Vittorio Lussana25 anni fa moriva, a Padova, colpito da un ictus durante un comizio elettorale, uno degli esponenti politici più indimenticati della nostra Storia repubblicana: il segretario nazionale del Partito comunista italiano, Enrico Berlinguer. La sua figura aveva iniziato ad emergere durante una fase di grave crisi di leadership del Pci in seguito alla scomparsa di Palmiro Togliatti. Ma prima di diventare Vicesegretario e poi Segretario Generale del partito fondato da Antonio Gramsci e Amedeo Bordiga, Berlinguer si era impegnato in uno studio approfondito delle caratteristiche fondamentali degli elettorati comunista e democristiano. E su tale base iniziò ad elaborare una propria teoria esposta nell’opuscolo: “Riflessione dopo i fatti del Cile”, pubblicato nel 1973. Berlinguer era un uomo ‘nuovo’, in un certo senso ‘diverso’ rispetto ai soliti esponenti politici comunisti, poiché non apparteneva, da un punto di vista generazionale, alla leva uscita dalla Resistenza e le sue origini culturali di matrice familiare erano di schietta derivazione laica e liberaldemocratica. Di carattere schivo, anche a causa di una certa timidezza, aveva subito l’influsso di periodici cattolico – comunisti quali “Dibattito politico” di Mario Melloni e Ugo Bartesaghi e la “Rivista trimestrale” di Claudio Napoleoni e Franco Rodano. La sua tesi, in sostanza, era la seguente: come la tragica fine di Salvador Allende in Cile aveva dimostrato, uno Stato capitalista non poteva essere governato con il 51% dei voti o, comunque, con maggioranze composite e risicate. Occorreva, dunque, una vasta confluenza di forze tra loro compatibili per il loro comune radicamento sociale – Dc, Pci e Psi – le quali sacrificassero una parte delle proprie aspirazioni addivenendo ad un ‘compromesso storico’ in nome del risanamento economico, della solidarietà nazionale e della necessità di una nuova etica civile. L’uso dell’aggettivo ‘storico’, per il Pci configurò, da una parte, l’archiviazione di molta ‘zavorra’ ideologica: dalla teoria ‘leninista’ sulla distruzione del sistema capitalistico, alla tesi ‘gramsciana’ dell’alleanza tra contadini ed operai. Dall’altra, sul piano strettamente politico, l’ossimoro si presentava come l’inizio di un ‘nuovo corso’ che portava a compimento la vecchia strategia ‘togliattiana’ della ‘mano tesa’ ai moderati, da tempo predisposta dall’ala intellettuale dei ‘comunisti cattolici’ che faceva riferimento ad Adriano Ossicini e, soprattutto, a Franco Rodano. Il disegno era praticamente quello di una società ‘organica’ in cui la mediazione e la ‘comprensione’ avrebbero dovuto annullare sistematicamente ogni conflitto, ogni problema, ogni scontro e la stessa ‘lotta di classe’. Perciò, dopo le elezioni politiche del 1976, in cui il Pci raggiunse la sua quota massima di consenso, un 34,4% che aveva lasciato attoniti tutti gli osservatori e gli analisti politici dell’epoca, la Camera dei Deputati incoronò Giulio Andreotti nuovo Presidente del Consiglio di un governo monocolore democristiano benevolmente atteso dai comunisti, sopportato da tutti per un anno e sostituito, l’anno successivo, da un altro ‘monocolore Andreotti’ con maggioranza ‘esapartitica’, divenuta poi ‘pentapartitica’ per il ritiro dei liberali. Nella condizione di non poter disporre neppure di un Sottosegretario alle Poste e costretto, per propria deliberata scelta, tra le ‘spire immobiliste’ della Dc, Berlinguer tentò comunque di dare la stura ai più improbabili propositi di austerità economica, a nuovi modi di governare, a nuovi modelli di sviluppo sociale. Ma dietro ognuna di queste espressioni non vi era il benché minimo progetto per un fare realistico, la benché minima idea di come quelle cose potessero essere realizzate insieme alla Dc. L’attività legislativa del triennio 1976 – 1979 fu a dir poco miserevole per quantità e qualità, poiché partorita dopo negoziati sfibranti ed estremamente nervosi, come regolarmente capita quando una parte dubita della buona fede dell’altra. Ad esempio, le misure economiche di austerità non riuscirono ad andare oltre una riduzione delle festività civili e religiose, una parziale