Alice StopponiL’economia mondiale è in ‘tilt’ da almeno due anni. E i segnali che arrivano dal futuro sembrano essere alquanto ‘fumosi’. Quali sono le prospettive economiche reali per il 2010? Lo abbiamo chiesto a Tito Boeri, Direttore della Fondazione Rodolfo Debenedetti (www.frdb.org) e collaboratore del Sole24ore. Boeri ha ottenuto il Ph. D. in Economia presso la New York University ed è stato Senior economist presso l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) dal 1987 al 1996. Egli è stato, inoltre, un importante consulente del Fondo monetario internazionale, della Banca mondiale, della Commissione europea e dell’Ufficio internazionale del lavoro. Attualmente, è direttore di un corso di laurea presso l’Università Bocconi di Milano, dove insegna Economia del lavoro e si occupa da anni dei problemi del mercato occupazionale italiano con pragmatismo e concrete proposte di riforma, cercando di superare le numerose rigidità ideologiche che, da sempre, caratterizzano il dibattito su questi temi.

Professor Boeri, sono trascorsi quasi due anni dall’estate del 2008 che ha segnato un punto di non ritorno per la scena economica e finanziaria mondiale: è ancora un tempo troppo breve per qualunque tentativo di un bilancio della crisi?
“Alcune lezioni le abbiamo maturate a sufficienza: abbiamo capito le ragioni della crisi e credo siano state identificate le maggiori responsabilità della stessa. Sono state anche definite delle proposte che potrebbero scongiurare il pericolo che crisi di questo tipo si possano ripetere in futuro. Purtroppo, su queste proposte non c’è stata, fin qui, un’iniziativa molto ‘robusta’ da parte dei Governi: molte cose sono rimaste esattamente come prima e il rischio di una nuova crisi è tutt’ora presente”.

Le previsioni degli analisti economico - finanziari indicavano che, nel 2009, ci sarebbe stata una fase recessiva delle economie occidentali e di rallentamento di quelle emergenti. E nel 2010? Si uscirà dalla recessione, secondo lei? Ci sarà la ripresa?
“A me sembra che una svolta ci sia stata e che lo scenario peggiore sia stato evitato: la caduta della produzione industriale a livello mondiale e la caduta del commercio internazionale si sono interrotte e abbiamo avuto una stabilizzazione o, addirittura, una piccola ripresa di queste variabili. Quindi, lo ‘spettro’ di un nuovo ‘29 o un nuovo ‘33 non appare all’ordine del giorno. Tuttavia, mi sembra che si vada verso un 2010 un po’ alla ‘giapponese’, cioè con uno scenario in cui le economie ripartono lentamente verso una fase di stagnazione economica e con i Paesi emergenti come la Cina e l’India che, invece, riprenderanno ad andare assai velocemente”.

Le politiche economiche adottate dai Governi per uscire dalla crisi sono state, a suo avviso, in grado di ridisegnare le regole del ‘gioco’, in termini di sicurezza e trasparenza dei mercati?
“No, purtroppo: nulla è cambiato. Ci sono stati dei tentativi troppo timidi e l’unico attore che ha giocato un ruolo importante è stato il Financial Stability Forum, diretto da Mario Draghi. Ma non si tratta di politici, bensì di tecnici che lavorano a contatto con le banche centrali, i quali hanno svolto una serie di raccomandazioni cercando di promuovere un’azione. Ma i Governi, fin qui, sono stati gravemente silenti e inattivi”.

L’Italia attraversa una grave fase di stagnazione, con livelli di disoccupazione che, a ottobre - secondo i dati Istat pubblicati recentemente - hanno superato, per la prima volta dal 2004, la soglia dei 2 milioni di unità. Nel libro da lei scritto insieme a Pietro Garibaldi, intitolato ‘Un nuovo contratto per tutti’ ed edito da Chiarelettere, avete affrontato molti aspetti dolorosi ma fondamentali del mercato del lavoro: il precariato, la recessione, le disparità, l’inattività dello Stato: insomma, per uscire dalla situazione ‘argentina’ in cui versa il nostro Paese cosa bisognerebbe fare?
“Per migliorare le condizioni del mercato del lavoro c’è bisogno che riparta anche l’economia. I quesiti di fondo, perciò, riguardano le cose che andrebbero fatte in Italia per far ripartire la crescita. Non dimentichiamoci che noi dobbiamo uscire non soltanto da questa grande recessione, ma anche dalla stagnazione che l’ha preceduta. E, per farlo, dobbiamo rimuovere quei vincoli strutturali che hanno impedito all’Italia di crescere anche quando tutti gi altri Paesi stavano andavano a tassi molto più rapidi del nostro, quando tutti gli altri correvano. Invece, una lunga agenda di riforme del lavoro, del sistema di istruzione e delle pensioni, tutte cose di cui si parla ormai da anni, purtroppo non viene mai messa in atto. Nello specifico del mercato del lavoro ci sono delle cose importanti da fare per ridurre i costi sociali della crisi e valorizzare meglio il nostro capitale umano. Con Pietro Garibaldi abbiamo dunque lavorato a una proposta per un ingresso dei lavoratori nel mercato del lavoro che cercasse di evitare, in tutti i modi, quel dualismo che, oggi, è esistente e che relega molti lavoratori a contratti a tempo determinato, a un futuro fatto di precarietà e a frequenti periodi di disoccupazione. Bisognerebbe, insomma, cambiare le regole d’ingresso, con un contratto ‘unico’ che non scoraggi il datore di lavoro ad assumere, un contratto che sia da subito a tempo indeterminato. Altre proposte riguardano, inoltre, gli ammortizzatori sociali e il salario minimo”.

