In questi giorni ricorre il X anniversario della scomparsa di Bettino Craxi, il leader del Partito socialista italiano scomparso il 19 gennaio del 2000 ad Hammamet, in Tunisia, nella più totale solitudine. La sua storia è quella di un esponente politico giunto alla guida del più antico movimento politico progressista del nostro Paese durante un drammatico Congresso del Psi svoltosi, nell’estate del 1976, presso l’Hotel Midas di Roma, in cui era stato deciso di defenestrare, pur con rispetto e urbanità, l’ormai vecchio e stanco De Martino. Attraverso una ‘stranissima’ alleanza tra l’ala ‘manciniana’ del Partito e la corrente di sinistra facente capo a Gianni De Michelis, il Psi evitò miracolosamente di ‘spaccarsi’ in due tronconi trovando un compromesso proprio sul nome di Benedetto Craxi, detto Bettino, a nuovo Segretario nazionale. Craxi era il ‘pupillo’ di Nenni e aveva ricoperto per molti anni la carica di Vicesegretario. Tuttavia, questo milanese di origine siciliana, sulle prime sembrò un esponente di seconda o, addirittura, terza fila. Nessuno comprendeva, in quel momento, che la sua carriera era stata lenta solamente perché apparteneva a una sparuta minoranza interna, quella dei socialisti liberali, che non aveva mai voluto abdicare a una propria ferrea coerenza ideale. Ma di lì a poco, sfoderando gli ‘artigli’ che aveva saputo tenere ben nascosti, Craxi fece letteralmente irruzione come un autentico ‘ciclone’ nelle acque ‘stagnanti’ della politica italiana. Alla fine del 1978, infatti, il Pci dovette constatare come l’esperimento della ‘solidarietà nazionale’ si fosse rivelato insoddisfacente. Berlinguer aveva allora deciso di passare alla strategia della ‘alternativa democratica’, cioè alla costituzione di un largo fronte politico progressista in grado di mandare la Dc all’opposizione. Tuttavia, nelle more di un simile progetto diveniva giuoco forza necessario fare i conti con il Psi e con il suo nuovo leader, un esponente che stava cominciando a dimostrare tutta la sua ragguardevole ‘statura’. Craxi non aveva alcuna intenzione di lasciarsi logorare nel ruolo di comprimario della grande forza elettorale comunista e riteneva che il Pci stesse teorizzando un ‘ripiegamento operaista’ che rischiava di preludere a gravissimi errori. Cosa che regolarmente avvenne durante il voto parlamentare del 12 dicembre 1978, allorquando il Pci decise di ‘affondare’ l’intera maggioranza parlamentare avversando l’adesione dell’Italia al sistema monetario europeo, nonostante Bruxelles avesse garantito alla nostra vecchia e malandata ‘liretta’ una ‘banda di oscillazione’ più ampia di quella delle altre monete in circolazione nella Comunità economica europea, non escludendo eventuali svalutazioni concordabili. Paventando una virata deflattiva e una assai poco comprensibile contrazione dell’export, Berlinguer ebbe paura che l’inserimento dell’Italia nel cosiddetto ‘serpentone monetario’ si sarebbe ripercosso sull’occupazione e sul potere di acquisto dei salari, senza tener conto del fatto che un regime di ‘cambi semifissi’ come quello ipotizzato a Bruxelles avrebbe invece incoraggiato nuovi investimenti finanziari proprio nelle nazioni caratterizzate dalla circolazione di monete deboli. Craxi, perciò, si ritrovò nella fortunata coincidenza di poter approfittare immediatamente di un gravissimo errore di politica economica di Berlinguer. E iniziò a ‘svincolarsi’ definitivamente dal Pci. Nel corso di una lunghissima crisi di Governo in cui Pertini aveva affidato a Ugo La Malfa l’incarico di riguadagnare il sostegno parlamentare comunista superando l’aut – aut di Berlinguer e Pajetta – “O al governo, o all’opposizione” – proprio tramite i ‘buoni uffici’ del Psi, Craxi rifiutò di entrare in un