La sera del 27 ottobre 1962, la torre di controllo dell’aeroporto di Linate perse i contatti con un piccolo bireattore, un Morane – Saulnier registrato con la sigla I – Snap di proprietà dell’Eni, il nostro ente petrolifero di Stato. A bordo del veivolo si trovavano: Enrico Mattei, un giornalista americano, William McHale e il pilota, Irnerio Bertuzzi. L’aereo era decollato dall’aeroporto di Catania nel secondo pomeriggio, dopo una ‘visita – lampo’ di Mattei in Sicilia. Di lì a pochi giorni, il presidente dell’Eni, il più potente manager di Stato italiano, si sarebbe dovuto recare in Algeria per firmare un accordo sulla produzione di petrolio, un’intesa assai scomoda per le multinazionali che controllavano il mercato mondiale del greggio. Dopo poche ore dalla perdita del contatto radio, i resti del Morane – Saulnier vennero ritrovati in un prato della bassa Pianura Padana, presso una frazione del comune di Landriano denominata Bascapè, in provincia di Pavia. Dei tre occupanti, vennero recuperati solamente una trentina di chili di carne e ossa in tutto. Ai primi giornalisti che giunsero sul posto, uno ‘stanziale’, il signor Ronchi, descrisse la caduta dell’aereo come se questo fosse esploso in volo. In seguito, il Ronchi cambiò tale versione aggiustandola e manipolandola, sino a descrivere quella che, a prima vista, gli era apparsa un’esplosione in cielo solamente come un tragico incidente. Ciò in quanto l’interrogativo si era posto immediatamente agli occhi dell’opinione pubblica italiana: cosa era successo veramente? Si trattava di un incidente o di un delitto? Di una tragica fatalità o di un sabotaggio? Di una disgrazia o di un complotto? Parallelamente all’inchiesta amministrativa, aperta dall’Aeronautica Militare, la Procura della Repubblica di Pavia aprì un’indagine per i reati di omicidio pluriaggravato e disastro aviatorio. Tuttavia, mentre l’inchiesta militare si chiuse nel giro di pochi mesi, senza aver sostanzialmente accertato alcuna causa dell’incidente, il giudice istruttore pose fine ad ogni accertamento solo tre anni dopo, accogliendo le richieste della Procura e pronunciando una sentenza “di non luogo a procedere perché i fatti non sussistono”. A ridar ‘fiato’ alla vicenda, però, sul finire degli anni ’70 del secolo scorso, furono un libro e un film. Il primo era stato scritto da Fulvio Bellini e Alessandro Previdi ed era intitolato: ‘L’assassinio di Enrico Mattei’. Il secondo fu il capolavoro di Francesco Rosi: ‘Il caso Mattei’. Contemporaneamente, Italo Mattei, fratello del presidente dell’Eni, chiese che venisse istituita una commissione parlamentare di inchiesta tesa ad approfondire la vicenda. I dubbi sull’incidente, in effetti, continuavano a rimanere fondati. Inoltre, la scomparsa di Mattei aveva facilitato troppe persone, in Italia e all’estero, dal momento che la sua spregiudicatezza, la sua aggressività e i suoi strettissimi rapporti con i Paesi produttori di petrolio avevano urtato il ‘cartello’ petrolifero denominato delle ‘Sette Sorelle’. La riapertura delle indagini venne inoltre richiesta da una serie di interrogazioni parlamentari, nonché da una serie di periodiche campagne di stampa. L’interesse attorno alla misteriosa fine di Mattei ricevette nuovo impulso nel corso delle indagini sulla scomparsa del giornalista del quotidiano ‘L’ora’ di Palermo, Mauro De Mauro, avvenuta nel settembre del 1970. Una delle ‘piste’ seguite dall’inchiesta sulla fine di De Mauro aveva infatti ipotizzato che il giornalista fosse stato sequestrato ed ucciso poiché aveva scoperto qualcosa di molto importante circa la morte di Mattei. De Mauro aveva ricevuto proprio dal regista Francesco Rosi l’incarico di collaborare alla stesura della sceneggiatura del suo film, ricostruendo gli ultimi due giorni di vita trascorsi da Enrico Mattei in Sicilia. Ma anche le diverse indagini sulla scomparsa di De Mauro non sono mai approdate a nulla, nonostante la richiesta di ulteriori investigazioni riformulata dal Gip di Palermo nel 1991. Il procedimento è stato archiviato nell’agosto del 1992: De Mauro non poteva aver scoperto nulla di particolare intorno alla morte di Mattei, dato che la magistratura di Pavia ha ritenuto del tutto accidentale la natura del disastro di Bascapè. Tuttavia, nel