Abbiamo raccolto le impressioni di
Vittorio Craxi, parlamentare e Portavoce Nazionale del
Nuovo Psi, riguardo alle vicende parlamentari di questi ultimi mesi in tema di amnistia, indulto e ordinamento penitenziario nazionale.
On. Craxi, come mai i provvedimenti di indulto e amnistia in Parlamento si sono arenati?
“Perché c’è uno scoglio insormontabile: quando venne riformato il codice di procedura penale venne imposta una clausola di maggioranza dei due terzi che ha reso più difficilmente applicabili quei provvedimenti di clemenza che, nei decenni precedenti, erano invece risultati possibili. Dal 1992 in poi è così. Teniamo inoltre presente il fatto che, nell’attuale parlamento, non c’è una maggioranza garantista, poiché le forze politicamente rappresentate nell’aula di Montecitorio, ancora oggi sono espressione di una fase storica molto chiara, molto netta, di questo Paese. Quindi, per riuscire a immaginare che si possa arrivare facilmente ad un provvedimento di perdono generalizzato, si dovrà attendere un altro parlamento, se non addirittura una nuova fase politica: tanto prima si uscirà dall’emergenza-giustizia, tanto più si potranno affrontare provvedimenti di questo genere in maniera meno contrastata”.
E il cosiddetto ‘indultino’? Riuscirà a giungere ad approvazione?
“Penso di sì: trattandosi di un provvedimento molto più moderato, ritengo non sia in grado di provocare particolari ‘assalti alla baionetta’…”.
Ma non rischia di apparire come un ‘contentino’ per un ‘povero vecchio’?
“Mah, non saprei. Sicuramente c’è stata qualche ipocrisia di troppo, ma dobbiamo anche tener presente che ci stiamo avvicinando ad una consultazione elettorale nella quale, per quanto di carattere amministrativo, il tema della sicurezza mal si combina con quello delle garanzie: l’esigenza di maggior sicurezza, che molti cittadini richiedono con forza, non risponde certamente a certi impulsi garantisti presenti in molte forze politiche. C’è in effetti un vero e proprio iato, in questo preciso momento storico, tra ciò che sarebbe giusto fare, anche rispetto alla grave condizione del sistema carcerario, e ciò che la situazione italiana nel suo complesso presenta, ovvero numerosi ed evidenti problemi di sicurezza dei cittadini”.
A proposito del sistema carcerario: quello italiano molti lo definiscono da ‘Terzo Mondo’. E’ un giudizio esagerato? Rispetto alla situazione degli altri Paesi, esiste un modello al quale si possa far riferimento per una riforma anche strutturale delle nostre prigioni?
“Non sarei consolato dal fatto che le nostre carceri possano risultare, da un certo punto di vista, all’avanguardia. Il problema non è semplicemente di carattere strutturale, ma di natura più propriamente sociale. In Italia, c’è una popolazione carceraria molto alta e ciò è divenuto il principale fattore di malessere della nostra società, la quale, da una parte è stata investita da forti ondate migratorie e, dall’altra, sul finire degli anni ’80 e per buona parte degli anni ’90 è stata attraversata da fenomeni di criminalità organizzata che non hanno avuto eguali negli altri Paesi d’Europa. In più, il tasso di disoccupazione nel Mezzogiorno è talmente elevato che ha finito con l’alimentare fenomeni delinquenziali. Abbiamo insomma grossi problemi di natura sociale, che non si risolvono solamente riducendo le pene, bensì promuovendo, nell’ambito del settore pubblico, una politica molto diversa, quella che non è stata fatta per almeno un decennio poiché ci si è dedicati prevalentemente a dare la caccia ai ‘colletti bianchi’…”.
La causa di simili problemi sta tutta nella lentezza della ‘macchina giudiziaria’?
“Io penso che gli anni ’90 siano stati caratterizzati dalla facilità di arresto come strumento d’indagine. I detenuti in attesa di giudizio sono moltissimi, troppi, e agli errori si aggiungono talvolta anche veri e propri ‘orrori’ giudiziari. Prendiamo il caso di quel cittadino che ha passato sette lunghi anni in galera e che poi è stato riconosciuto innocente: quello sì che può essere definito ‘da Terzo Mondo’. La vicenda è molto complessa, presa nel suo insieme: l’Italia, tutto sommato, affronta le problematiche della sicurezza e quello delle pene con un sufficiente garantismo, se teniamo presente che, qui da noi e diversamente da quanto accade negli Stati Uniti, non vige la pena di morte. Per non parlare poi di quanto accade nei Paesi islamici…”.
