Intervista a un’artista poliedrica, attrice e drammaturga, autrice dello spettacolo ‘Luxuriàs, Lost in Lust’, andato in scena il 23 e 24 novembre al Teatrosophia di Roma
Caroline Pagani, drammaturga e attrice sopraffina specializzata nel teatro ‘shakepeariano’, è andata in scena con ‘Luxuriàs, Lost in Lust’ al Teatrosophia di Roma, durante le giornate del 23 e 24 novembre scorsi. Lo spettacolo ha conquistato il pubblico attraverso la recitazione convincente e versatile della Pagani, la quale riesce a passare con disinvoltura dal registro comico a quello tragico, in una pièce che esplora il tema del desiderio femminile, dall’antichità fino ad oggi. ‘Luxuriàs, Lost in Lust’ riporta alla memoria dello spettatore una delle più conosciute storie d’amore: quella di Paolo e Francesca, che il canto V dell’Inferno dantesco ha reso immortali. La protagonista, infatti, scopre, attraverso una sorta di percorso di psicanalisi regressiva, di essere la reincarnazione di Francesca da Rimini, insieme a molte altre donne del passato, tra le quali Eleonora Duse, Cleopatra, Franca Valeri e Moana Pozzi. Lo spettacolo si trasforma non solo in un viaggio nel mondo dell’eros femminile, ma anche in un atto di accusa contro la cultura patriarcale e maschilista, denunciando le disparità di genere che ancora oggi esistono nella nostra società. Con ironia, intelligenza e passione, Caroline Pagani ha allestito uno spettacolo che riesce a essere profondo e divertente allo stesso tempo: un’esplorazione raffinata e acuta dell’amore, visto con gli occhi di chi ha il coraggio di vivere davvero ogni istante della propria vita, al di là di ogni giudizio o limitazione sociale. Ce ne parla in questa intervista la stessa Caroline Pagani, che ha risposto per noi ad alcune domande.
Caroline Pagani, la sua opera teatrale, ‘Luxuriàs. Lost in Lust’, andata in scena il 23 e 24 novembre al Teatrosophia di Roma trasporta lo spettatore dentro una seduta psicanalitica, in cui la protagonista ripercorre il viaggio delle sue vite precedenti, tra cui quella di Francesca da Rimini: cosa ne pensa della relazione tra psicanalisi e arte? E com’è nata l’idea per questo suo spettacolo?
“Sì, in realtà si tratta più di una sorta di seduta con ipnosi regressiva: una forma di terapia ben più creativa e divertente di una normale seduta di psicanalisi. Penso che sicuramente l’opera, sia essa uno scritto, un dipinto o una canzone, non possa essere disgiunta dal suo autore, da chi la concepisce e dal modo in cui viene realizzata, anche se Oscar Wilde diceva: ‘Trust the art, not the artist’. A me interessa l’opera, la creazione, il prodotto, l’artista che sia e faccia quel che gli pare. E’ una relazione che esiste, soprattutto se crediamo che esista l’inconscio, o chi o che cosa per lui. Ma eviterei di usare la psicanalisi come strumento ermeneutico: sarebbe banalizzante e semplicistico. Un noto studioso, Harold Bloom, sostiene che William Shakespeare abbia inventato l’umano, precedendo l’analisi, mostrandoci che non è la psiche, ma le passioni, le emozioni evocate dalle immagini veicolate dalle parole, a muovere i personaggi. Tuttavia, in Shakespeare non vi è una chiave psicanalitica, così come non c’è trascendenza. Il mondo di Shakespeare è immanente: non c’è Dio, si pensa a un oltre, ma non a un Dio delle religioni. E nei suoi personaggi non c’è psicanalisi: sono complessi in virtù del linguaggio immaginifico usato. Non esiste nulla al di là di quello che è scritto nei testi che ci sono pervenuti, spesso mutili, che fossero scritti da un autore solo o più autori, da una ‘ditta’, come probabilmente Shakespeare fu. Tutto ciò non ha alcuna importanza, sono falsi problemi: quello che conta, che ci interessa è l’opera. Ci sono registi che tendono a mettere in scena Shakespeare usando chiavi psicanalitiche (poi bisogna vedere quali, di quale scuola o pensiero) e a riempire la scena con marchingegni, per colmare un vuoto che non esiste, perché in Shakespeare tutto è nel testo, nelle parole e nei loro suoni, che sono pieni, ricchi, fertili, contaminano l’immaginazione. A me non interessa sapere se Shakespeare fosse un colto letterato filosofo italiano o un autore inglese che conosceva poco greco e meno latino: mi interessano le sue storie, le vicende e i mondi che ha creato, il linguaggio e le immagini con cui li ha espressi. Faccio queste affermazioni anche in quanto studiosa di Shakespeare: ci ho fatto due tesi di laurea, parte di un dottorato e anni di collaborazione all’Università Statale di Milano, con la cattedra di Storia del Teatro inglese e a Venezia, con il corso di Drammaturgia. Shakesperare continua a essere uno dei mei ambiti di studio e ricerca, che confluiranno in un libro. Penso, quindi, che sia bene che l’arte faccia l’arte e che la psicanalisi si occupi solo della psicanalisi, degli esseri umani, non dei personaggi”.