disincentivazione della scala mobile ed un blocco, anche questo assai parziale, delle indennità di buona uscita. Tutto ciò all’interno di un quadro complessivo di durissima crisi fiscale, con un fabbisogno tributario pari al 13% del reddito nazionale (contro il 4,5% degli anni ’60), di gravissimo indebitamento dello Stato e di inflazione in caduta libera. Il che si tradusse in un obbligo a provvedimenti aspri, di totale rinuncia alla crescita. L’abbaglio di Berlinguer non era quello di aver tratteggiato una democrazia ‘consociativa’, poiché coalizioni anche molto composite hanno guidato Paesi, come l’Olanda, il Belgio, l’Austria e la Germania scossi da tensioni etniche o religiose notevolmente più acute di quelle dell’Italia, bensì nell’aver immaginato una consonanza quasi perfetta fra le diverse subculture ‘storiche’ di Dc e Pci e le domande ‘sociali’ che questi due partiti esprimevano, nell’aver postulato una docilità naturale delle istituzioni e della burocrazia statale, nell’aver giudicato insignificante la questione degli uomini chiamati a tradurre in opere concrete ogni ipotesi politica. Invece, sia la Dc che lo stesso Pci possedevano un ‘corpo’ ben altrimenti ‘vorace’ rispetto alla frugale ‘anima popolare’ che sostenevano di ospitare, mentre gli apparati amministrativi dello Stato non si rivelarono affatto disponibili o neutrali. Con ciò, non intendo affermare che i cosiddetti governi di ‘solidarietà nazionale’ si dimostrarono totalmente ‘abulici’, quanto piuttosto che ogni provvedimento di riforma varato in quella fase finì con lo scontare, nel passaggio dalla teoria all’applicazione, una serie di dirottamenti e di intralci che li fecero apparire frutto di demagogia o di prese di posizione meramente ideologiche, mentre invece si trattava di faticosi tentativi di riordinare settori della vita collettiva in cui imperavano retaggi quasi atavici di inciviltà giuridica e morale. Così avvenne, tanto per citare un caso, con la legge n. 180 del 1978, la cosiddetta “legge Basaglia”, la quale impose la chiusura dei manicomi al fine di affidare l’assistenza psichiatrica dei malati di mente ad apposite strutture territoriali. Tale norma, infatti, finì col venir disattesa proprio nella sua parte costruttiva e assistenziale. E la cura dei pazienti ‘cronici’ venne brutalmente ‘scaricata’ sulle famiglie, col semplice risultato di diffondere nella società un’insana nostalgia verso il manicomio, un microcosmo ‘orripilante’ che ha sempre ipocritamente permesso ai ‘sani’ di distogliere il proprio sguardo dal doloroso ‘pozzo’ delle patologie mentali. Insomma, nel giro di tre anni il tentativo del Pci finì col naufragare in un mare di tragedie legislative, umane e politiche (riforma della Rai, rapimento e uccisione di Aldo Moro, recrudescenza del fenomeno terrorista di estrema sinistra, riforma del sistema sanitario nazionale, riforma della normativa sugli affitti). Berlinguer dovette dunque constatare come l’esperimento della ‘solidarietà nazionale’ si fosse rivelato insoddisfacente. E decise di passare alla strategia della ‘alternativa democratica’, cioè alla costituzione di un largo fronte politico progressista in grado di mandare la Dc all’opposizione. Ma nelle more di un simile progetto diveniva giuoco forza necessario fare i conti con il Psi e con il suo nuovo leader, Bettino Craxi, un esponente che stava cominciando a dimostrare tutta la propria ragguardevole ‘statura’. Craxi, infatti, non aveva alcuna intenzione di lasciarsi logorare nel ruolo di comprimario della grande forza elettorale comunista e riteneva che il Pci stesse teorizzando un ‘ripiegamento operaista’ che rischiava di preludere a gravissimi errori. Cosa che regolarmente avvenne durante il voto parlamentare del 12 dicembre 1978, allorquando il Pci decise di ‘affondare’ l’intera maggioranza parlamentare avversando l’adesione dell’Italia al sistema monetario europeo nonostante Bruxelles avesse garantito alla vecchia e malandata ‘liretta’ una ‘banda di oscillazione’ più ampia di quella delle altre monete in circolazione nella Comunità economica europea, non escludendo eventuali svalutazioni concordabili. Paventando