La notizia è del 31 luglio scorso: l’Aifa (Agenzia italiana per il farmaco) ha dato il via libera all’immissione nel nostro sistema sanitario nazionale della pillola Ru486, che entra finalmente così a pieno diritto nel prontuario farmaceutico. La pillola dovrà essere somministrata entro la settima settimana di gestazione ma, avvertono i vescovi, “chi ne farà uso, sarà scomunicato”. Non è la prima volta che la Chiesa minaccia una simile ‘pena’, né che la pillola abortiva sia messa sotto accusa da alcuni credenti (tra i quali i soliti politici) e da una parte della società civile. Ma soprattutto non è la prima volta, e non sarà l’ultima (sic!) che la donna sarà strumentalizzata e posta al centro di dibattiti, questioni e battaglie politiche che dovrebbero agevolarla, anziché trattarla come un ‘oggetto’ o, peggio ancora, come una crudele ‘assassina’. Oggi, però, la questione che più preme non è tanto l’autorizzazione concessa dall’Aifa, né le questioni morali, politiche o le accuse spregiudicate della Chiesa e dei suoi vescovi, quanto piuttosto il problema ben più grave dell’obiezione di coscienza, sempre più frequente, di medici e di farmacisti. La libertà di opinione e di ritenere autonomamente ciò che sia giusto e ciò che sia sbagliato non è assolutamente posta in discussione. Tuttavia, la manifestazione della libertà di un individuo non deve e non ha alcun diritto di ledere le libertà altrui. Notizia di qualche settimana fa: un farmacista si è rifiutato di fornire alla donna che la richiedeva dietro presentazione di una regolare ricetta medica, la pillola del giorno dopo. Che oggi, nel 2009, debbano accadere, in un Paese che si ritiene adeguato e adatto a far parte del G8, situazioni del genere, credo non sia più ammissibile. La nostra coscienza morale e religiosa non può e non deve inficiare il nostro operato, soprattutto se, per vocazione e per professione, si è scelto di essere un farmacista o un medico. Il medico, così come il farmacista, anche se ovviamente in misura differente e con strumenti non paragonabili, svolge e fornisce un servizio pubblico, ha sottoscritto un giuramento fondamentale e ha promesso, anzi giurato di assistere con tutti i mezzi e gli strumenti leciti (per la legge statale, non per quella di Dio) coloro che necessitano e richiedono il suo aiuto. Per carità: la morale personale di ognuno è imprescindibile. Ma le nostre convinzioni religiose non possono costringerci a condizionare chi ci sta intorno. La religiosità non deve riflettersi manifestamente nella vita professionale, perché è un’essenza personale e spirituale che deve rimanere tale, all’interno della mia spiritualità. Soprattutto nel cristianesimo, tale elemento dovrebbe, in teoria, rimanere confinato nella sfera spirituale e intramondana. Nel protestantesimo, nel luteranesimo e nel calvinismo l’uomo è chiamato (berufe o calling) da Dio ad agire nel rispetto delle sue regole nella vita extramondana, nella sua vita di tutti giorni, perché non conosce le reali intenzioni della divinità sul proprio futuro dopo la morte, cioè non sa se verrà dannato o se, invece, raggiungerà la salvezza. L’uomo protestante non può garantirsi l’assoluzione dei propri peccati, così come avviene nel cattolicesimo tramite lo strumento della confessione, ma deve necessariamente agire ogni giorno della propria vita con coscienza, offrendo alla divinità la sua dedizione nella propria condotta quotidiana e, soprattutto, nel compimento del proprio lavoro. Ebbene, i Paesi protestanti - e non solo quelli anglosassoni - da secoli manifestano una maggiore scrupolosità nel legiferare norme a tutela e in difesa della libertà dell’individuo e del rispetto della propria autodeterminazione. Nei Paesi a maggioranza cattolica, come il nostro, tutto ciò non sembra possibile e, anzi, molto spesso si verifica esattamente il contrario. Il nostro Stato, libero, laico e democratico, tollera troppo benevolmente comportamenti che si pongono in aperto contrasto con i principi che esso stesso si è dato al momento della stesura della Costituzione. Non voglio assolutamente affermare che da oggi a nessuno verrà più concessa l’opportunità di esprimere la propria opinione morale o che dovrebbe essere impedito di compiere azioni nel rispetto della propria religiosità. Ma questa non può e non deve rappresentare un ostacolo alle libertà altrui. Anche perché troppo spesso, in questo Paese, ci si dimentica che i credenti cattolici non sono gli unici cittadini, poiché sono presenti anche credenti di altre religioni monoteistiche che non necessariamente interpretano nei medesimi modi valori analoghi. In molti Stati africani di religione musulmana è stato permesso l’utilizzo di metodi anticoncezionali come il preservativo al fine di limitare il diffondersi dell’Aids, mentre quelli a maggioranza cattolica si sono apertamente opposti ad ogni genere di tecnica contraccettiva, così come ci ha ricordato qualche mese fa Papa Ratzinger. La cosa che più infastidisce è che, a parte tutti questi discorsi sulla moralità e sul rispetto o meno della religiosità in ambito medico, sia sempre la donna a dover subire decisioni altrui e, quindi, a dover rinunciare alla propria autodeterminazione. La donna non è, ancora oggi, in grado di scegliere liberamente per se stessa, per il suo benessere e secondo le proprie convinzioni. Che, nel caso dell’interruzione di gravidanza, non violano alcuna legge, né, soprattutto, alcun diritto altrui. La donna ancora oggi viene considerata come oggetto e non come soggetto di diritto.