Governo di centrosinistra ‘aperto’ al consenso parlamentare di ‘Botteghe oscure’, rendendo ineludibile il ricorso alle urne. Il 3 giugno 1979 gli italiani si recarono, dunque, a votare, con i seguenti risultati: lieve flessione democristiana, impercettibile progresso del Psi e, soprattutto, sonora ‘batosta’ per il Pci, il quale perse, in una volta sola, 4 punti in percentuale (circa 1 milione e mezzo di voti in meno). Cosa era successo? Semplicemente, che i ceti medi italiani avevano all’improvviso cambiato ‘bandiera’ e avevano giudicato ormai concluso un ‘ciclo’ politico ben preciso, avendo compreso la ‘suicida’ involuzione ideologica impressa dai comunisti alla loro linea politica generale. In seguito a quella grave sconfitta del Pci, la prima dopo quasi due decenni di ‘impetuose avanzate’, la Dc si accinse ad ‘affilare i coltelli’ per saldare definitivamente i conti con la fase di solidarietà nazionale e con le accuse di aver fatto di tutto pur di non mutare nemmeno di una virgola gli equilibri politici del Paese. Dunque, durante il XIV Congresso dello ‘scudocrociato’, che elesse Flaminio Piccoli nuovo Segretario nazionale, Carlo Donat Cattin fece approvare un asciutto ‘preambolo’ che escludeva, per il presente e per il futuro, ogni genere di collaborazione politica con la formazione guidata da Berlinguer. Nel frattempo, Craxi decise di ‘mandare in soffitta’ l’alternativa democratica e iniziò a predisporre il progetto di un polo laico - socialista forte, in grado di trattare da pari a pari con la Dc, mentre il nuovo Governo, presieduto da Arnaldo Forlani, cercò di arginare l’altissimo tasso di inflazione riducendo drasticamente il volume di circolazione monetaria ed elevando sensibilmente il costo del denaro. Naturalmente, la recessione fu istantanea. E i comunisti colsero immediatamente l’occasione per rilanciare una campagna di scioperi e di malcontento che non li obbligava nemmeno a particolari sforzi di fantasia. Persino l’oculato Berlinguer arrivò a patrocinare un lungo sciopero dei dipendenti Fiat di Mirafiori della durata di 35 giorni, una protesta che si concluse in modo disastroso, senza alcuna assunzione di oneri da parte dell’azienda torinese e con una profonda spaccatura tra i lavoratori delle qualifiche più basse, molti dei quali finirono con l’accodarsi alla ‘marcia dei 40 mila’, organizzata dai ‘colletti bianchi’ di Luigi Arisio, che attraversò Torino chiedendo di rientrare in fabbrica. Tuttavia, anche Forlani durò poco, perché nel maggio del 1981 scivolò goffamente sullo scandalo ‘P2’, una lista di 935 ‘fratelli massoni’ scoperta a Castiglion Fibocchi, in provincia di Arezzo, che costrinse il Governo alle dimissioni allorquando venne provato, inoppugnabilmente, di averla tenuta nascosta per proteggere i nomi ‘scottanti’ che vi figuravano. Sembrava si fosse ormai giunti a una vera e propria crisi di regime: autosegregatisi i comunisti nella loro supponente ‘diversità’, moralmente annichilita la Dc come ‘partito – Stato’, ancora allo stadio dei ‘vagiti’ il polo laico - socialista, il sistema dei Partiti italiani barcollò paurosamente. Invece, con un ‘colpo d’ala’ dei suoi, il nostro ‘caro vecchietto’ del Quirinale, Sandro Pertini, riuscì a evitare il disastro affidando la formazione di un nuovo governo al laico Giovanni Spadolini il quale, attraverso l’innesto dei liberali sul vecchio tronco del centrosinistra ‘organico’, riuscì a ‘mimetizzare’ un accordo tra le diverse forze politiche nelle ‘pieghe’ di un impegnativo ‘patto sociale’ per il rientro dell’inflazione e il risanamento economico. Era nato il ‘Pentapartito’, che nel giro di un anno e mezzo riuscì a convogliare le principali energie dell’esecutivo sulla mediazione tra Confindustria e sindacati