una virata deflattiva ed una assai poco comprensibile contrazione dell’export, Berlinguer ebbe paura che l’inserimento dell’Italia nel cosiddetto ‘serpentone monetario’ si sarebbe ripercosso sull’occupazione e sul potere di acquisto dei salari, senza tener conto del fatto che in un regime di cambi ‘semifissi’ come quello previsto avrebbe invece incoraggiato nuovi investimenti finanziari proprio nelle nazioni caratterizzate dalla circolazione di monete deboli. Craxi aveva perfettamente compreso come Berlinguer fosse una persona eccezionale che, tuttavia, stava teorizzando una sorta di ‘comunismo democratico’ il quale, in termini di scienza della politica, rappresentava una contraddizione stridente, un nodo impossibile da sciogliere. Il comunismo o è rivoluzionario, oppure non è: “O ideologia borghese, o ideologia di classe. In mezzo, non c’è niente”, aveva scritto Lenin già nel 1919. E anche eminenti studiosi come Norberto Bobbio stavano rilevando come ormai il Pci stesse svolgendo le funzioni di un vero e proprio partito socialista, un socialismo massimalista, ma pur sempre socialista. Era, infatti, giunto il momento di affermare, inequivocabilmente, che i socialisti avevano ragione sin dai tempi della rivolta ungherese, repressa dai carri armati sovietici nel 1956. I comunisti italiani, pur avendo indubbiamente dimostrato, soprattutto durante la ‘psicodrammatica’ vicenda Moro, di aver pienamente accettato i metodi e le procedure della democrazia parlamentare, ora dovevano definitivamente abbandonare Karl Marx e guadagnare, a tutti gli effetti, la sponda del socialismo democratico. La guerra tra i due ‘partiti cugini’ esplose immediata e clamorosa, lasciando la Democrazia Cristiana incredibilmente indisturbata al governo del Paese, nonostante, da un punto di vista numerico, Pci e Psi, sin dalle elezioni politiche del 1968, sommati assieme superassero più che sensibilmente il bagaglio di voti complessivi dello ‘scudo crociato’. Il travaglio comunista fu lento e doloroso, pieno di rancori e di sogni infranti. Dopo le elezioni politiche del 1983, Craxi iniziò a presiedere, in alleanza con la Dc, uno dei governi più lunghi e più attivi della Storia della Repubblica italiana, dando la ‘stura’ a nuovi metodi di gestione della cosa pubblica, a nuovi rapporti tra mondo del lavoro e associazioni di categoria (ecco come nacque la cosiddetta ‘concertazione’). E l’anno dopo, attraverso un decreto legge, il leader del Psi decise di tagliare tre punti di ‘contingenza’ della cosiddetta ‘indennità integrativa speciale’ – la cosiddetta ‘scala mobile’ - la quale era stata unificata, nel 1975, ad un punto talmente elevato da generare un tasso di inflazione a due cifre (nel 1982 era stato raggiunto un dato inflazionistico pari al 22%). Si trattò di un atto di coraggio politico incredibile: il governo che decretava in materia di contratti! La frazione comunista della Cgil, inferocita, decise di raccogliere le firme al fine di abolire, tramite referendum, quella norma, la quale avrebbe potuto causare, a parere del sindacato comunista, una crisi ‘deflattiva’ che sarebbe ricaduta sui ceti più deboli. Fu stabilito che il referendum si sarebbe tenuto l’anno successivo alle elezioni europee del 1984. Ma proprio durante quella campagna elettorale, Berlinguer venne improvvisamente a mancare. La scomparsa di Berlinguer portò nelle strade di Roma due milioni di persone. E il Pci, per la prima ed unica volta nella sua storia, superò, nel conteggio finale dei risultati per il rinnovo del parlamento europeo, la Democrazia Cristiana. Tuttavia, il referendum sulla scala mobile, tenutosi l’anno dopo, venne perduto: si trattò di una sconfitta durissima per il Pci, il quale all’improvviso si ritrovava a dover gestire una difficilissima fase ‘post Berlinguer’ in un contesto di gravissima crisi di leadership. Si era ormai definitivamente schiusa l’era di Bettino Craxi, il quale aveva intuito che, considerando le modalità cicliche della congiuntura economica internazionale, ogni possibile ricaduta monetaria discendente dall’abolizione della scala mobile avrebbe avuto effetti molto diluiti nel tempo, peraltro