E’ un’altra Italia quella che vive sul confine tra la provincia di Caserta e quella di Napoli: posti come Mondragone, Castelvolturno, Arzano, Villa Literno, Aversa, Frattamaggiore. Un mondo a stento registrato dai media, che si accorgono di questi territori solo quando ‘scappa’ un morto di troppo. Un mondo fatto di gente che ogni mattina riprende a lottare per la propria dignità, senza alcuna garanzia di farcela. E di gente che ha dichiarato guerra al mondo degli altri. Lo scrittore Sergio Nazzaro, autore di numerosi reportages sulla criminalità organizzata presentati su ‘Clorofilla.it’ e ‘Left Avvenimenti’, nonché giornalista per ‘il Pizzino’, nel suo libro: “Io, per fortuna c’ho la camorra”, edito da Fazi, affonda le mani in un contesto di sfruttamento, dolore, disoccupazione, morte, violenza e sottosviluppo: le ‘piccole storie’ di quelle grandi tragedie che nessuno vuole vedere. Storie che documentano cosa significhi vivere anche solo 24 ore in terra di camorra: un giorno come tanti altri. Nazzaro, in queste vicende, a prima vista marginali, ci descrive un terrificante ambiente sociale composto di muratori abusivi e poliziotti mortuari, di legionari napoletani e avvocati cocainomani, di spacciatori e vedove di morti ammazzati. La sua rabbia è una disperata forma di compassione, un atto di solidarietà scandito con il ritmo serrato del romanzo d’azione. Un libro duro e bruciante come la vita di tutti i giorni tra l’asse mediano e la costa Domiziana.
Sergio Nazzaro, le sue storie si dipanano sui singoli destini di una popolazione che vuole sopravvivere, a un mondo fatto di regole ‘altre’, nel più completo anonimato dell’area casertana: questo suo libro è dunque un tributo alla memoria delle tante vittime di camorra o, più semplicemente, un ‘aut aut’ rivolto alla coscienza dei lettori?
“Gli ‘aut aut’ non debbono mai esser fatti, alla coscienza di nessuno. E cercare di essere un ‘risvegliatore’ di coscienze non fa assolutamente per me: mi piace semplicemente raccontare quelle storie che non hanno molto spazio nella cosiddetta informazione ufficiale. Ce ne sono tante di ‘storie piccole’, che vengono dimenticate ogni giorno. E dietro ogni ‘storia piccola’ dimenticata c’è violenza, dolore, sopraffazione. Se prendessimo a cuore le piccole storie ogni giorno, non ci sarebbe alcun bisogno di proclami, di nessun tipo, per risvegliare le coscienze”.
Il libro è cadenzato in 24 capitoli che corrispondono alle 24 ore del giorno, quasi a scandire che ogni giorno, con la camorra, succede qualcosa. L’ovvio ha un’estrema necessità di essere ribattuto in Italia?
“Ovviamente si: se non vogliamo dimenticare, se vogliamo guardare oltre il quotidiano, guardare verso un futuro reale, c’è bisogno di affermare l’ovvietà delle regole e del convivere civile. Deve essere ovvio che le strade non abbiano buche, deve essere ovvio che non vi sia lavoro nero o sottopagato, deve essere ovvio che i contratti a progetto sono dannosi tanto quanto la camorra stessa. E l’elenco potrebbe continuare per molto”.
I protagonisti sono persone che realmente conosce?
“Non si inventa nulla, quando si parla di camorra: i romanzi li lasciamo ad altri. Per la gran parte è vita vissuta”.
Lei è nato in Svizzera da genitori emigrati poi tornati al Sud e vive a Mondragone: ci si adatta a vivere con la camorra?
“Mai: vivere con chi ti toglie l’aria non è fisicamente fattibile. Certo, ci sono camorristi che hanno un grande fascino, padrini di clan che hanno un mondo personale contorto e assurdo. Sono personaggi interessanti. Ma dove non si può convivere con la camorra è quando i ‘colletti bianchi’, i politicanti piccoli e meschini giocano a fare i camorristi. Questi sono un altro serio pericolo: ‘mezzeseghe’ che paventano violenza e amicizie, ma che non sono nessuno. Un circolo vizioso alimentato dalla violenza e dall’arroganza della camorra stessa. Quindi, quando si parla di vivere con la camorra, bisogna anche ricordarsi che si è costretti a vivere con tanti, troppi, amministratori locali corrotti, che non hanno neanche il coraggio di essere dei veri e propri camorristi”.
Lo spettacolo di questo scempio nostrano di sfruttamento, di disoccupazione, di sciacallaggio edilizio viene spiegato dai media distrattamente: quanto conta, per un giornalista di inchiesta come lei e il suo amico Roberto Saviano, vivere sul posto?
“E’ importante vivere il posto, frequentarlo, tornarci per non perdere il polso delle storie. E, soprattutto, bisogna fare spazio alle nuove storie, a coloro che hanno voglia di dire, di scrivere. Non siamo soli. E questo è l’elemento più importante. Più persone scrivono, più ci si difende. Penso a ‘Fresco di Stampa’, un mensile nato in ‘Terra di Lavoro’ che fa un ottimo lavoro di denuncia. E così tanti altri colleghi e amici che scrivono. Non c’è una sola persona che scrive di camorra, ma sono tanti e tutti coraggiosi”.
La mafia ha bisogno dello Stato, ma non vuole creare un ‘antistato’: ritiene che ci sia più ipocrisia nei clan camorristici o nella società civile collusa?
“La criminalità non è mai ipocrita: loro vogliono il denaro e lo ottengono attraverso la violenza, quando è necessario. Non vogliono essere uno Stato ‘altro’: basta essere in uno Stato che non funziona. Lo Stato italiano è ipocrita quando non sostiene gli sforzi dei giudici, dei poliziotti, dei carabinieri che lavorano per davvero sul campo. Lo Stato italiano è ipocrita perché predica un futuro migliore, ma poi concede contratti a progetto che non permettono nessuna visione del futuro. Lo Stato italiano è ipocrita quando non permette una visione chiara e leggibile dei bilanci dei vari commissari, di molte provincie e Regioni nel Sud, soldi che scompaiono, mentre qualcuno predica che qualcosa cambierà…”.
La camorra dà stipendi, concede il permesso di vivere e di sopravvivere o, se vuole, addirittura lo nega. E funziona bene laddove funziona male lo Stato: si può combattere questa realtà con un progetto?
“Indipendenza economica e indipendenza politica: quando il lavoro non diventerà più una ‘chimera’, avremo uno Stato libero dalle criminalità e, probabilmente, da una politica così decadente”.