Mercoledì 22 ottobre, a Palazzo Montecitorio, si è discusso di “Eredità e attualità della Primavera cecoslovacca” (5 gennaio - 20/21 agosto 1968) a 40 anni dagli avvenimenti sanguinosi avvenuti a Praga con la tragica appendice della fine di Jan Palach, morto dopo essersi dato fuoco davanti alle truppe del Patto di Varsavia il 16 gennaio 1969. La sessione mattutina, presente Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica, si è aperta con l’introduzione di Gianfranco Fini, presidente della Camera e di Fausto Bertinotti, presidente della Fondazione della Camera dei Deputati che ha organizzato l’incontro. Sono seguiti gli interventi di Miroslav Ciz (Repubblica Slovacca) e di Miroslava Nemcovà (Repubblica Ceca). Cito innanzitutto Fausto Bertinotti: “Chi poteva non fece abbastanza, chi avrebbe dovuto accomunare la propria protesta a quella dei giovani cecoslovacchi, volse lo sguardo altrove”. Insomma, il Pci fu “distratto”. Sono seguite le testimonianze. Enzo Bettiza, che fu diretto testimone da Praga (funerale di Jan Palach compreso) come inviato del ‘Corriere della Sera’, ha riferito che “già durante una riunione, tenutasi ai primi di agosto a Cierna tra Leonid Breznev ed Alexander Dubcek, si udivano chiaramente fragori militari. All’invasione del 20/21 agosto parteciparono infatti 7 mila carri armati e 50 mila soldati, cui seguì l’esodo di almeno 300 mila cecoslovacchi”. E il Pci? “Fu latitante: i suoi giornali (l’Unità e Rinascita) ignorarono perfino “Il manifesto delle 2000 parole”, dello scrittore Ludvik Vaculik”. In seguito, è poi intervenuto Pavol Dubcek, figlio di Alexander. Nel 1968 era uno studente 20enne. Dopo 40 anni, ricorda bene la ‘normalizzazione’: “Per l’Urss, la libertà era un tabù e per 20 anni ho vissuto da sorvegliato”. Ringraziando i tanti italiani che hanno dimostrato “grande solidarietà verso suo padre, ricevuto anche dal Papa”, ha concluso: “Neanche la forza più potente del mondo può soffocare i valori dell’uomo”. A questo punto, sono seguiti gli interventi dei rettori dell’Università di Udine, Cristiana Compagno, che sta preparando una mostra sull’argomento e dell’Ateneo di Bologna, Pier Ugo Calzolari. Quest’ultimo, in particolare, ha tracciato un parallelo tra “due ’68: quello occidentale, che inneggiava a Marx e quello cecoslovacco, che festeggiava la libertà, poi osteggiata e repressa dal marxismo imperante nell’Est europeo”. La sessione pomeridiana è stata anch’essa molto interessante per gli interventi storico – politici di alto spessore susseguitisi. Secondo Stefano Bianchini, “nel ’68, mentre tutti si aspettavano sanzioni economiche, arrivarono i carri armati. Inoltre, il Pci non ruppe col Pcus: solo nel 1988 prese veramente le distanze”. Per Giorgio Petracchi, “l’occidente fu silente spettatore e la gravità di quei fatti fu compresa molto in ritardo. Gli Usa e la Nato non intervennero, perché probabilmente ritenevano che l’Urss non sarebbe andata oltre le sanzioni economiche. Invece, Mosca temeva l’effetto ‘domino’ in tutte le nazioni asservite all’Urss”. Victor Zaslavsky ha lamentato che “gli archivi del Kgb verranno aperti dopo 100 anni dagli avvenimenti di Praga. E comunque molti documenti dimostrano che le posizioni di Pcus e Pci erano sostanzialmente coincidenti. Del resto, il Pcus aveva una enorme forma di pressione: i finanziamenti, rigorosamente in dollari. Ed infatti, Armando Cossutta ha poi ribadito che “nell’ottobre 1968 i fondi vennero dimezzati, perché il