settembre del 1994 il Gip di Pavia autorizzò nuovamente la riapertura delle indagini nei confronti di ignoti. La procedura di riesame fu richiesta dalla Procura di Pavia che, per competenza, aveva ricevuto dalla Procura di Caltanissetta l’estratto delle dichiarazioni rese il 27 luglio 1993 dal ‘pentito’ di mafia Gaetano Iannì. Secondo costui, l’eliminazione di Mattei era stata decisa da un accordo ben preciso tra alcuni non meglio identificati ‘americani’ e ‘Cosa nostra’ siciliana. A mettere una bomba sull’aereo di Mattei sarebbero stati alcuni uomini della famiglia mafiosa capeggiata da Giuseppe Di Cristina. Il 5 novembre 1997, il pm di Pavia, Vincenzo Calìa, giunse pertanto alle seguenti conclusioni: “L’aereo a bordo del quale viaggiavano Enrico Mattei, William McHale e Irnerio Bertuzzi fu dolosamente abbattuto nel cielo di Bascapé la sera del 27 ottobre 1962. Il mezzo utilizzato fu una limitata carica esplosiva, probabilmente innescata dal comando che abbassava il carrello e apriva i portelloni di chiusura dei loro alloggiamenti”. In ogni caso, tali conclusioni lasciavano ancora aperti una serie di enigmi: se la tragedia di Bascapè fu in realtà un attentato, chi è stato ad uccidere Mattei, McHale e Bertuzzi? E qual era il movente del sabotaggio? Alla ‘sbarra’ ci finì solamente il contadino Mario Ronchi con l’accusa di favoreggiamento personale aggravato: secondo l’accusa, Ronchi vide l’aereo di Mattei esplodere in volo e rilasciò alcune interviste in tal senso a diversi organi di stampa e alla Rai (che ne censurò le affermazioni…). Dopodiché, decise di ritrattare ogni cosa: forse, qualcuno aveva ‘comprato’ il suo silenzio. Ma, nel frattempo, Ronchi era deceduto senza più poterci aiutare a decifrare i veri perché del suo ambiguo comportamento.
CHI ERA ENRICO MATTEI?
La mitizzazione o il disprezzo verso la figura di Enrico Mattei ha sempre rappresentato una sorta di ‘gioco di società’ in cui, per molti anni, si sono cimentati, a seconda delle necessità, diversi settori e partiti politici. C’è da dire che Enrico Mattei non rappresentava un personaggio facilmente catalogabile. Era nato ad Acqualagna, nel pesarese, figlio di un maresciallo dei Carabinieri. Senza completare gli studi, si era fatto assumere come operaio da una fabbrica di materassi. A 24 anni lasciò le Marche per trasferirsi a Milano, dove trovò impiego come commesso viaggiatore. Ottenuta la rappresentanza di un’importante azienda chimica tedesca, pochi anni dopo, con un piccolo capitale di partenza, fondò la Icl (Industria chimica lombarda), un’azienda specializzata nella produzione di olio per l’industria conciaria. Già in stretti rapporti con Orio Gracchi, un avvocato legato agli ambienti della Democrazia cristiana, durante la Repubblica di Salò entrò in contatto con la ‘Resistenza bianca’, diventando comandante partigiano di una Brigata cattolica. Al termine del II conflitto mondiale venne considerato un patriota. Il 12 maggio 1945, il Comitato di Liberazione nazionale gli affidò dunque l’incarico di Commissario straordinario dell’Agip: il suo compito era di ‘liquidare’ in tempi rapidi quell’inutile ‘carrozzone’ messo in ‘piedi’ dal fascismo. Al contrario, Mattei riuscì a convincere il Governo a non dismettere le attività dell’azienda, riuscendo peraltro a trasformarla, nel giro di pochi anni, in un vero e proprio ‘gioiello’ dell’industria di Stato. Nel 1949 portò a compimento un’operazione che lo mise in netta evidenza: nella zona di Cortemaggiore, in piena Pianura Padana, una sonda dell’Agip aveva trovato un ricco giacimento di metano in cui era mescolata anche qualche traccia di petrolio. Mattei, allora, decise di giocarsi una ‘carta’ straordinaria: utilizzando la stampa come ‘cassa di risonanza’, fece credere a tutta Italia che quel giacimento di gas fosse anche un ricchissimo bacino di ‘oro nero’, tale da arricchire non solo la Valle Padana, ma l’intero Paese. Si trattava di un enorme ‘bluff’, ma la notizia non fece che aumentare a dismisura il suo prestigio presso l’opinione pubblica. I titoli Agip salirono alle ‘stelle’. E, grazie anche all’alleanza di Mattei con il ministro democristiano Vanoni, l’Agip si vide affidare per legge l’esclusiva delle ricerche e dello sfruttamento degli idrocarburi in tutta la Pianura