Pierluigi BattistaPurtroppo la Federazione internazionale dei giornalisti (compreso il rappresentante italiano Paolo Serventi Longhi) non è in grado di organizzare clamorose manifestazioni per la liberazione di Masha Amrabadi, giornalista iraniana, attivista per i diritti delle donne, incinta, segregata in carcere da due settimane in Iran. Non è in grado di farlo perché è troppo impegnata a espellere dall’organizzazione i giornalisti israeliani. Purtroppo non solleverà un caso internazionale per i corpi dei coraggiosi blogger che riempiono l’obitorio di Teheran, con i parenti costretti al silenzio sotto ricatto: i suoi rappresentanti (italiano compreso) sono infatti chini a tempo pieno sui libri contabili per quantificare il mancato introito delle quote non pagate dai giornalisti che scrivono sulla libera e democratica stampa israeliana. Se non è per scagliarsi contro Israele, la riverita Federazione mantiene un sobrio riserbo. Mica caccia la tv di Hezbollah perché reclama la morte di tutti gli ebrei (non degli israeliani, degli ebrei tout court). Caccia i giornalisti israeliani con la risibile scusa della loro morosità. L’Ordine dei giornalisti, in un soprassalto di orgoglio e di fierezza, si è dissociato da questo palese atto discriminatorio, invitando in Italia i giornalisti israeliani a discutere liberamente: come si fa nelle democrazie, non nei Paesi che cancellano la libertà di stampa e fanno gruppo (insieme al rappresentante italiano) per cacciare l’odiata, vituperatissima Israele dalla Federazione internazionale. Su Facebook l’appello “Non in mio nome” sottoscritto non solo da giornalisti, ma da lettori sconcertati dalla prepotenza della federazione internazionale dei giornalisti, ha superato la soglia ragguardevole del mille aderenti. La Federazione nazionale della stampa invece no: eccepisce ma traccheggia, invoca riconciliazioni ma non si dissocia. Peccato, davvero peccato. Anche perché persino la scusa ufficiale dell’espulsione, quella del mancato pagamento delle ‘quote’, è piena di lacune e di omissioni. Non dice che i media israeliani avevano protestato perché erano stati tenuti fuori, e senza nessuna plausibile giustificazione, da una missione investigativa sugli eventi di Gaza. Non dice che in ben due occasioni, a Vienna e a Bruxelles, i giornalisti israeliani sono stati incomprensibilmente esclusi dagli incontri sul Medio Oriente. Non dice che per i professionisti dell’esclusione antidemocratica è del tutto ovvio che gli israeliani non abbiano diritto di parola sulle questioni che riguardano il loro Paese. Devono tacere. Pagare le quote, e zitti. Altrimenti: fuori con ignominia e con l’applauso delle dittature in cui i giornalisti finiscono in galera. O all’obitorio. Ma la quota della decenza la pagano mai, quelli della Federazione?  




(articolo tratto dal quotidiano 'il Corriere della Sera' del 20 luglio 2009)
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