ammortizzati dall’improvviso irrobustimento del potere di acquisto ‘interno’ della lira. La partita, già allora, per il Pci era clamorosamente perduta. Cominciarono così i bellissimi anni ’80, un decennio felice e produttivo in cui il ‘Made in Italy’ divenne di moda “non solo per la moda”, come ebbe a dire lo stesso Bettino Craxi. I comunisti erano totalmente in balia della situazione, a mezza strada tra il disorientamento e una snobistica ‘autosegregazione’ all’opposizione. In una chiave eminentemente dottrinaria, la lucidità politica di Craxi era assolutamente intellegibile: Marx era un economista ‘classico’, alla Ricardo. E come Ricardo aveva teorizzato una caduta tendenziale del saggio di profitto capitalistico che discendeva quasi direttamente dalla teoria ‘ricardiana’ dei rendimenti decrescenti. Insomma, la fotografia di ‘partenza’ del sistema capitalistico delineata dal filosofo di Treviri ne ‘il Capitale’ era perfetta. Ma la ricetta proposta era troppo ‘pessimistica’, poiché nulla ha mai impedito periodici ‘riassestamenti congiunturali’ del sistema produttivo preso nel suo complesso macroeconomico. Si trattava, in buona sostanza, del concetto dell’andamento ciclico dell’economia mondiale che, dopo Marx, era stato teorizzato da Sraffa e da Keynes: non c’era alcun bisogno di erigere un pachidermico ‘capitalismo di Stato’ al fine di assicurare una miglior distribuzione delle ricchezze tra le classi sociali. Bastava – e basta - una periodica ‘correzione’, in termini di politica economica, dei meccanismi di redistribuzione dei redditi e del mercato del lavoro. Il marxismo, insomma, si era rivelato una teoria ‘sociologicamente ingegnosa’, ma scientificamente sbagliata. E non si poteva nemmeno considerarla una filosofia, poiché crollando ogni presupposto scientifico, la sua dottrina di fondo decadeva a mero ‘sentimentalismo proletario’. Craxi si ritrovò di fronte all’improvvisa agonia della speranza che aveva mosso milioni di uomini e di donne in tutto il mondo: quella dell’avvento del Paradiso sulla Terra. L’equivoco, la non comprensione, il fideismo atipico di una sorta di ‘misticismo ateo’, alimentato da decenni di ‘nicodemismi strumentali’ e di doppie verità, si scaraventarono contro di lui. Il ‘craxismo’ iniziò ad essere esaminato come fattore degenerativo della politica italiana, una sorta di decisionismo di potere per mere finalità di potere. Ma quella ‘mutazione genetica’ di cui i socialisti erano stati accusati proprio da Berlinguer fu solamente il definitivo strappo dell’autonomista Craxi (autonomista rispetto all’abbraccio con il ‘Grande Fratello’ comunista) dalla tradizione più utopica della sinistra italiana.






(articolo tratto dal sito web www.periodicoitaliano.info)
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Stefano Rossi - Genova - Mail - giovedi 2 luglio 2009 12.11
Caro Vittorio, sei un valido giornalista puoi, quindi, capire se dico che è di questa politica che la gente è stanca, esasperata. Certo, non si vuole la totale disgregazione, bensì un’aggregazione selettiva, l’unificazione delle forze profondamente serie che aspirano alla stessa cosa, il rinnovamento. La nostra società ha ancora delle sincere possibilità di assestamento e di recupero in quanto il verificarsi di mutamenti nella sfera del potere è possibile in qualunque epoca e in qualunque stato, anche se gravemente malato come il nostro. Ricordiamoci, anche in politica vale il principio che il male trionfa se i buoni tacciono e rinunciano all’azione. In tal caso la democrazia e solo di facciata. Ed oggi è proprio così. Non c’entra affatto destra o sinistra, simulacri che non hanno più ragion d’essere, bisogna guardare avanti, senza miopia, con grandi progetti, dobbiamo pensare al futuro che avanza a una velocità incredibile e noi non possiamo affrontarlo con l’incessante politica dell’emergenza, con la solita ambiguità levantina, con un’economia che annaspa. Abbiamo bisogno di sostenitori della modernizzazione, anche di quella culturale, di gente capace di assimilare le conquiste del sapere, della scienza, della tecnologia per applicarle alle nostre industrie e alla nostra società.
