Chiara Scattone

La morte di Sanaa, avvenuta per mano del suo stesso padre, sembra aver scandalizzato gran parte dell’opinione pubblica italiana. I giornalisti hanno scatenato la loro offensiva nei confronti del padre musulmano, immigrato e assassino, rimarcando soprattutto il particolare dell’appartenenza religiosa della famiglia e la loro provenienza geografica. Il padre musulmano e marocchino, aiuto cuoco in un ristorante della zona, non accettava la relazione sentimentale della figlia con un italiano, non musulmano e ben più grande di lei. E così, il dispiacere iniziale di un padre si è trasformato in rabbia e violenza omicida. Il padre musulmano e immigrato ha ucciso deliberatamente e consapevolmente la figlia, rea di voler convolare a nozze con un italiano cristiano cattolico. La morte di un figlio per mano del proprio genitore è indubbiamente una tragedia umana, di cui troppo spesso si sente parlare in televisione o sui quotidiani nazionali. Ma la morte di una musulmana accusata dal padre di avere “disonorato” la famiglia solo con l’amore provato nei confronti di un uomo di un’altra religione suscita e scatena sentimenti di intolleranza razziale. Seguendo un poco la vicenda nei telegiornali, l’intervista al fidanzato non è riuscita nel suo scopo ultimo di commuovere, al contrario ci ha lasciati fortemente perplessi. Non tanto per la freddezza e per il suo contegno, poiché i sentimenti d’amore verso un individuo sono incomprensibili e assolutamente non valutabili, così come le reazioni di ogni essere umano davanti alla tragedia di perdere una persona cara, ma il preciso giudizio che ha indirizzato al padre e alla famiglia della fidanzata, così come a tutti gli immigrati musulmani presenti sul nostro territorio. Che se ne restassero al loro Paese se non vogliono poi integrarsi con la società che li ospita. E se non accettano di far crescere i loro figli tra i non musulmani non li mandassero nelle scuole pubbliche. Che se ne restassero al loro Paese: ecco il nocciolo della questione. Fino a pochi anni fa, in Italia esisteva ancora nel nostro codice di diritto penale il delitto d’onore. Ma si sa, noi italiani abbiamo la memoria corta e troppo spesso lo dimostriamo, soprattutto nel silenzio e nel segreto delle urne. Se un italiano uccide il proprio figlio è un dramma umano privo di clamore e di indignazione. Se però l’omicidio viene commesso da uno straniero o se si ha la presunzione che questo sia stato commesso da un immigrato e musulmano, l’indignazione diventa generale. Si intavolano dibattiti, si interpellano esperti di religione, di diritto e di questioni più o meno culturali, si intervistano presidenti di associazioni e direttori di riviste specializzate, professori universitari e politici rampanti. Il governo deve prendere seri provvedimenti in materia: i sindaci leghisti fanno bene a interdire il consumo di kebab e panini dai nomi orientali nei centri dei paeselli del produttivo nord. Ma non è ancora abbastanza. Bisogna fermare questo subdolo tentativo di islamizzazione della nostra cultura, cristiana cattolica e italiana: smettiamola di concedere concessioni edilizie per la costruzione e la creazione di luoghi di culto per gli ‘islamici’, per l’apertura di macellerie ‘halal’ o di altre attività che certamente nascondono e dissimulano il vero scopo dei musulmani in Italia: convertirci o scannarci tutti. Siamo troppo cruenti? Forse. Ma siamo in ogni caso indignati per la politica portata avanti in questi giorni da tutta la stampa, sia di destra, sia di sinistra. Siamo stanchi di sentir parlare sempre i soliti noti, presunti esperti, che sciorinano la loro saggezza ammettendo che, certamente, esiste un problema di integrazione culturale e che i musulmani ne sono il fulcro e la causa. Tutto il mondo è Paese: sembrerà banale, ma è un motto geniale. Noi esseri umani siamo spinti dagli stessi impulsi, dagli stessi istinti, chi più chi meno, ognuno con la propria formazione culturale, educativa, religiosa, laica, umana, occidentale od orientale, con la propria esperienza di vita e familiare. I sentimenti che ognuno di noi prova sono i medesimi, dalla Polinesia all’Alaska, dall’Islanda a Città del Capo, dalle Maldive alla Tasmania. Il padre di Sanaa è un assassino e merita di finire in galera. Ma il suo gesto è probabilmente un atto passionale, sconvolgente, legato alla singola circostanza, non ad un’intera comunità o a una religione. Cosa vi può essere di religioso e di ‘islamico’ nell’uccidere il proprio figlio?

 


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Francesco P. Luiso - Lucca Italia - Mail - lunedi 19 ottobre 2009 19.28
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Il movente.


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