per il contenimento del costo del lavoro. Sull’onda di una discreta ripresa congiunturale internazionale, si registrò ben presto qualche primo buon effetto, anche se le trattative tra le parti sociali continuavano a ristagnare e, all’interno della nuova composita maggioranza di Governo, cominciarono ad acuirsi i dissensi tra alcuni ministri. Infatti, tra i dicasteri delle Finanze e quello del Bilancio iniziarono a confrontarsi due linee ben distinte: quella del socialista Rino Formica, tesa ad adottare una politica economica più ‘espansiva’ al fine di approfittare della insperata situazione favorevole e riuscire ad ‘agganciare’ la ripresa in atto e quella, decisamente più prudente, del democristiano Beniamino Andreatta, il quale non intendeva allentare le briglie del rigore almeno sino a quando non fosse completato il riaggiustamento valutario e non fossero stati eliminati i vari differenziali negativi dell’Italia, in termini di produttività e di efficienza globale, rispetto agli altri Paesi della Cee. L’inconciliabilità tra le due visioni alla fine portò alla remissione dell’incarico dello stesso Giovanni Spadolini. Finalmente, era giunto il momento di Bettino Craxi: dotato di un ‘fiuto’ straordinario, il Segretario del Psi si era ormai reso conto di poter sopperire all’inconsistenza del polo laico - socialista puntando su una più che probabile punizione elettorale della Dc, eventualità che lo avrebbe reso assolutamente arbitro della costituzione di qualsiasi Governo, accrescendo di molto la sua ‘rendita di posizione’ e il suo potere di ‘interdizione’. Di conseguenza, egli decise di mandare rapidamente ‘a monte’ un gabinetto di ‘attesa’ del redivivo Fanfani e chiese fiducioso lo scioglimento delle Camere. Puntualmente, dopo qualche sondaggio infruttuoso, Pertini fu costretto a prendere atto della situazione. E il 26 giugno 1983 gli italiani tornarono nuovamente a votare. Le previsioni di Craxi si avverarono in pieno: mentre i comunisti, seppur lentamente, continuavano a ‘dissanguarsi’, la Dc perse quasi 6 punti percentuali, nonostante avesse cercato di limitare i danni della sconfitta chiamando alla Segreteria nazionale l’avellinese Ciriaco De Mita al fine di licenziare le ‘pigri cariatidi preamboliste’. Ma con quel ‘bruciante’ 32,9% tra le mani, De Mita non poté che attendere a piè fermo gli eventi. Pertanto, il 4 luglio 1983, Bettino Craxi divenne il primo socialista italiano ad assumere la carica di presidente del Consiglio dei ministri. Craxi, mediamente, non piaceva: sembrava arrogante, cinico, iracondo, inutilmente gnomico nelle sue allocuzioni tutte pause e sentenze. Ma le cose non stavano affatto così. Egli aveva in mente un ‘piano’ lucidissimo: quello di restituire identità e immagine al socialismo italiano strappandolo dall’alveo marxista e reinserendolo nella sua più autentica tradizione riformista, mutualista, laburista e umanitaria avvilita per più di un secolo dalle ‘suggestioni ideologiche’ del socialismo cosiddetto ‘scientifico’. L’adozione, ad esempio, del simbolo del Garofano in luogo della vecchia falce e martello alludeva a un revisionismo ideologico analogo a quello intrapreso, in Francia, da Francois Mitterrand sotto le insegne della ‘Rosa’. Mentre il nuovo ‘Vangelo socialista’, un saggio su Proudhon pubblicato da ‘l’Espresso’ nell’estate del 1978, conteneva essenzialmente una polemica antiburocratica, anticolletivista e antistatalista mirante a recidere ogni ‘cordone ombelicale’ con il comunismo e a chiudere un’epoca in cui i contrasti tra i due Partiti operai sembrava dovessero essere solamente di natura pragmatica, topologica, contingente. Progetti altrettanto precisi Craxi aveva in serbo per l’intero sistema politico italiano: unico tra i leader di