Di recente si è tenuta, a Roma, la mostra: “Avanti popolo – Il Pci nella storia d’Italia”. L’abbiamo visitata, ma vi abbiamo trovato più agiografia che Storia. Di molti, troppi avvenimenti non v’era alcuna traccia, o quasi. Qualche esempio: Katyn (1940): in merito al massacro di 22 mila polacchi compiuta dall’Urss, ma addebitata ai tedeschi, silenzio totale. Eppure, Palmiro Togliatti e compagni conoscevano i fatti; Resistenza e guerra civile (1943/1946): viene esaltata la Resistenza., ma ignorata la guerra civile, come se i libri di Giampaolo Pansa non significassero nulla; Foibe (1945): silenzio totale. Anzi, ‘tombale’, letteralmente; Budapest (1956) e Praga (1968): sono trascorsi 55 anni dall’invasione dell’Ungheria e 43 dalla “normalizzazione” della Cecoslovacchia. Protagonisti: i carri armati russi e del Patto di Varsavia. Come lessero (e leggono tuttora) quei fatti il Pci e i Partiti eredi? Ecco come se la cava l’opuscolo di presentazione della mostra (pag. 8): «Il PCI fu parte integrante della storia del comunismo internazionale. Il suo rapporto con l’Unione Sovietica configurò a lungo un “legame di ferro”. Togliatti fu un dirigente del movimento comunista internazionale fin dagli anni '30 e stabilì con Stalin una stretta relazione. Il legame organico con il blocco sovietico continuò ad avere per il Pci un peso rilevante anche dopo la morte di Stalin e dopo l’invasione dell’Ungheria nel 1956. Fu dal 1968 in avanti, dopo la repressione della “Primavera di Praga”, che il Pci realizzò un progressivo distacco dal comunismo sovietico». Tutto qui. Ungheresi, Cecoslovacchi, Polacchi e altri popoli dell’est europeo vissero una doppia, tragica, esperienza: liberatisi dal dominio nazista di Hitler, finirono sotto il comunismo di Stalin. Col beneplacito del Pci. Proviamo a ricostruire quel decennio utilizzando gli scritti dei molti esponenti del Pci schieratisi “democraticamente” con l’oppressore e dei pochi schierati con gli oppressi.
Budapest, 1956Pietro Ingrao, all’epoca 41enne, in “Volevo la luna” (Einaudi, 2006) scrive: «A Roma nel gruppo dirigente fummo in molti a non afferrare il senso della rivolta ungherese. Io, purtroppo – sbagliando gravemente – fui tra questi. Proprio in quei giorni, con roboanza cruciale, scrissi per l’Unità un editoriale che si intitolava: “Da una parte della barricata”, schierandomi contro le forze nuove che scendevano in lotta per la libertà dell’Ungheria. Fu un errore grave di cui serbo un ricordo cocente». Pietro Ingrao ha ammesso i suoi errori solo dopo 50 anni.
Massimo Caprara, all’epoca 34enne (già segretario di Togliatti e membro della Direzione del Pci) racconta (fonte: il Giornale dell’11/05/06): «Togliatti mi avvertì il 2 novembre 1956. “Sono entrati a Budapest”. “Viva l’Armata Rossa”, urlò Giuliano Pajetta contro Gaetano Martino, ministro degli Esteri. “Noi non possiamo ignorare la funzione dell’esercito sovietico liberatore” proseguì Pajetta, provocando un tumulto. Il grande moto ungherese veniva così manipolato da L’Unità che scriveva: “I ribelli controrivoluzionari hanno fatto ricorso alle armi. La rivoluzione socialista ha difeso con le armi se stessa, com’è suo diritto sacrosanto. Guai se così non fosse”. Il colmo si ha con la CGIL. “L’intervento sovietico contraddice i principi che costantemente rivendichiamo nei rapporti internazionali e viola il principio dell’autonomia degli Stati socialisti”. Così dice il testo approvato all’unanimità. Prima firma: Giuseppe Di Vittorio, segretario generale. Incontro Di Vittorio sotto il portone di Botteghe Oscure, convocato d’urgenza da Togliatti, che subito gli dice: “Il documento della CGIL va ritirato. Devi essere tu a correggere la posizione. Lo farai nel prossimo comizio. A Livorno, domenica ventura”. “Ma è un comizio sindacale unitario, non del partito” dice Di Vittorio. “Meglio”, replica Togliatti. Di Vittorio, a Livorno, rinnegò se stesso. Nonostante simili gravissimi eventi, - conclude Massimo Caprara, scomparso nel 2009 – io allora non uscii dal Partito. Uscii, invece, nel 1968, dopo l’invasione russa di Praga, quando fui radiato dal Pci. Non mi assolvo. Porto il peso dei miei errori e della colpa della mia ideologia».