Vogliamo uomini di vera scienza, vogliamo una nuova filosofia, capace di sintetizzare oggettivamente il sapere dell’umanità. Dobbiamo sbarrare la strada a quegli incapaci che hanno sempre interpretato il divenire solo in funzione delle direttive di partito.
E il governo…?..Lo vorremmo buono con i buoni e finalmente severo con i disonesti, con i delinquenti, dicendo basta al solito pietismo mieloso di un apparato politico infantile che non vuole crescere.
Un vero cambiamento è difficile da conseguire, ma non certo impossibile perché il popolo sa valutare la situazione ed è in grado di vedere nella giusta luce gli scandali vergognosi che gli organi d’informazione ci stanno proponendo ormai quasi tutti i giorni. Viene chiesto che cosa c’è sotto tutta questa manovra. Non lo so e non mi interessa, ma prendo atto che deve essere detta la verità, anche se triste e amara, che devono essere smascherate situazioni gravi che non dobbiamo più tollerare. Evidentemente la verità viene alla luce perché il sistema non ce la fa più a nasconderla, scoppia, non riesce più nemmeno a contenerle tutte, né le scappatelle, né le malefatte che si sono perpetrate negli ultimi trent’anni.
Negli anni ’90, con tangentopoli, il sistema è scoppiato, ma si è subito ripreso per la grande forza di coesione e di autotutela che ha in sé stessa la politica nel suo aggrovigliato intreccio di interessi.
Qui si vive alla giornata invece di programmare il domani con serietà ed efficacia. I nostri rapporti internazionali sono lenti, epidermici, troppo costosi e ben poco produttivi. L’economia interna è alterata nel suo funzionamento, basta con i sostegni assurdi, i dumping, le protezioni, i monopoli. Chi deve fallire, fallisca. Chi deve investire, non pensi di mungere la vacca pubblica perché ormai non è più tempo di intascare i profitti e di socializzare le perdite addossandole allo Stato, vecchio vizio mai eliminato da nessun precedente governo.
Scindiamo la politica dagli immediati interessi industriali perché questi devono cercare sbocchi propri e non sfociare in agevolazioni o coperture pubbliche. Il mondo politico deve essere arbitro e non parte in causa, senza familiarizzare con uno contro l’altro, in reciproci interessi di conquista finanziaria. La grande industria deve avanzare con le proprie gambe, spinta da imprenditori seri che vivano la vita della fabbrica, senza passare ma maggior parte del loro tempo nei palazzi del potere.
Occorre un’economia pulita, la politica non dev’essere un affare, occorre una forte riduzione dello sgravio fiscale con una pari riduzione degli sprechi e delle ruberie. Esisteranno pure da qualche parte candidati anti- deficit che vedano la politica economica come benefico effetto sulla collettività e non della clientela e delle casse dei partiti. C’è bisogno di leaders che sappiano all’occorrenza anche essere impopolari, che sappiano assumere un atteggiamento determinato verso i potenti e sappiano capire il disagio dei deboli.
Contro la malavita serve più decisione perché non è con l’ipocrisia del buonismo privo di dignità che si possono ripulire le strade dalla delinquenza. Non chiediamo che a Caino venga inflitta una pena superiore al dovuto, ma chiediamo che la sconti veramente e soprattutto vogliamo introdurre il principio che nessuno tocchi Abele. Lui ha più diritti di Caino, ma per ora sembra il contrario. Vogliamo chiedere che la lotta alla criminalità organizzata, alla droga, al commercio illegale di armi, sia portata avanti con una forza primaria e inarrestabile, con i molti mezzi tecnologici d’indagine che oggi esistono. Bisogna far sviluppare le parti più produttive del nostro Stato, liberandolo da quella cappa di criminalità che lo soffoca terribilmente sotto gli occhi di forze dell’ordine poco attive, inefficienti, tarpate, burocraticamente rassegnate, quando, addirittura, non conniventi.