Una delle principali caratteristiche di ‘Luxuriàs’ sembra la capacità di tenere insieme presente e classicità, umorismo e tragedia, leggerezza e profondità: è d’accordo?
“Sono d’accordo: amo il rimescolamento di fonti alte e basse, di colto e popolare, di registri diversi. In Shakespeare spesso coesistono, come il tragico e il comico. Noi siamo attraversati da più emozioni, anche molto diverse fra loro, nella vita come nell’arco di una scena. Il comico e la parodia sono registri alti, altissimi, perché prima di arrivare a quel registro, a quella comprensione che ti permette l’ironia, il testo lo hai ribaltato come un guanto”.
Lo spettacolo ha ottenuto un ottimo riscontro di pubblico e critica: qual è il segreto della sua arte? Cosa pensa attiri maggiormente il pubblico?
“Non credo di avere segreti particolari, se non amare e studiare molto a fondo ciò che faccio, da più punti di vista, facendo, prim’ancora di scandagliare approfonditamente un testo e prima di analizzare le sonorità della lingua originale, un lavoro di mappatura sulle arti del periodo. L’ironia è un’arma meravigliosa e salvifica: fa bene al pubblico e anche a chi sta in scena, aiuta a vedere le cose con il distacco necessario per non identificarsi, prendersi troppo sul serio e soffrire, fare dello psicodramma in scena. A quello, già pensa la vita. Il teatro è - e deve essere - uno specchio, non la vita”.
Rispetto a un altro suo lavoro, ‘Mobbing Dick’, vincitore di numerosi riconoscimenti tra cui il Premio Teatri Riflessi (2022) come miglior spettacolo e il Premio Fersen alla regia (2023), in cosa pensa differisca ‘Luxuriàs’ e quali sono invece le affinità che avvicinano le due opere teatrali?
“Entrambe affrontano tematiche scottanti, civili e politiche, come il mobbing inteso come abuso di potere, come ricatto sessuale in ambito lavorativo. L’eterno ricatto del mondo dello spettacolo con annesse minacce di rovina, terra bruciata, calunnie, isolamento e il femminicidio. ‘Mobbing Dick’ è uno spaccato sul mondo dello spettacolo che alterna un altro livello di realtà: quello di alcune scene tratte dai drammi di Shakespeare. E’ uno spettacolo-denuncia: questa è la sua finalità politica. Ma è anche un omaggio all’arte del fare teatro. Tratta un tema poco simpatico, ma parallelamente anche l’eros e il rapporto fra eros e potere in Shakespeare. ‘Luxuriàs’ parla di un femminicidio, affronta uno dei primi femminicidi documentati della Storia e cala parte dell’azione nel V canto dell’Inferno dantesco: è uno spettacolo onirico e visionario. Anche ‘Luxuriàs’ parla di desiderio, come ne parla ‘Mobbing Dick’ nelle scene ‘shakespeariane’, ma qui c’è il desiderio in Dante: un viaggio all’origine della lussuria e il confronto con donne della Storia ritenute tali e per questo spesso uccise, annientate, cancellate, e ingiustamente denigrate”.
Una parte molto importante di ‘Luxuriàs’ risiede nel suo messaggio di denuncia della condizione femminile e delle disparità di genere. Non sono pochi gli studiosi che mettono, oggi, in relazione la paura del desiderio, della sessualità e della seduzione come fattori determinanti per la nascita della misoginia medievale: lei cosa ne pensa? L’arte può essere un antidoto contro il maschilismo e la violenza contro le donne?
