Chiara ScattoneL’università italiana sta vivendo un periodo di profonda crisi. Siamo in molti ad essercene accorti, già da qualche anno. La riforma che ha introdotto i due cicli, il 3+2, non ha sortito l’effetto desiderato: avvicinare il modello universitario italiano a quello europeo. L’obiettivo iniziale, almeno per quanto ci si augurava, sarebbe dovuto essere quello di invogliare e di permettere agli studenti italiani di varcare le frontiere per frequentare l’ultimo biennio, o parte di esso, presso le università d’Europa, al fine di accrescere le competenze linguistiche (che tra gli italiani sono seriamente scarse) e per dare avvio a periodi di scambio culturali proprio in linea con le intenzioni del legislatore europeo. Tutto questo non è avvenuto. Anzi, ne è sortito un risultato opposto: maggiore immobilità studentesca, decadimento della qualità degli insegnamenti, aumento degli iscritti e di corsi di laurea dai nomi assurdi poiché legati a scelte imprenditoriali che poco hanno a che fare con la cultura, l’educazione e la formazione universitaria. L’università ha cercato di svecchiarsi, ma anziché demolire il sistema di ‘baronato’ clientelare e preistorico all’interno del quale le nomine e gli incarichi erano (e sono) assegnati a seconda dei ‘favori’ (o della parentela) che il candidato garantiva direttamente o indirettamente al dominus, la riforma ha generato un mostro che sforna ‘dottori’ che poco sanno e molto poco sono in grado di fare. L’obiettivo è sembrato soprattutto quello di fornire un titolo a tutti, anche a chi con quel titolo aveva poco a che vedere. Il risultato? Una massa di laureati che non riescono a trovare un posto di lavoro decente (anche perché oramai solo precario e confuso) e che non sanno scrivere in un italiano corrente, né sono in grado di parlare lingue straniere, perché più che puntare sulla qualità dell’insegnamento hanno preferito conquistare un titolo ‘a punti’. La scelta delle materie avviene in base al numero di CFU che quel insegnamento garantisce. E la formazione si riduce a un mero calcolo aritmetico. I docenti spesso sono rimasti gli stessi, i concorsi si sono arenati e tra chi è riuscito a ottenere un incarico, la maggior parte non l’ha ottenuto solo ed esclusivamente meriti accademici e deve oltretutto mantenere una sorta di ‘sudditanza’ al proprio ‘professore-dominus’, che lo ha sponsorizzato. Altri, poi, subiscono l’umiliazione di un contratto a tempo determinato, dunque di un insegnamento a tempo determinato, che svilisce (soprattutto dal punto di vista economico) e annichilisce l’individuo e l’insegnamento, non garantendo, peraltro, un minimo di continuità agli studenti che vedono avvicendarsi alla stessa cattedra professori più o meno giovani. Il futuro dei ricercatori è divenuto, da un lato, sempre più sottoposto ai ‘desideri’ di ‘baroni’, giovani e anziani, che decidono indiscriminatamente della sorte della ricerca e del destino degli studenti, disponendo e disfacendo concorsi pubblici sempre più pilotati; dall’altro, è tenuto ‘sotto scacco’ dalle decisioni di un ministero composto, per lo più, da manager che poco hanno a che vedere con la ricerca e la formazione universitaria, condannando così a morte definitiva la ricerca accademica stessa stabilendo contratti per ricercatori a tempo determinato, 3+3, alla scadenza dei quali, se non si è raggiunto l’agognato titolo di professori associati, si è definitivamente fuori dal mondo universitario. Come può pretendere l’Italia di sopravvivere con un simile sistema accademico? Ci si stupisce e ci si preoccupa della continua migrazione dei ‘cervelli’ all’estero, ma quest’ultimo fenomeno colpisce una piccola parte del mondo dei ricercatori: la maggior parte rimane e combatte nel Belpaese, fronteggiando umiliazioni e sfide che si trasformano in ‘muri di gomma’ insormontabili. Dunque, mi preoccuperei di più per quelli che rimangono al ‘fronte’ qui da noi. E che dopo anni di borse di studio (se queste vengono messe a disposizione e se vi riescono ad arrivare) e di insegnamenti precari, scelgono di cambiare professione e di abbandonare l’accademia al proprio doloroso destino. Per chi decide, poi, di rientrare dopo anni di ‘esilio’ all’estero, lo scenario non cambia, né migliora: contratti precari e sottopagati che non permettono la sopravvivenza economica autonoma e ci si deve arrangiare tornando a casa dai propri genitori o avvicendandosi con altri lavori precari e sottopagati che, se sommati tra loro, garantiscono una timida autonomia economica incerta e incostante. Bello, questo nostro Paese! Come riusciremo a sopravvivere e ad affrontare le sfide che ci vengono lanciate dai Paesi emergenti, dove invece la ricerca e la formazione delle giovani generazioni rappresentano uno dei punti di forza dei Governi e delle scelte politiche ed economiche? I nostri studenti subiscono la concorrenza dei coetanei stranieri per competenza linguistica e intellettuale. Le colpe sono molteplici e non sono attribuibili solo al mondo accademico: anche la scuola media inferiore e superiore non funziona come dovrebbe (è necessario un ringraziamento, anche in questo caso, al nostro ministero dell’Educazione e non più della Pubblica istruzione). I professori non riescono più a insegnare ai loro discenti materie fondamentali come la lingua italiana, la matematica, le scienze e la cultura classica. Infine, vi è la famiglia, che non garantisce più alcuna certezza educativa e che si lascia totalmente condizionare da pessimi modelli televisivi, che rimbabiscono i cervelli degli adolescenti lanciando miti e modelli ‘faciloni’ quanto sciocchi, lontani dalla realtà sociale e lavorativa. I comportamenti sono scivolati verso l’abisso dell’intolleranza, dell’egoismo, dell’imitazione pedissequa e priva di contenuti intellettuali, che fa assomigliare la gioventù a un branco di pecore guidate da un pastore privo di scrupoli. Evitare di perdersi nell’abisso è possibile: basterebbe soltanto volerlo.


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Tommaso Greco - Pisa/Italia - Mail - martedi 27 aprile 2010 8.55
L'Università soffre di mali che riguardano tutto il Paese, a cominciare dal fatto che non funzionano i meccanismi di responsabilità. I disastri recenti sono stati pagati solo da chi era fuori dall'Università (i precari) e non da coloro che li avevano provocati (i Rettori e chi insieme a loro governa gli atenei).
In generale, comunque, ci si limita a ripetere parole che ormai non significano più nulla, e con le quali però si continua a parlare (male) degli atenei: "i baroni", la scarsa qualità dei docenti, ecc. Questo, in un momento in cui le facoltà non hanno più nemmeno i soldi per comprare libri pre le biblioteche. La riforma tanto necessaria non sarà mai tale se 1) non si decide davvero di investire nell'Università; 2) se non parte da un coinvolgimento e una valorizzazione di quanto di buono c'è nelle Università. Ci vorrebbero oggi degli Stati Generali dell'Università (e poi anche della Scuola): fermare ogni ipotesi di riforma dall'alto (che tanto poi verrà disattesa e boicottata) e avviare un processo in cui dare voce soprattutto a chi oggi magari rimane nell'ombra ma lavora concretamente per il bene della ricerca e della didattica.


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