I cittadini onesti devono chiedere con forza che venga finalmente attivata una efficiente e tempestiva funzione della giustizia civile, come di quella penale e di quella amministrativa, oggi gestite da giudici chiusi in una corporazione che non è penetrabile nemmeno dal diffuso malcontento della gente comune. Non si tenta neanche di fare sondaggi su questo argomento, oggi pur così diffusi in tutti i settori, per sapere che ne pensa il cittadino dei giudici. Sarebbe un atto di lesa maestà, ma la pagella sarebbe di netta bocciatura. Basta con questi monumenti intoccabili. La giustizia è forse il più importante servizio che deve dare lo Stato, mentre oggi è di sicuro tra i più scadenti e aleatori. Anche l’arretrato giacente rappresenta una vergogna, portando le cause civili a tempi talmente lunghi da creare disperazione negli interessati.
La questione morale è la vera questione politica in una società sempre più rappresentata da malfattori e da famose e anche oscure cortigiane. E’ evidente che nessuna politica può imporre una visione etica del mondo, non si vogliono autoritarismi culturali, ma di una morale sociale di comportamento sì che se ne sente il bisogno perché oggi persino il più spregevole pettegolezzo è diventato un’arte, a volte persino stupida e crudele. Ad ogni modo, anche i giornali dovrebbero esercitarsi in una sana cultura del silenzio e del rispetto.
Raramente in politica arrivano le aquile, è più facile la presenza di pavoni, tacchini, più difficilmente di polli e piccioni, ma in ogni caso pur sempre di ruspanti che sanno astutamente guardare vicino al loro becco.
Io invito tutti a combattere contro una politica sclerotizzata che produce tanti mali, che si autorecluta con osmosi, che manifesta sempre più spesso una grave crisi della ragione e del buon senso. Abbiamo visto governi, come si suol dire, forti con i deboli e debolissimi con i forti.
Per carità ! Ringrazio il Cielo se vi sono ricchi che hanno iniziativa e investono, spargendo ricchezza, ma nulla devono avere da spartire con la politica. Questa, infatti è una realtà di tutti, non può essere appannaggio dei poveri contro i ricchi, come un’invidia collettiva, né dei ricchi contro i più deboli con una grande viltà. E poi basta con sinistra e destra in una lotta di colori degna di uno stadio. Come si dice in Cina, non importa che i gatti siano bianchi o neri, l’importante è che acchiappino i topi, invece di starsene comodamente sdraiati sui divani dei salotti buoni della capitale a discutere degli affari loro.
Cordialmente ciao.
Giorgia - Roma - Mail - mercoledi 1 luglio 2009 18.29
Sono molto affezionata al ricordo di Berlinguer, ma debbo ammettere che questo "approfondimento" mi ha fatto capire molte cose. I miei genitori votavano fedelmente Pci e per questo, credo, su tante cose hanno sorvolato. E comunque questo punto di vista non mi è apparso forzato e lo ritengo un gran merito del giornalista, che ha saputo tenersi lontano da certi toni polemci.
Interessante, grazie.
Vittorio Lussana - Roma - Mail - domenica 28 giugno 2009 11.48
RISPOSTA AD ANDREA: grazie per il tuo commento, Andrea. Hai ragione: la frase del Pci che non poteva disporre nemmeno di un sottosegretario alle Poste è tratta da un noto editoriale di Ernesto Galli Della Loggia. E' chiaro che, per poter scrivere un brano di spessore, qualche autorevole collega lo debba andare a ricercare. In un articolo di carattere giornalistico, le note a piè di pagina non sono obbligatorie. Ma questa, come tu hai sottolineato, va giustamente menzionata. Un caro saluto.
VL
Andrea - Italia - Mail - domenica 28 giugno 2009 2.4
Articolo interessante, storicamente preciso, anche intelligente nel porre in evidenza le "diverse domande sociali espresse da Dc e Pci", un punto di vista inusuale e innovativo, a cui pochi hanno pensato. Complimenti a Lussana. Anche se ho riconosciuto qualche vecchia frase di un editoriale di Galli della Loggia del 1978. Ma non posso certo recriminare all'autore dell'articolo di essersi ben documentato. Anzi, può darsi che si tratti di un ulteriore merito di questo approfondimento.


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