Pci secondo Mosca stava scivolando verso la socialdemocrazia”. Per Jirina Siklovà, “gli studenti dei Paesi occidentali (italiani, francesi, tedeschi) in quell’epoca inneggiavano agli invasori, mentre quelli che erano sotto il dominio comunista protestavano abbandonati a loro stessi”. Jirina si è inoltre detto convinto che “il vero declino del comunismo sia cominciato proprio con la repressione della Primavera di Praga”. E’ seguita una tavola rotonda, moderata dallo storico Francesco Caccamo sulla “Eredità della Primavera cecoslovacca”. Piero Fassino, all’epoca 19enne, ha dichiarato di “aver preso la tessera del Pci proprio nel 1968, perché intravidi l’inizio di una presa di distanza del Pci dal Pcus. Anche se di condanna aperta si parlò solo nel 1989, oltre venti anni dopo”. Su Budapest (1956), Fassino ha ammesso che “il Pci fu totalmente dalla parte dell’Urss”, mentre “nel 1968 vi fu un riposizionamento strategico: il Pci condannò l’invasione, ma non il modello comunista”. Luciana Castellina si è tuttavia rammaricata di quelle scelte: “la Primavera”, ha dichiarato, “non fu capita”. Lei ed altri, infatti, non si allinearono sulle posizioni della Russia e vennero ‘radiati’ dal Pci, che si ritrovò costretto ad una semplice condanna di carattere tattico. Ed il “Manifesto” titolò, con estrema sincerità: “Praga è sola”. Difatti, il Pci in realtà si disinteressò di quanto accadde in quei giorni a Praga, checché ne dica Fassino, come confermato anche da Carlo Ripa di Meana, il quale ha ricordato come proprio il giorno dell’invasione Bettino Craxi che gli chiese aiuto per “contattare ed aiutare Jiri Pelikan, uno dei promotori della Primavera”. Insomma, “Craxi fu subito dalla parte del popolo cecoslovacco, mentre i nostri ‘sessantottini’ italiani aborrivano gli Usa e nulla dicevano dell’Urss”. Infine, ha rammentato ancora Ripa di Meana, “su ‘Rinascita’ del 13 settembre 1968 il segretario del Pci, Luigi Longo, scriveva: “Noi staremo sempre dalla parte del socialismo, sempre dalla parte dei popoli contro l’imperialismo”. Per Marcello Veneziani “a Praga vi fu una rivolta contro l’oppressione dell’Urss. Bisognava, dunque, accorrere a Praga per sostenere la “Primavera”. Invece, l’occidente non reagì. Il nostro ’68 oscurò Praga, dove i giovani cercavano patria e libertà. A Praga fu vera rivoluzione non violenta e in tanti pagarono di persona. Non tutti come Jan Palak, certo, ma in 300 mila dovettero lasciare il Paese. Pertanto, io continuo a ritenere che il ’68 italiano sia stato un ‘movimento per il collocamento’. Papa Giovanni XIII”, ha dunque concluso Veneziani, “condannava l’errore (il comunismo) e non l’errante (il comunista in buona fede). Invece, il Pci fece il contrario: condannò gli erranti, ma non l’errore”. Dopo la Tavola rotonda è stata data la possibilità per rivolgere qualche domanda. Ne abbiamo dunque approfittato per chiedere a Piero Fassino, ministro ‘ombra’ degli Esteri, come mai solo il gruppo di Luciana Castellina e del ‘Manifesto’, insieme a Massimo Caparra, già segretario di Palmiro Togliatti, ‘compresero Praga’. In pratica, perché chi veramente comprese quanto stava accadendo venne radiato dal Pci e nessuno ebbe il coraggio di Pietro Nenni, che già dopo i fatti di Budapest aveva restituito il ‘Premio Stalin’ assegnatogli nel 1953? Fassino ha solo risposto che “la storia ha dato ragione a Luciana Castellina e compagni”. Quanto a Pietro Nenni, non si può pronunciare nemmeno chi non era targato Pci.