di
‘Calcinaccio’ di Giuseppe Cassieri, un buon libro dei primi anni ’60 del secolo scorso in cui un professore di italiano si vede costretto a sottomettersi alla revisione dei compiti in classe, già corretti da lui, da parte di un preside e di un segretario ignorante, i quali non accettano “man mano”, al posto di “a mano a mano”, esigono che “tratturo” venga sostituito con “sentiero” dimenticando D’Annunzio e il semplice fatto che un tratturo di campagna non sia propriamente un sentiero. Ma il ‘passo’ più illuminante rimane quello dell’incidente che capita allorquando il segretario amministrativo si trova di fronte alla frase “le pecore si ammirigliano per il caldo e la stanchezza” ed esclama:
“Che significa? Questo non è più estro, ma lingua ostrogota: facciamo pure l’Italia dal basso, democraticamente, ma entro certi limiti, eh”! “Ecco, segretario”, si oppose il professore, “su per le montagne e le colline dell’Italia centrale, a meno di due ore di macchina da Roma, le potrebbe capitare di assistere alla scena descritta dal nostro alunno. Ci faccia caso: centinaia di pecore che, d’un tratto, si fermano, diventano simili a rocce e si fanno ombra reciprocamente: corpi contro corpi, corna contro corna, velli contro velli. Questa operazione spontanea delle bestie viene chiamata, da chiunque in quelle zone, pastori o professori, ‘ammirigliamento’. Ammirigliare, segretario, dal latino ‘ad meridium’, meridiano, meridiana, meriggio, meriggiare…”. Svolgendo un ruolo di tramite fondamentale fra l’uso colto e letterario della lingua italiana e quello del cosiddetto ‘linguaggio parlato’, anche il giornalismo di casa nostra ha le sue gravi responsabilità nel non riuscire a fornire una risposta culturale decente alla nostre storiche crisi di identità. In una società immobile, ma multiforme, come la nostra, il numero di avvenimenti e di notizie degne di racconto aumenta a dismisura, ma la cosiddetta ‘tirannia degli spazi’ costringe da sempre il mondo dell’informazione a una sorta di ‘economia linguistica’ che va dai prefissoidi adoperati come sostantivi (neuro, frigo) alle combinazioni asindetiche (legge-stralcio, udienza-fiume, notizia-bomba), dalle ellissi con caduta di preposizione (vertenza-Fiat, busta-paga, ufficio-immigrazione), alla nominalizzazione degli aggettivi (i preziosi, l’utilitaria, il direttivo, i mondiali), dalla soppressione del complemento oggetto (il terzino passa al centro), alla sostituzione della proposizione relativa con singolari participi-presente (aventi diritto, facenti funzione). Tali forme di brevità allusiva riguardano, spesso se non soprattutto, la titolazione degli articoli, in cui imperversano i participi irrelati (Ucciso dalla mafia), gli astrattismi deverbalizzati (Consulto a Bruxelles), la bipartizione in enunciati distinti (Tasse: il solito rinvio), l’accorciamento da sineddotiche (Washington rifiuta il dialogo), la caduta del verbo principale (L’Oscar a Roberto Benigni), l’infinito gnomico (Salvare Venezia), l’avverbio interiettivo (No all’autoritarismo), la falsa apposizione (Ivan Basso vincitore inatteso). Pertanto, nel nostro stravagante genere di giornalismo, un minimo di concisione la si ottiene esclusivamente tramite brutali ‘potature’ morfologiche. Le esigenze di condizionamento dei testi e di presentazione in forma dubitativa delle notizie richiedono una sintassi ormai totalmente priva di regole, in cui la coordinazione per incidentali convive con l’ipotassi multipla, i costrutti nominali con i verbi fraseologici, i periodi uniproporzionali con congiuntivi retti dai “sembra” o dai “si ritiene”. In tutto questo caos non manca, tra l'altro, un pesantissimo afflusso di forestierismi totalmente esogeni rispetto al contesto della società italiana: i blue-jeans, il copywryter, il ghost-wryter, il free lance sono abitudini, cose o professioni importate dalle società più evolute della nostra, che dunque