Le misure adottate dal Governo Berlusconi per contrastare la crisi economica, secondo lei, sono sufficienti? E si tratta di un problema solo di questo esecutivo, oppure anche quelli che lo avevano preceduto hanno portato l’Italia allo sbando?
“L’unica stagione di riforme, in Italia, è stata quella attorno alla crisi del 1992. Nel 1993 furono fatte delle riforme importanti, che permisero al nostro Paese di entrare nell’euro e di conoscere, per qualche anno, un periodo di crescita abbastanza forte. Purtroppo, i Governi che si sono succeduti da dopo l’entrata dell’euro in poi sono stati del tutto inattivi sul piano delle riforme, continuando a rinviarle ai posteri. Non vedo nessuna svolta in questa legislatura, nella quale era possibile, essendo piombati in una crisi profonda, richiamare tutti, anche l’opposizione, all’emergenza al fine di varare quelle riforme che non si riescono mai a fare in tempi normali: in tempi di crisi, infatti, le riforme si dovrebbero fare più facilmente…”.

La classe dirigente italiana è in grado, secondo lei, di trovare soluzioni di politica economica realmente innovative?  
    
“Purtroppo, credo che noi abbiamo dei problemi molto seri per quel che riguarda la nostra classe dirigente. A vari livelli. La nostra classe politica è stata messa ‘alla berlina’ in questi anni e, spesso, a ragione, perché si tratta di un personale politico troppe volte inadeguato, che ha conosciuto forti incrementi delle proprie retribuzioni, ma che non ha migliorato le proprie capacità e le proprie competenze. Credo si debba fare una selezione molto più forte dei politici all’interno dei partiti, ad esempio con il meccanismo delle primarie. Inoltre, bisogna cercare di cambiare anche la nostra classe manageriale. Questa è una questione molto importante, perché i manager e gli imprenditori sono coloro che possono, in qualche modo, rimuovere vincoli e far crescere di più il nostro Paese. Invece, spesso abbiamo dei manager poco istruiti e pochi manager internazionali. In molte imprese, la figura del manager è quella dell’esecutore quasi testamentario della proprietà, anziché quella di chi si prende dei rischi per cercare di migliorare la prestazione dell’impresa e che, quindi, viene valutato in base alla performance dell’azienda. Un’altra componente della classe dirigente che andrebbe riformata - e che conosco da vicino perché ne faccio parte anch’io - è quella dei docenti universitari, i quali spesso sono esclusi da qualsiasi forma di concorrenza. Essa è divenuta una vera e propria ‘casta’, che impedisce l’ingresso di giovani bravi: bisogna cambiare le regole per l’ingresso nelle Università dei giovani ricercatori, ad esempio facendo sì che le Università vengano finanziate in base alla ricerca che esse stesse garantiscono”.

Un paragrafo del vostro libro si intitola, significativamente, “Tasse svedesi, stipendi greci”: cosa significa?
“Significa che oggi, in Italia, noi siamo condannati a pagare tasse molto alte soprattutto perché chi le paga versa di più di quelle che sono le aliquote stabilite dalle leggi, poiché si deve far carico anche delle tasse di coloro che evadono. Inoltre, abbiamo degli stipendi molto bassi. Insomma, è la contraddizione primaria del nostro mercato del lavoro: tasse molto alte e salari molto bassi. Questa è una situazione che lascia molto insoddisfatti, creando disagio e insoddisfazione sul funzionamento del nostro mercato di lavoro. Bisognerebbe agire sia sul mercato del lavoro, sia sul sistema fiscale, per risolvere questo problema”.

Se si volesse disegnare una nuova mappa dei poteri economici, in Italia, da dove bisognerebbe partire?
“La cosa fondamentale sarebbe quella di ‘livellare’ le regole del gioco, evitando tutti i privilegi che si sono consolidati nel corso degli anni. E permettere che ognuno possa competere partendo da posizioni di parità”.

L’economia mondiale è come un’automobile in mano a un ubriaco: oggi al ‘volante’ chi c’è?
“Il fatto è che al ‘volante’ non c’è proprio nessuno: se vi fosse qualcuno e i Governi fossero in grado di coordinarsi tra di loro al fine di gestire insieme le risorse comuni a livello globale, avremmo risolto molti dei nostri problemi. Ma i Governi fanno fatica a far questo. Molte cose, oggi, vengono determinate a livello globale, poiché i Governi nazionali non sono più in grado di seguire la situazione, di tenere la guida o di cogliere determinati processi economici fondamentali: ci vorrebbe un reale ed efficace coordinamento a livello mondiale, ma questo genere di strutture, allo stato, non ci sono”.

E i giovani, in tutto questo, cosa dovrebbero fare? Rimanere o andare altrove?
“Gli inviti che sono stati fatti ripetutamente, di recente, non mi sento di condividerli: si tratta di esortazioni provenienti da persone che hanno posizioni di potere, nel nostro Paese e che trovo strumentali e dannose. Indubbiamente, ci sono problemi molto seri per i giovani, in Italia. Tuttavia, essi devono saper prendere in mano il proprio futuro, imponendo scelte pubbliche che siano in linea con le loro esigenze e facendo sentire maggiormente la loro voce. Andarsene è la cosa più sbagliata da fare in questo momento”.






(intervista tratta dalla rivista quindicinale cartacea 'Periodico Italiano' del 2 gennaio 2010, n. 1)
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