partito a coltivare un profondo orgoglio nazionale – era un appassionato collezionista di cimeli garibaldini – egli riteneva che la prassi dei ‘veti incrociati’ avesse fatto ‘strame’ di quella governabilità senza la quale ogni società moderna è destinata a deperire. E governabilità, secondo Craxi, era sinonimo di ricorso a poteri ‘intrinsecamente sovrani’ rispetto agli ‘unanimismi preventivi’ che derivavano dalle bizantine abitudini della nostra democrazia alle consultazioni e ai compromessi extra - istituzionali. Il Governo, in sostanza, non doveva preoccuparsi di guadagnare consensi, perché ciò era compito precipuo dei singoli Partiti, bensì esercitare un’autorità che, per quanto delegata dal rapporto di fiducia parlamentare, non poteva non essere rigorosamente autonoma. La situazione complessiva di ‘bipartitismo imperfetto’ e la ‘conventio ad excludendum’ che pesava sui comunisti rendeva, inoltre, irrealistiche anche le ‘alternanze’ periodiche, non solo quelle di ‘sistema’. Dunque, l’unica possibilità per un reale affrancamento dell’Italia dall’inamovibilità dell’oligarchia democristiana era quello di sottrarre ai moderati l’esclusiva del loro potere di coalizione, dando vita a meccanismi di avvicendamento interni al sistema democratico nazionale delimitati dalla Costituzione ‘materiale’. Craxi rimase a Palazzo Chigi per quattro anni imprimendo grande efficacia e speditezza all’azione di Governo, incurante delle accuse di ‘bonapartismo’ che gli piovvero addosso da tutte le parti. Già nell’ottobre del 1983, ignorando le querimonie dei pacifisti, inaugurò un proprio stile ‘decisionista’ dando il proprio assenso all’installazione dei missili ‘Pershing’ e ‘Cruise’ presso le basi militari italiane della Nato, collocazione che era già stata concertata a Washington e a Bruxelles al fine di fronteggiare la schiacciante superiorità degli SS 20 sovietici sullo scacchiere strategico continentale. Tuttavia, egli non era affatto, come lo accusò quel milione di manifestanti pacifisti mobilitati dal Pci a Roma, in piazza della Repubblica, un “servo degli americani”. E lo dimostrò pienamente nell’ottobre del 1985 durante la cosiddetta ‘notte di Sigonella’, allorquando ordinò ai nostri reparti dell’Esercito di impedire che truppe scelte statunitensi, dopo aver costretto all’atterraggio un aereo che trasportava alcuni palestinesi sospettati di essere coinvolti nel dirottamento del transatlantico “Achille Lauro”, si impadronissero di quel gruppo di appartenenti al Fronte di liberazione della Palestina in pieno territorio italiano. Ma la vera ‘prova del fuoco’ del decisionismo ‘craxiano’ è legata alle vicende della ‘notte di San Valentino’. Nel 1975, Confindustria e sindacati avevano unificato il ‘punto’ dell’indennità integrativa speciale – la cosiddetta ‘scala mobile’ - a un livello talmente elevato da determinare un cospicuo aumento del costo del lavoro. Negli anni successivi, ogni proposta di ‘raffreddamento’, a onta delle ristrettezze economiche, era stata ostinatamente respinta dalle organizzazioni dei lavoratori, fino a che la Confindustria, nel 1982, si vide costretta a comunicare agli interessati l’immediata disdetta di quell’accordo. Dopo laboriosi ma inconcludenti negoziati tra le parti, il 14 febbraio 1984 Craxi decise perciò di intervenire ‘per imperio’, emanando un decreto che tagliava 4 punti di ‘contingenza’. Si trattò di un gesto che non s’era mai visto: il Governo che decretava in materia di contratti! Solo la frazione comunista della Cgil si ribellò: Cisl, Uil e la minoranza socialista della Cgil approvarono e sottoscrissero. I sindacalisti comunisti, inferociti, deciso di raccogliere le firme necessarie per indire un referendum al fine di abrogare quel decreto. Ma