Padana. Al fianco di Mattei si schierarono anche le sinistre. Contro di lui, tutte le altre forze politiche e la Confindustria. Fu in quella fase che Mattei dimostrò le sue grandi capacità di movimento: maneggiando con spavalderia i fondi ‘neri’ dell’ente, iniziò a corrompere, finanziare e manovrare tutti coloro che potevano essergli utili. Il 27 marzo 1953 entrò in vigore la legge di istituzione dell’Eni, l’Ente Nazionale Idrocarburi, il quale assorbì l’Agip. Dell’Eni, Mattei divenne prima presidente e, in seguito, anche Amministratore delegato e Direttore generale. Da quel momento, l’Eni e il suo manager, la cui figura si proiettava ormai su scala mondiale, divennero la stessa cosa. Bisogna anche sottolineare che Mattei era dotato di un intuito assai spiccato: al fine di far leva sulla ‘vena populista’ degli italiani, aveva inventato un aneddoto che solleticava non poco la loro voglia di rivincita postbellica. Quella ‘storiella’, che divenne nota come la parabola ‘del gattino’ era la seguente: “C’era una volta un gattino gracile e smunto, che aveva fame. Vide dei cani grossi e ringhiosi che stavano mangiando e, timidamente, si avvicinò alla ciotola. Ma non fece nemmeno in tempo ad accostarsi che quelli, con una ‘zampata’, lo allontanarono. Noi italiani siamo come quel gattino: abbiamo fame e non sopportiamo più i cani grossi e ringhiosi, anche perché, in quella ciotola, c’è petrolio per tutti”. Mattei, insomma, non ci stava a rimanere subordinato alla politica economica americana, la quale, in quegli anni, condizionava la maggior parte delle forze politiche che sostenevano i diversi Governi della Repubblica italiana. Così, decise di rompere l’assedio delle grandi società statunitensi iniziando a tessere relazioni con i Paesi in via di sviluppo produttori di petrolio, soprattutto quelli arabi, o addirittura con gli Stati del ‘blocco’ socialista. Già nel 1957 Mattei era diventato il grande antagonista della Shell e della Esso, trattava direttamente con il Governo libico per lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio del deserto del Sahara, finanziava generosamente i movimenti di liberazione dell’Algeria che combattevano per liberarsi dal ‘giogo’ della potenza coloniale francese, firmava personalmente contratti con la Tunisia e il Marocco. Ai Paesi produttori di petrolio, Mattei non imponeva lo sfruttamento delle loro risorse, come invece facevano gli americani, bensì era solito proporre una politica, riveduta e corretta, del ‘fifty – fifty’. Ai governanti dell’Iran e dell’Egitto, ad esempio, formulò una proposta secondo la quale l’Eni si sarebbe sobbarcata tutte le spese per la ricerca petrolifera nei territori di quei Paesi; se il petrolio fosse stato ritrovato, il Paese produttore avrebbe avuto pieno diritto di diventare socio dell’Eni al 50% dopo aver pagato la metà del costo di sviluppo del giacimento ed aver rimborsato le spese iniziali. In più, al Paese produttore sarebbe andato il 50% della differenza di ricavo tra il costo materiale e il prezzo effettivo di vendita del greggio. Innanzi a quest’ardita proposta, i Paesi arabi, ricchissimi di petrolio, iniziarono a vedere in Mattei un amico, preferendo trattare con lui piuttosto che con altri. Di contro, l’Eni e Mattei iniziarono ad inimicarsi tutto l’occidente che contava. Agli Stati Uniti, in particolare, cominciò a dar fastidio l’accordo che l’Eni aveva stipulato con l’Unione sovietica e le trattative che aveva già avviato con la Repubblica popolare cinese. Nel settembre del 1960, cioè due anni prima della sua morte, Mattei scagliò il suo definitivo ‘guanto di sfida’ contro le potenti compagnie petrolifere americane. Intervenendo all’VIII Congresso mondiale dei petroli, organizzato a Piacenza, il presidente dell’Eni sostenne una tesi coraggiosa: quella della fine del monopolio americano delle risorse petrolifere. In sintesi, le nuove realtà politiche dei Paesi produttori di petrolio rendevano ormai possibile, secondo Mattei, un nuovo ‘assetto’ basato su accordi diretti tra Paesi produttori e Paesi consumatori: il ‘gattino’ aveva cominciato a tirar fuori gli ‘artigli’. L’Eni venne allora invitata ad una ‘cointeressenza’ nella spartizione dei giacimenti petroliferi del Sahara. Ma Mattei, ancora una volta, andò ‘controccorrente’, giocando d’astuzia. E rifiutò l’intesa “almeno fino a quando l’Algeria non diventerà un Paese indipendente”. Nel frattempo, Mattei continuava a foraggiare il Fronte nazionale di liberazione dell’Algeria, impegnandosi in un durissimo ‘braccio di ferro’ con la Francia. Così facendo, egli cominciò ad entrare nel ‘mirino’ dell’Oas, l’organizzazione di estrema destra francese contraria all’indipendenza algerina. E non solo. L’8 gennaio 1962, cioè otto mesi prima della tragedia di Bascapè, Mattei subì un vero e proprio tentativo di sabotaggio. Quel giorno, il presidente dell’Eni doveva partire con il suo Morane – Saulnier alla volta di Rabat, la capitale del Marocco, dove c’erano ad attenderlo il presidente del Consiglio italiano, Amintore Fanfani ed il ministro degli Affari Esteri, Antonio Segni, per l’inaugurazione di una nuova raffineria. Ma quella cerimonia dovette svolgersi senza la sua presenza, poiché durante un giro di prova precedente al decollo, il pilota del suo aereo si era accorto di uno ‘strano rumore’ che proveniva da uno dei due reattori. Dopo un approfondito controllo, venne ritrovato un cacciavite fissato con un nastro adesivo in una parte interna delle tubature in lamiera: con il calore, il nastro si sarebbe certamente liquefatto ed il cacciavite sarebbe finito all’interno del reattore, provocandone l’esplosione. L’episodio del tentato sabotaggio, in realtà faceva seguito ad una lunga serie di minacce che il presidente dell’Eni aveva ricevuto dall’Oas. Intimidazioni serie e preoccupanti, visto che alcuni emissari dell’organizzazione terroristica francese erano presenti in Italia proprio in quel periodo. Mattei sapeva di essere divenuto, inoltre, obiettivo privilegiato anche della Cia, la quale era in stretto rapporto con l’Oas tramite Richard Bissel, a qui tempi vicedirettore del controspionaggio americano. Dal giorno di quel fallito attentato, Mattei aveva iniziato a ricevere, quasi quotidianamente, continue minacce di morte. Ne parlò anche con la moglie Greta, che un giorno lo vide affranto. Gli ultimi giorni della sua vita li visse in un clima di paura. La mattina del 27 ottobre 1962, tenne un discorso alla popolazione di Gagliano Castelferrato, in provincia di Enna. E poche ore dopo, alle 18.57, il suo aereo privato perse ogni contatto con la torre di controllo di Linate, precipitando. A tutt’oggi, le sue ultime ore di vita rappresentano un autentico ‘buco nero’. Il primo interrogativo da porsi sarebbe quello di capire perché Mattei aveva deciso di tornare in Sicilia, dopo esserci già stato solamente una settimana prima. Stando ad alcune fonti, mai confermate, questa seconda visita ‘ravvicinata’ fu determinata dal ritrovamento, nei pressi di Gagliano, di una nuova ‘vena’ di metano. Tra la popolazione, tuttavia, si era sparsa la ‘voce’ che il ritrovamento di una simile insperata ricchezza non sarebbe stata sfruttata a vantaggio della popolazione del luogo e non avrebbe prodotto nuovi posti di lavoro. Invece, nel suo discorso ai cittadini della piccola località, Mattei lasciò intendere che, proprio a Gagliano, l’Eni avrebbe costruito una raffineria. Il fatto curioso, però, è che questo discorso Mattei doveva pronunciarlo nel pomeriggio, appuntamento che venne invece anticipato alle 10.00 del mattino. Anche sui motivi di tale decisione non è mai stata fatta veramente chiarezza: secondo una delle tante versioni, durante l’ultima notte della sua vita, Mattei aveva ricevuto una misteriosa telefonata, nella quale gli veniva chiesto di rientrare a Milano entro la serata successiva. Dovendo decollare da Catania entro le 17.00, per giungere a Milano in tempo il presidente dell’Eni non aveva altra possibilità che anticipare di qualche ora l’incontro con la popolazione di Gagliano. Inoltre, per motivi di sicurezza, Mattei aveva un’abitudine: non comunicava mai ad alcuno, se non al suo pilota personale, gli orari prefissati per i suoi spostamenti. Ma quella misteriosa telefonata notturna – che non si è mai saputo da chi provenisse – aveva, di fatto, svelato l’esatto orario di partenza dall’aeroporto di Catania: nessuno avrebbe potuto organizzare un sabotaggio senza conoscere con certezza a che ora l’aereo del presidente dell’Eni sarebbe decollato.
CHI, DUNQUE? E PERCHE’?
