Alice StopponiUn terremoto di magnitudo 7.0 della scala Richter, con epicentro a soli 15 chilometri a sud ovest della capitale, Port au Prince, ha letteralmente distrutto Haiti. Il sisma è stato devastante perché ha colpito una zona urbana sovrappopolata ed estremamente povera del Paese. Case costruite una sull’altra, edificate dagli stessi poveri abitanti, l’hanno trasformata, nel corso dei decenni, in una città fragile. E i molti anni di sottosviluppo e di sconvolgimenti politici hanno reso il governo haitiano impreparato a un tale disastro. A quasi una settimana dal terremoto, il Governo ha proclamato lo stato di emergenza fino alla fine del mese e 30 giorni di lutto, mentre sono già circa 70 mila i cadaveri cui è stata data sepoltura nelle fosse comuni. Un Paese in ginocchio, dunque, in cui l’unica speranza sembra arrivare da un sorriso triste e malinconico, amaro e buio, buio proprio come quella notte: il sorriso del piccolo Claude, un bambino di due anni che è rimasto per tre giorni sotto le macerie. I piccoli ‘dannati’: sono 2 milioni i bambini che hanno perso la vita, la casa o la famiglia nell’apocalisse di Haiti, una terra già profondamente segnata dalla miseria alla quale, dopo tante catastrofi, la comunità internazionale ha finalmente fornito il suo appoggio. Cresce, giorno dopo giorno, la stima dei morti, tra cui due italiani: il funzionario dell’Onu, Guido Galli e Gigliola Martino. Ma il vero disastro è dovuto alle condizioni insostenibili per le decine di migliaia di accampati sotto al sole cocente senza acqua, senza cibo, senza medicine. Le condizioni diventano sempre più insostenibili. Lo denunciano in primis le organizzazioni umanitarie internazionali chiedendo che si faccia presto, che i soccorsi vengano finalmente incanalati in una catena di comando organizzata e strutturata. Al contrario di quanto successe cinque anni fa, in occasione dello tsunami in Asia, laddove la maggior parte delle persone travolte dall’onda erano decedute, qui ci troviamo di fronte a un numero maggiore di sopravvissuti con traumi importanti, che presentano quindi problemi di limitazione della propria motilità o necessitano di trattamenti di riabilitazione. I crolli hanno infatti provocato ferite e fratture che necessitano di cure rapide, nel primo caso per evitare sovra infezioni, nel secondo per limitare il dolore e il blocco della funzionalità. Ecco perché una delle cose più urgenti è quella di disporre di spazi operativi agibili per ripulire le piaghe, asportare i corpi estranei, praticare suture e medicazioni sterili, fornire eventuali trasfusioni di sangue, applicare fissatori ortopedici e apparecchi gessati. Più in generale, per i sopravvissuti la priorità, in termini di salute pubblica, è l’accesso all’acqua potabile e alle cure. Il terremoto ha distrutto case e infrastrutture, in particolare i sistemi, per quanto precari in città, di approvvigionamento di acqua potabile (pozzi, canalizzazioni e così via). La distruzione delle abitazioni obbliga la popolazione ad accamparsi raggruppandosi in condizioni molto precarie. È questo il più grosso rischio sanitario: promiscuità forzata, accesso insufficiente all’acqua potabile, alle cure e al cibo. Un cimitero situato dietro il palazzo semidistrutto della presidenza, in pieno centro di Port au Prince, strabocca di cadaveri che vengono portati con ogni mezzo: macchine, pulmini e anche carrette trainate a mano. In pochi minuti tutto è finito: può infatti bastare una forte scossa di terremoto per cancellare un Paese. E quel che rimane è solo dolore.


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