Primavera di Praga, 1968All’inizio del 1968, Alexander Dubcek fece sperare che l’oppressione stalinista diventasse un “socialismo dal volto umano”. Seguì la “Primavera di Praga”, brevissima purtroppo. Dopo l’intervento dei carri armati, la Cecoslovacchia fu “normalizzata” fino al 1989. Lo sdegno internazionale per i metodi sovietici raggiunse l’apice il 16 gennaio del 1969, quando lo studente Jan Palach si diede fuoco in piazza San Venceslao, a Praga, per protestare contro l’occupazione sovietica. Jan Palach morì tre giorni dopo per le gravi ustioni riportate. I dirigenti del PCI, tranne pochissimi, tacquero. Colpevolmente. Ed epurarono chi dissentiva. Nel novembre del 1969 il Pci espulse Luciana Castellina, Rossana Rossanda, Massimo Caprara, Valentino Parlato e Luigi Pintor de “il Manifesto” che il 4 settembre 1969 aveva “osato” pubblicare un articolo intitolato “Praga è sola”. Finalmente, Caprara abbandonò l’ideologia comunista. Fausto Bertinotti, commentando i fatti della “Primavera di Praga” il 22 ottobre 2008 disse: «Chi poteva, non fece abbastanza, chi avrebbe dovuto accomunare la propria protesta a quella dei giovani cecoslovacchi, volse lo sguardo altrove». Insomma, il Pci fu ‘distratto’. Piero Fassino, 19enne nel ’68, scrisse nel 2003: «Torino, 1966/1969: nel momento in cui entro all’Università, scelgo il Pci. Non ho simpatia per i regimi comunisti, di cui rifiuto totalitarismo e oppressione. Al momento guardo con entusiasmo alla Primavera di Praga, che solleva tante speranze nella possibilità che il comunismo assuma un “volto umano” ed evolva verso un approdo democratico, decidendo di aderire al Pci all’indomani della sua condanna dell’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia» (da “Per passione”, Rizzoli, pp. 36-37). Il 22 ottobre 2008, a Montecitorio, Piero Fassino aggiunse testualmente a quanto scritto nel 2003: "Il Pci condannò l’invasione ma non il modello comunista". Proprio noi di laici.it chiedemmo a Fassino: "Come mai i pochi che compresero Praga (gruppo de “il Manifesto” e Massimo Caprara) furono radiati dal Pci e nessuno ebbe il coraggio di Pietro Nenni, che già dopo i fatti di Budapest (1956) aveva restituito il “Premio Stalin”conferitogli nel 1953"?. Fassino ci rispose laconicamente: "La Storia ha dato ragione a Luciana Castellina e compagni. Quanto a Nenni, non posso pronunciarmi su chi non era nel Pci". Il Pci (e i suoi odierni eredi) non rendono un bel servizio alla Storia con la “S” maiuscola. Ormai, la quasi totalità degli italiani conosce la Storia e sa che occorre condannare sia il nazismo, sia il comunismo come due fenomeni ideologici sostanzialmente speculari che hanno causato rispettivamente 45 e 105 milioni di morti violente. Li distinguono soltanto la durata e il colore della camicia: nera una, rossa l’altra. Troppi politici ancora in attività hanno avallato (e spesso negato) foibe, interventi armati nel centro e nell’est europeo, il muro di Berlino (1961/1989), piazza Tien An Men (04/06/1989): quando riconosceranno i propri errori e la loro disinformazione?