Mattei si era creato un piccolo ‘esercito’ di difesa personale composto da ex partigiani, quasi tutti comunisti, che vegliavano giorno e notte sulla sua incolumità, ma che nulla poterono contro la morte che lo attendeva in quella piovosa serata di fine ottobre del 1962. Oggi, sappiamo quasi con certezza che egli venne assassinato insieme al giornalista McHale e al pilota Bertuzzi. Ma non sappiamo, ancora, da chi: dalla mafia su mandato dei grandi petrolieri americani? Dall’Oas in accordo con la Cia e con l’avallo dei nostri servizi segreti? Oppure, per il delitto Mattei andrebbe seguita una ‘pista’ tutta italiana? Al fine di appurare le cause della tragedia di Bascapè, l’allora ministro della Difesa, Giulio Andreotti, decise di predisporre un’inchiesta che venne affidata ad una commissione ministeriale composta da 11 persone, otto militari e tre civili, presieduta dal generale di squadra aerea Ercole Savi. La conclusione a cui costoro giunsero, dopo una ricerca durata solamente cinque mesi, si limitò a formulare un’ipotesi che sposava inequivocabilmente la tesi dell’incidente o della tragica fatalità: essendo l’aereo in perfette condizioni ed il pilota un professionista di grande esperienza, solo un malore o un errore di stanchezza del pilota stesso potevano aver causato il disastro. La bassa quota a cui volava il Morane – Saulnier, che si preparava all’atterraggio, fece il resto: l’aereo urtò la cima di alcuni pioppi e precipitò. Tali conclusioni sono sempre state fortemente in contrasto con la semplice evidenza: chi conosce bene il territorio della ‘bassa Lombardia’ sa perfettamente che i numerosi ‘filari’ di pioppi che si presentano sul territorio servono, quasi sempre, a segnalare la presenza di lunghi ‘canaloni’ di irrigazione idrica o, addirittura, a definire con precisione i diversi confini di proprietà tra i distinti terreni. In pratica, i pioppi, in Lombardia, sono disposti in ‘filiere longitudinali’, quasi mai sparsi disordinatamente, a ‘macchia’. Dunque, appare assai difficile ipotizzare che il pilota Bertuzzi possa avervi urtato contro, poiché il suo veivolo si sarebbe dovuto ‘infilare’ appositamente tra i pioppi tramite una rotta sostanzialmente perpendicolare rispetto alla disposizione tipica di quegli alberi nella campagna pavese. L’inchiesta ministeriale, in sostanza, non volle minimamente prendere in considerazione l’ipotesi del sabotaggio o dell’esplosione in volo. Ma se dai lavori di quella commissione non emersero evidenze che andassero al di là della constatazione di un semplice incidente, la stessa cosa non avvenne nelle inchieste condotte dai giornali e dalla televisione, le quali rivelarono particolari a dir poco inquietanti, che non erano stati trasmessi, se non frettolosamente e solo nelle prime edizioni, dal telegiornale. Tali anomalie informative, sul momento passarono sotto silenzio. Ma con il trascorrere del tempo e grazie all’interesse mediatico che il ‘caso Mattei’ comunque riusciva, di volta in volta, a scatenare, ben presto tornarono alla luce, costringendo la magistratura inquirente a ricercare i giornalisti che, nell’immediatezza dei fatti, avevano lavorato al caso al fine di ascoltare direttamente da loro se la gestione dell’informazione era stata corretta. Ciò che si intese verificare, in sostanza, fu la possibilità di un’artefazione del resoconto giornalistico televisivo, cosa che venne in seguito confermata dalle diverse dichiarazioni dei cronisti e degli operatori della Rai intervenuti sulla scena dell’incidente aereo la sera del 27 ottobre 1962. Da quelle testimonianze risultò, in particolare, che la direzione dell’allora telegiornale aveva deciso di trasmettere le interviste rilasciate da alcuni abitanti della zona solo nelle edizioni immediatamente successive al fatto, per poi archiviarle in tutta fretta allo scopo di non riproporle mai più. Inoltre, rivedendo i filmati, i magistrati si accorsero con piena evidenza della manipolazione effettuata sulle dichiarazioni stesse, in cui l’audio degli intervistati risultava più volte interrotto: un’evenienza alquanto ‘stravagante’, poiché la cosiddetta ‘smagnetizzazione’ di un nastro audiovisivo di quei tempi, allorquando capitava, poteva avvenire solo ‘integralmente’, mai per ‘spezzoni’ o per singoli segmenti. Per inciso, tali ‘difetti’ di smagnetizzazione erano relativi proprio alle dichiarazioni e alle testimonianze dirette sull’incidente rese, nelle ore immediatamente successive alla tragedia, dal contadino Mario Ronchi e della casalinga Margherita Maroni.