sbagliarono completamente i loro calcoli e, l’anno successivo, quando scattò l’appuntamento referendario, finirono col raccogliere solamente un 45,7% di ‘Sì’ contro un 54,3% di ‘No’. Insomma, il raffreddamento della ‘scala mobile’, insieme alla nuova redditività delle imprese pubbliche, consegnate a manager di notoria esperienza come Romano Prodi e Franco Reviglio, divennero un fattore decisivo di una vera e propria ‘rinascita economica’ dell’Italia negli anni 1983 – 1990, allorquando l’inflazione venne letteralmente ‘abbattuta’ al 4,6%, il Pil iniziò a crescere del 2,5% medio annuo, la borsa di Milano aumentò la propria capitalizzazione di oltre quattro volte e le nostre industrie tessili e meccaniche cominciarono a esportare a tutto ‘spiano’. Gli italiani, insomma, erano tornati all’opulenza dei primi anni ’60 del secolo scorso. Ma le ‘tare di fondo’ del nostro tessuto economico non erano state eliminate. La principale di queste è sempre stata rappresentata dal nostro indebitamento pubblico, connesso ai molti ‘sprechi clientelari’ e a un forte eccesso di spesa pensionistica e sanitaria il cui volume, nel 1989, finì col superare l’ammontare dell’intero prodotto interno lordo. Questa vertiginosa ascesa del nostro debito è dipesa soprattutto in seguito al divorzio avvenuto tra Banca d’Italia e ministero del Tesoro, cioè dall’indisponibilità del nostro Istituto di emissione a finanziare il deficit dell’erario mediante l’immissione in circolazione di nuova carta moneta. Ma tale indisponibilità ha intensificato la collocazione di titoli presso le banche e i risparmiatori privati, ha concorso a tenere sotto controllo l’inflazione e, in un certo senso, è riuscita, per qualche tempo, a stabilizzare il nostro quadro politico. Insomma, quando Bettino Craxi fu costretto ad uscire di scena in seguito all’esplosione dello scandalo di Tangentopoli, il bilancio politico della sua azione era, in realtà, nettamente positivo. E gli errori più autentici da lui commessi possono essere riassunti nelle seguenti ‘disattenzioni’: a) Craxi ha lasciato crescere troppe ‘male erbe’ all’interno del proprio Partito, aveva cioè ‘disossato’ il Psi soffocando ogni istanza di dibattito interno al fine di trasformarlo in un congegno di puro rifrangimento della propria immagine; b) per pura sbadataggine ha stretto relazioni ‘pericolose’ e protetto personaggi inqualificabili; c) ha ostentato non curanza per la ‘questione morale’, ovvero per la diffusione a ritmo esponenziale di ruberie, malversazioni, truffe ed estorsioni in cui finirono col rimanere ‘impigliati’ molti suoi compagni di Partito, ‘democristianizzati’ dalla facile imitazione di comportamenti illeciti anche per via dell’afflusso, sottoposto a scarsa sorveglianza, di arrampicatori e faccendieri sopra un ‘carro’ divenuto, improvvisamente, vincente; d) ha favorito il fenomeno del ‘rampantismo’, ovvero dell’ambizione disgiunta rispetto ai meriti, scambiandolo per un risvolto fisiologico della modernizzazione italiana in atto. Questi – soprattutto questi – furono i grandi errori politici di Bettino Craxi. Ma da qui a farne il ‘capro espiatorio’ di un sistema illecito di finanziamento dei Partiti ce ne passa, poiché egli si ritrovò semplicemente a gestire un Paese a fronte di una situazione di ‘sistema’ di per sé già avviata da lungo tempo di ‘gestione democristiana’ del potere. Che è quanto egli continuò a sostenere durante gli ultimi anni di esilio in Tunisia, né più e né meno: il metodo di finanziamento illecito utilizzato dai partiti italiani, da tempo immemorabile era quello. E ciò era fatto notorio da almeno un ventennio.
Direttore responsabile di Periodico Italiano
(editoriale tratto dal quindicinale cartaceo 'Periodico Italiano' del 18 gennaio 2009)