non erano previste nella lingua italiana, poiché non esistevano proprio nella realtà. Dunque, possono essere designate solo con termini stranieri di difficile comprensione, a parte i casi, a dir il vero assai poco numerosi, dei ‘prestiti adattati’, come per esempio le parole: ‘grattacielo’ o ‘editoriale’. La cronaca, inoltre, quella composta da omicidi, incidenti, processi, rapine e gare sportive, in genere rappresenta eventi che finiscono, alla fine, tutti col rassomigliarsi e che interessano la fascia di lettori maggiormente contagiata dalle attuali metodologie di comunicazione post-ideologica di massa. Di conseguenza, la via migliore per rappresentarli diviene quella di ‘colorirli’ con forme di aggettivazione enfatica (tragica fatalità, imprudenza criminale, barbaro delitto) e la maniera di stenderne il resoconto diviene quella di obbedire a uno schema ‘fisso’ (il colpevole, la vittima, il complice, i soccorritori) ad altissimo grado di fossilizzazione e di ripetitività. L’inquinamento definitivo, infine, è quello avvenuto nel mondo della politica, in cui tradizioni serissime, assolutamente radicate all’interno del nostro patrimonio culturale nazionale, sono state letteralmente divelte da quello che generalmente definisco ‘pseudopragmatismo aziendalistico’, ovvero da un modo di esprimersi puramente motivazionale, maggiormente diretto a provocare chi ascolta soffocando ogni istanza di dialogo effettivo. Nella sostanza, si tratta di un ‘neo-politichese’ che non è destinato a realizzare alcunché di ciò che promette o, più genericamente, esprime, di un ‘gergo’ specialistico sviluppatosi in una funzione sostanzialmente persuasiva, di puro condizionamento delle coscienze, un ‘canone’ linguistico che tende a espandersi esclusivamente verso l’esterno, poiché chi lo produce vuole mantenere con coloro che lo ‘consumano’, ovvero che lo votano, lo leggono o lo seguono per televisione, un rapporto assolutamente lineare, diretto. Ma si tratta di una linearità aberrante, ‘verticale’, dall’alto verso il basso, puramente tesa a impressionare, a nascondere, a mistificare. L’espressività di un simile linguaggio è mostruosa poiché clamorosamente stereotipata, fissata in rigidità che sono esattamente l’opposto della vera espressività, la quale, per propria natura, risulta invece ‘biunivoca’, o si offre a distinte interpretazioni per ogni singola parola. La finta espressività della politica è solamente la punta massima di un nuovo linguaggio che intende sostituire quello umanista, un cinismo di un’intensità assolutamente nuova, maturato a lungo in questi ultimi decenni, il quale afferma, nella sua laconicità di fenomeno, come la seconda Repubblica sia stata edificata all’interno di quell’entropia imprenditoriale in cui moralità, cultura, identità, intelligenza, pensiero, creatività e idee rappresentano solamente concetti destinati a essere strumentalizzati per fini puramente utilitaristici, sopravvivendo in quanto ‘forme’ sfruttabili a senso unico, finalizzate al più bieco dei pragmatismi di natura personalistica. Si tratta di un ‘interesse’ che, in realtà, non solo rappresenta un nuovo modo attraverso il quale pensiero, lingua e cultura vengono ridimensionati, ma che finisce con l’ideologizzare, quindi col rendere totalmente vuoto, il linguaggio stesso, prestandosi a un’interpretazione autoritaria, univoca, assoluta, dunque falsa, della realtà. In conclusione, per mezzo dei giornali, della televisione e della politica, la gente oggi parla di più in lingua italiana, rispetto alle vecchie forme dialettali e idiomatiche di origine, ma sempre peggio. Com’è logico succeda a un amalgama linguistico che non è stato governato in nessun modo e che procede per forme di ‘agglutinazione cellulare’ assolutamente spontanee e astratte, sottratte a qualsiasi forma di controllo culturale.
Direttore responsabile di www.laici.it e www.periodicoitalianomagazine.it