ALTRE INCONGRUENZE
Prendiamo, ad esempio, le vicende relative alla testimonianza della signora Margherita Maroni, detta Rita: le dichiarazioni rese da questa casalinga della provincia di Pavia la sera stessa della sciagura aerea vennero alla ‘luce’ solamente otto anni dopo. E della sua versione dei fatti non v’era minima traccia nell’indagine condotta dalla commissione ministeriale. Il suo nome venne per la prima volta alla ribalta sul quotidiano ‘Il Messaggero’ del 22 ottobre 1970. Le nuove indagini, infatti, avevano permesso di rintracciare i filmati del telegiornale andato in onda nel pomeriggio del 28 ottobre 1962 e, nonostante la manomissione dell’audio, di svelare agli inquirenti il video e la parte iniziale della sua intervista rilasciata alla Rai. Per farla breve, la versione della signora Maroni non era affatto quella dello schianto di un aereo al suolo, bensì di un’esplosione avvenuta in volo, la quale aveva generato un bagliore di luci che scesero sulla pianura di Bascapè come dei ‘bengala’ o, testualmente, “come delle comete”. Rintracciata dal giornalista Salvatore D’Agata (guarda un po’ chi si rivede…) per la testata ‘Panorama’, la Maroni completò e chiarì con nettezza che la ‘vampata’ era avvenuta in cielo: “Ho sentito lo scoppio, poi ho visto le scintille che venivano giù come delle stelle filanti o delle piccole comete. Sono certa di quello che ho visto e non ho mai dichiarato cose diverse, sin dalla sera in cui sono arrivati i primi giornalisti…”. Nonostante tali dichiarazioni e l’ottimo ‘scoop’ dell’amico D’Agata, per 35 anni tutto tacque. O quasi. Finché, nell’ambito delle rinnovate indagini del 1997, gli inquirenti si decisero finalmente a sequestrare e a visionare dettagliatamente ogni documento filmato sulla sciagura di Bascapè. Presso la sede Rai di Milano vennero rinvenuti il video e l’audio del servizio andato in onda nel corso del telegiornale del 28 ottobre 1962. E grande fu la sorpresa nel constatare che non solo la Maroni aveva chiarito perfettamente, sin dalle prime ore seguite alla tragedia, la propria versione dei fatti, ma anche che il contadino Mario Ronchi, la cui ritrattazione aveva peraltro destato una serie di forti perplessità, era stato intervistato nel medesimo servizio e che, in 35 anni, nessuno avesse mai utilizzato quelle dichiarazioni al fine di smascherare le sue menzogne successive. Ancora più grande fu lo stupore allorquando ci si accorse che la parte centrale dell’intervista al Ronchi era stata privata dell’audio, tramite la sostituzione ‘artigianale’ della parte di nastro magnetico su cui scorreva la ‘pista’ di registrazione dei suoni con un ‘tratto’ di pellicola non magnetica. In ogni caso, il fatto che Mario Ronchi avesse risposto al cronista Bruno Ambrosi della Rai affermando di aver prima sentito “un boato” e solamente dopo “una botta…”, lo si apprese comunque, attraverso la lettura ‘labiale’ del filmato stesso.
IL MISTERO DE MAURO
Nel 1970, otto anni dopo la scomparsa del presidente dell’Eni, il caso Mattei era insomma tornato clamorosamente alla ribalta grazie ad un libro assai discusso di Bellini e Previdi. Pubblicato a spese dei due autori, che non erano riusciti a trovare alcun editore, il volume, nel sostenere la tesi del sabotaggio aereo da parte degli estremisti antialgerini dell’Oas e della Cia, conteneva inoltre alcune notizie inedite. La più importante raccontava che il pilota Bertuzzi, in attesa di partire da Catania con a bordo Mattei e il giornalista americano, non si era mai mosso dalla zona in cui era stato temporaneamente parcheggiato il veivolo, in contrasto con quanto era stato affermato dalla commissione di inchiesta secondo la quale, invece, il pilota aveva pranzato al ristorante dell’aeroporto. I due autori affermavano, inoltre, che il pilota venne allontanato dall’aereo con una telefonata e che, in tale frangente, al bimotore francese si erano avvicinati tre individui: due in tenuta da meccanico, il terzo in divisa da ufficiale dei Carabinieri. Più tardi, una persona che aveva assistito alla scena aveva avvisato la Polizia, la quale, nel fermare i tre uomini, aveva identificato l’ufficiale come il capitano Grillo. Spacciandosi in tal modo, i tre individui erano riusciti ad eludere il controllo della Polizia e ad allontanarsi indisturbati. In effetti, un ufficiale dei Carabinieri di nome Glauco Grillo esisteva davvero: si trattava di un tenente in servizio a Monopoli, in provincia di Bari, il quale, per meriti speciali, era in procinto di venir promosso capitano. Il vero capitano Grillo, però, in tutta la sua vita non aveva mai messo piede in Sicilia e chi, in quel 27 ottobre 1962, utilizzò quel nome, conosceva perfettamente tali informazioni. Il libro di Bellini e Previdi ebbe perciò il merito di aver attirato l’attenzione del regista Francesco Rosi, il quale decise la lavorazione di un film proprio sulla scomparsa di Mattei. Ma per poter avere una minuziosa ricostruzione degli ultimi due giorni di vita di Mattei in Sicilia, Rosi, verso la fine di luglio del 1970, chiese una consulenza al