Nelle librerie, in questi ultimi periodi, si possono trovare con maggior frequenza i libri dell’autrice Irène Némirovsky. Nata in Ucraina e di religione ebraica, l’autrice di queste splendide opere letterarie si convertì al cattolicesimo nel 1939. La sua vita e il suo lavoro si svolsero principalmente in Francia. La scrittrice, di cittadinanza francese, fu arrestata dai nazisti in quanto ebrea e venne deportata, nel luglio del 1942, ad Auschwitz, dove morì un mese più tardi vittima del terribile virus del tifo. Il marito, Michel Epstein, che nel frattempo aveva cercato di farla liberare, verrà ucciso con il gas nel novembre dello stesso anno poco dopo il suo arrivo ad Auschwitz. Il merito di aver riscoperto le qualità artistiche di Irene va alla casa editrice Adelphi, che ha iniziato a pubblicare le sue opere agli inizi del 2005. Infatti, dopo l’arresto dei loro genitori durante la guerra, le figlie Élisabeth e Denise Epstein si nascosero grazie all’aiuto di alcuni amici di famiglia, portando con loro i manoscritti inediti della madre, fra i quali “Suite francese”, “Jezabel” e il “Calore del sangue”. Uno di questi, ‘Jezabel’, colpisce particolarmente per il fatto che, nonostante sia stata una donna degli anni '30 del secolo scorso a scriverlo, è riuscita a farlo usando un implacabile senso critico e grande precisione dei particolari. Una precisione che è scandita in ogni pagina del romanzo. Ambientato nella Parigi anni ’30, l’opera racconta della bellissima e cinica Gladys Eysenach, la protagonista del libro, pronta a contraffare documenti e a uccidere freddamente pur di non rendere pubblica la sua vera età. Crimini nei quali la scrittrice fa confluire tutto l’odio covato verso la propria madre, sublimandolo nella scrittura, che dunque diventa una via di liberazione e l’occasione per parlare di conflitti insanabili tra madri e figlie. Probabilmente ispirata, nei contenuti e nella forma, dalla decadenza della società francese che le provocava indignazione, essa stessa ripercorre a ritroso la storia di Gladys per confidare al lettore le proprie motivazioni più intimiste. Il libro scorre con un linguaggio semplice e plateale, mutuato dalle rappresentazioni teatrali che la stessa Némirovsky frequentava con il suo entourage dell’alta borghesia ebrea. All’interno di questa narrazione, difatti, l’autrice ritaglia per sé il ruolo del suggeritore che, nascosto dietro le quinte, sussurra al personaggio le parole giuste per costringerlo ad ammettere alcune verità. Un susseguirsi di colpi di scena, in cui il personaggio, nel corso del racconto, viene spogliato delle proprie bugie e, al tempo stesso, il ruolo di madre che essa stessa rappresenta e che permane indenne nel ricordo della scrittrice viene demolito senza pietà. Ma la convivenza di questa doppia figura femminile di donna e madre è assicurata dalla capacità di far scivolare sulla pelle della protagonista tutto ciò che gli capita “senza patirne troppo il dispiacere”, come appunto dice nel libro, poiché non era permesso piangere, né mostrare sofferenza. Gladys doveva ricordarsi che il pianto le disfaceva il trucco e ciò la mostrava debole e impresentabile agli occhi degli uomini: “L’avaro non pensa ad altro che al suo oro, l’ambizioso agli onori, la donna non può rinunciare al suo mestiere di femmina” afferma la protagonista, posseduta dal desiderio di piacere e dall’ossessione dell’età, che cerca sempre di rassicurarsi attraverso le attenzioni degli uomini. Saltano subito evidenti, nel personaggio principale, un’incredibile disinvoltura, spesso brutale, gli amplessi frettolosi, avidi, subito dopo celati da una fredda apparenza. Una donna dalle spiccate doti seduttive che nasconde in modo spregiudicato la sua vera identità, sia interiore, sia anagrafica. Sembra proprio, in effetti, che Irène Némirovsky abbia demonizzato l’insorgere di figure di donna che, come effetto collaterale dell’emancipazione, snaturano se stesse mentre assumono modi maschili e puntano all’apparenza, rifiutando proprio quei caratteri femminili in grado di rendere più vivibile la società, invece di contribuire alla sua decadenza. Un libro scritto nel 1936, ma ancora tremendamente attuale.