Quale potrebbe essere la formula migliore per riuscire a garantire, oltre alla certezza della pena, anche il recupero sociale ed umano del detenuto?
“Attualmente ci sono diverse fattispecie di detenzione e non è sempre molto facile riuscire a garantire il recupero del detenuto, poiché la necessità a delinquere nasce ab originem da situazioni sociali e culturali difficili. Pretendere che lo Stato possa rieducare o che per lo meno possa riuscire a recuperare i detenuti nella grande maggioranza dei casi, può risultare un’utopia, perseguibile e condivisibile in linea di principio, ma pur sempre un’utopia. Quel che si può fare, invece, è proporre un maggior sforzo di riqualificazione professionale del detenuto all’interno delle strutture carcerarie, nelle quali molto spesso la situazione è effettivamente fatiscente, i servizi minimi non sono garantiti, i bagni sono in comune: condizioni, insomma, disumane. Riuscire a portare in tempi brevi a normalità una situazione del genere non è molto semplice. Tuttavia, forme alternative di espiazione della pena, in alcuni casi hanno dato risultati molto positivi. Ad esempio, i sistemi di semi-libertà hanno portato, proprio nel campo del recupero sociale, importanti successi”.
Che ne pensa della proposta Taormina – Buemi di depenalizzare una serie di reati minori?
“Quella proposta non mi ha mai convinto sino in fondo: è sbagliato dare segnali di eccessiva liberalità, anche perché, da un punto di vista prettamente giornalistico, provvedimenti di questa natura rischiano di venir ridotti ad una sorta di liceità, se non di implicita autorizzazione, a commettere dei reati. Quindi, io ritengo sia il caso di essere più cauti, pur ammettendo, in linea teorica, che una certa depenalizzazione sarebbe ipotizzabile”.
Cioè potrebbe riguardare il classico ‘ladro di polli’, ma non altri tipi di reati?
“In un certo senso, per quanto tipica possa risultare questa classificazione. Teniamo presente che in Italia si sta assistendo a nuove tipologie di reato: c’è una certa sofisticazione delle truffe e siamo il primo Paese in Europa nella contraffazione pirata di videocassette, CD e cose del genere. Siamo insomma attraversati da nuovi fenomeni di illegalità e da organizzazioni criminali forse meno violente, più silenziose, ma certamente agguerrite. La Sicilia, ad esempio, rimane costantemente vittima dalla prassi del ‘pizzo’ che chiunque è obbligato a pagare, per poter svolgere una qualsiasi attività di carattere commerciale, alle organizzazioni criminali. Queste sono tipologie di reato che debbono essere assolutamente debellate”.
Cosa si può fare per rilanciare una modifica in senso garantista del cosiddetto ‘carcere duro’?
“Su questo tema mi ritrovo, attualmente, attraversato da sentimenti contrastanti. Da un lato, mi rendo ben conto che molte battaglie contro la criminalità organizzata si sono potute vincere proprio attraverso il sistema del pentitismo e mediante norme più rigide di detenzione. Grazie al rafforzamento di quelle procedure, voglio dire, lo Stato ha potuto ottenere risultati sensibili e importanti. Tuttavia, non posso negare a me stesso che non c’è nulla di più odioso che una forma interpretativa ‘capricciosa’ della sicurezza e della giustizia la quale, oltre a risultare di natura puramente emergenziale sul terreno pratico, stride fortemente con una concezione e con i valori più limpidi di una società liberale. E’ un po’ quello che avviene in politica internazionale tra Stati Uniti e Iraq: è innegabile che il regime di Bagdad sia fuori dalle regole della comunità internazionale, ma è anche vero che, per far rispettare la legalità internazionale, gli Stati Uniti rischiano, con il conflitto, di sopprimere un certo numero di esseri umani. Allo stesso modo, per combattere la criminalità organizzata non si dovrebbe rischiare una sorta di ritorno ad un concetto medievale della giustizia”.