giornalista Mauro De Mauro, che a quei tempi lavorava presso la redazione del quotidiano ‘L’ora’ di Palermo e che aveva già collaborato, in passato, alla stesura della sceneggiatura di un altro film di Francesco Rosi: ‘Salvatore Giuliano’. A questo punto, si inserisce nella vicenda un nuovo elemento altrettanto controverso: ricevuto l’incarico da Rosi, De Mauro si mise al lavoro facilitato dal fatto che, otto anni prima, appena appresa la notizia della morte di Mattei, il giornalista si era precipitato a Gagliano al fine di ricostruire gli ultimi due giorni di vita del presidente dell'Eni. Naturalmente, anche per Rosi e De Mauro il primo punto da chiarire era il motivo per cui Mattei era tornato in Sicilia, nonostante vi fosse già stato una settimana prima. Come abbiamo già visto, il motivo ufficiale era dipeso dal fatto che, nei pressi di Gagliano, era stata scoperta una vena di metano. E che Mattei si era visto costretto a tornare in Sicilia al fine di tranquillizzare la popolazione locale. In ogni caso, quel che più conta è che il giorno successivo alla morte di Mattei, De Mauro fosse già stato a Gagliano ed avesse raccolto una serie di notizie per conto di due testate con cui, a quel tempo, collaborava (tra l’altro, di proprietà dell’Eni): il quotidiano ‘il Giorno’ e l’agenzia di stampa nazionale ‘Agi’. Il giornalista, in quell’occasione aveva riempito un intero blocco di appunti: in pratica la trascrizione sintetica di un nastro che un cittadino di Gagliano aveva registrato durante il discorso tenutosi nel corso di quella mattinata. Si trattava di un nastro che De Mauro era riuscito a farsi consegnare e che conteneva sia il discorso del presidente dell’Eni, sia quelli degli oratori che lo avevano preceduto. Nei suoi appunti, inoltre, De Mauro aveva aggiunto un’annotazione a prima vista non molto significativa: “Primo tempo, arrivo ore 15.00. Poi, ultimo momento, anticipato ore 10.00 per notizia Tremelloni”. Tremelloni era il ministro del Tesoro in carica nel 1962, che Mattei avrebbe dovuto incontrare il giorno seguente se fosse rimasto in vita. La manifestazione di Gagliano era stata dunque anticipata dalle 15.00 alle 10.00, perché nella notte precedente, mentre dormiva in una stanza del Motel Agip di Gela, Mattei era stato raggiunto da una misteriosa telefonata che lo invitava a far rientro a Milano con urgenza, entro le 20.00 della sera successiva. Dovendo decollare da Catania verso le 17.00, per poter giungere in tempo a Milano, il presidente non aveva altra possibilità che anticipare di qualche ora l’incontro con la gente di Gagliano. E risulta assai probabile che, riascoltando quel nastro dopo otto anni, De Mauro abbia dato notevole importanza proprio a tale particolare, che dunque risulta decisivo. Abbiamo inoltre visto come Mattei avesse l’abitudine di non comunicare mai gli orari dei suoi spostamenti, se non al pilota Bertuzzi. Ma quella ‘strana’ telefonata notturna, che non si è mai saputo da chi sia stata fatta effettivamente, aveva per forza di cose svelato l’orario di partenza dall’aeroporto di Catania. Infine, nell’indagare per conto di Rosi, De Mauro aveva riempito un altro blocco di appunti: erano i resoconti, stringati ed essenziali, degli incontri che aveva avuto, in quei giorni, con alcuni personaggi all’epoca molto influenti in Sicilia, tra cui Graziano Verzotto, al momento della morte di Mattei segretario della Dc siciliana e stretto collaboratore dell’Eni, e Vito Guardasi, un avvocato tra i più noti e potenti dell’isola. De Mauro raccolse anche le testimonianze di due deputati: il comunista Pompeo Colajanni e il socialista Michele Russo. Rientrato a Palermo per preparare la documentazione per il film, il giornalista aveva dunque cominciato ad impostare il proprio lavoro su tre tipi di materiale: 1) il nastro registrato; 2) gli appunti tratti dall’ascolto di quel nastro; 3) un altro blocco di annotazioni in cui aveva riportato una serie di colloqui avuti con alcuni personaggi durante il mese di agosto del 1970. Nei primi giorni di settembre, De Mauro aveva trascorso molte ore dentro casa e, secondo la moglie Elda, aveva riascoltato ripetutamente quel nastro, bloccando e riavviando il registratore su alcune frasi precise: su quel nastro aveva forse scoperto un dettaglio che gettava nuova luce sulla fine di Mattei? Poi, mercoledì 16 settembre 1970, appena passate le 21.00, De Mauro scomparve nel nulla. Stava per rientrare, a quanto pare, presso la propria abitazione palermitana quando, secondo quanto riportato da una delle figlie, tre uomini salirono a bordo della sua Bmw, che si allontanò. Da quel momento, del giornalista non si ebbe più alcuna notizia. Le ricerche di Polizia e Carabinieri si mossero in tutte le direzioni. In uno scomparto interno della vettura di De Mauro, ritrovata a poche centinaia di metri da casa sua, venne recuperato un bigliettino di appunti scritto di suo pugno su una speculazione edilizia. Naturalmente, i servizi e le inchieste di cui si stava occupando in quei giorni attirarono immediatamente l’attenzione degli investigatori.