“La misoginia non è medievale: è atavica. Spesso, in alcune culture, è connaturata. L’arte può aiutare, ma bisogna agire in modo sistemico, su più fronti e con tutti i mezzi possibili, perché il problema è profondamente radicato: andrebbe cambiato lo schema cognitivo alla radice, a partire dalla scuola primaria. Chi ha paura del desiderio, che è quanto di più umano e piacevole ci sia stato dato, così come della sessualità, che è la forza più potente dell’universo o della seduzione, che è un’arte, l’arte di affascinare, di condurre a sé, o chi pensa di poterli ‘rubare’, propbabilmente ha paura di se stesso e dell’umano in generale, di vivere, della vita”.
E’ uscito da pochissimo anche un suo disco musicale dal titolo ‘Caroline Pagani per Herbert Pagani’, dedicato alla memoria di suo fratello, grande compositore e musicista, morto prematuramente a 44 anni: come è nato questo album? E qual è il ricordo più bello che ha di suo fratello Herbert?
“E’ nato dal desiderio di realizzare un album con le sue canzoni, ben prima che uscissero i vari omaggi a Herbert, molto prima. Mi porto dentro queste canzoni da quando ero bambina. E desideravo dar loro voce e corpo con la mia anima, quella di una sorella e di un’artista. Di ricordi ne ho diversi. Uno è un suo concerto a Parigi, all’Olympia: ero piccolissima, ma ricordo la sala gremita e adorante, perché era molto amato. Mi aveva portata a teatro, sempre a Parigi, a vedere un suo collega, Michel Boujenah. Poi ricordo una mostra su Arcimboldo che abbiamo visto insieme a Venezia, in cui mi spiegava tutto, anche l’autoritratto che aveva fatto di se stesso in stile ‘arcimboldesco’. E ricordo la sua casa a Montmartre, la sua casa-atelier d’artista a Milano, dove organizzava delle meravigliose cene e realizzava opere d’arte con oggetti trovati nelle discariche, nelle vetrerie dei forni di Venezia, sulle spiagge...”.
Che progetti ha nell’immediato futuro? Sta lavorando a qualcosa di nuovo?
“Anche solo la distribuzione, in più lingue, di tutti gli spettacoli che ho scritto e messo in scena, da ‘Hamletelia’, su Amleto e il modo di rappresentare l’Amleto in teatro, al cinema e alla pittura come ‘Teatreide’: un viaggio nella macchina del tempo della Storia del Teatro dalle origini alla contemporaneità; da ‘Shakespeare’s Lovers’ a quelli sopracitati, richiederebbe il resto della vita. Non sono pochi, ma ne scriverò anche degli altri, quando avrò il tempo. ‘Sarah Bernhardt versus Eleonora Duse’; ‘Desdemona: amore e morte a Venezia’: ‘Maleficents: cattive’: sono tutti titoli depositati e testi in via di sviluppo. Per ora, devo dedicarmi alla promozione del disco, affinché viva e non rimanga in tasca, perché è stato un lavoro immenso, durato anni, oltre allo spettacolo-concerto di cui ho fatto anche una versione francese, per la Francia e i Paesi francofoni, che ha visto la luce da poco e che, spero, possa crescere e avere la bella vita che merita. Cantare è ciò che più mi rende felice, perché non penso più: è una forma di meditazione, la ‘mente-scimmia’ si ferma e, finalmente, vivo. In futuro, ci saranno altri dischi, fra cui un altro disco su Herbert Pagani con le canzoni e gli artisti che non è stato possibile coinvolgere in questa tornata. E un libro su Shakespeare: ‘A letto con Shakespeare’. Intanto, vi aspetto all’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone per il 1° marzo allo ‘spettacolo-concerto’ sull’opera di Herbert Pagani. Uno spettacolo che ha debuttato a Milano, al Teatro Franco Parenti, che è piaciuto moltissimo a tutti, anche a coloro che non conoscevano questo artista, perché le tematiche trattate sono estremamente attuali: amore, arte, arti, Maestri, pace, ecologia, sostenibilità, città del mondo. E perché le canzoni e le musiche sono una più bella dell’altra”.