PERCHE’ FAR SPARIRE DE MAURO?
Mauro De Mauro era un giornalista di 49 anni originario di Foggia. Trasferitosi a Palermo nell’immediato dopoguerra, aveva collaborato prima al ‘Tempo di Sicilia’ e, in seguito, al ‘Mattino di Sicilia’. Cronista di ottimo livello, nel 1959 era stato assunto alla redazione del quotidiano palermitano ‘L’ora’, in cui si era distinto tramite una serie di inchieste sui più ‘scottanti’ fatti di mafia. Prima di scomparire, stava attraversando un momento professionalmente non semplice: da un paio di anni non si occupava più di mafia ed aveva cercato di trasferirsi a Roma, al quotidiano ‘Paese Sera’, senza riuscirci. Da poco tempo, era riuscito ad ottenere una collaborazione con ‘il Giorno’. Inoltre, ‘L’ora’ aveva deciso di mandarlo prima a Messina, al fine di riorganizzare la redazione locale, dopodiché lo aveva ‘promosso’ con l’incarico di caposervizio delle pagine sportive, un argomento che De Mauro disistimava profondamente. Nei giorni precedenti la sua scomparsa, il giornalista aveva affermato a più persone di avere per le mani “qualcosa di grosso”. E che quel “qualcosa” riguardava proprio le indagini sugli ultimi giorni di vita di Enrico Mattei. Lo riferì all’editore Fausto Flaccovio, alla figlia Junia e al collega dell’Ansa siciliana, Lucio Galluzzo, al quale disse apertamente che si stava occupando “di un soggetto per un film di Rosi: una cosa grossa, da far tremare l’Italia”. Le ‘piste’ che Carabinieri e Polizia seguirono per cercare di ritrovarlo furono assolutamente divergenti. Dell’indagine, tra l’altro, si occuparono tre investigatori di primo piano, che nel corso degli anni successivi furono, tutti e tre, assassinati dalla mafia: il capitano dei Carabinieri Giuseppe Russo, il commissario della Squadra Mobile di Palermo, Boris Giuliano e il comandante della Legione dell’Arma, Carlo Alberto Dalla Chiesa. Secondo i Carabinieri, De Mauro, nel corso delle sue ricerche, sarebbe incappato in un grosso traffico di droga e, per questo motivo, sarebbe stato eliminato dalla mafia. Questa è anche l’ipotesi sostenuta di recente dal ‘pentito’ Gaspare Mutolo, il quale ha riferito ai magistrati che De Mauro sarebbe stato strangolato da un killer di Stefano Bontade, il capo della ‘mafia perdente’ ucciso dai ‘Corleonesi’ di Totò Riina nel corso della faida esplosa durante i primi anni ’80 del secolo scorso. La Polizia, invece, puntò, anche se con una certa prudenza, sulla ‘pista Mattei’. V’erano state, in effetti, alcune misteriose ‘sparizioni’ tra il materiale che il giornalista conservava per il suo lavoro. E che apparivano quanto mai allarmanti: nel cassetto della sua scrivania in redazione, che era stato forzato, non venne ritrovato, guarda caso, proprio il nastro magnetico con la registrazione della manifestazione di Gagliano a cui aveva partecipato Mattei e dal suo block notes di appunti risultavano strappate numerose pagine. Mancavano del tutto, inoltre, gli altri fogli di appunti più recenti, quelli da utilizzare per il film di Rosi. Il fortissimo sospetto che in quel nastro e in quegli appunti vi fosse la soluzione di due ‘gialli’, quello della sparizione di De Mauro e quello della morte di Mattei, appare evidente. Ed è assai probabile che, nel corso della sua inchiesta sulle ultime ore di vita del presidente dell’Eni, De Mauro sia riuscito a cogliere una ‘sfumatura’ sfuggita a tutti, un qualcosa che avrebbe potuto dare sostanza all’idea del sabotaggio subito dal Morane - Saulnier, un qualcosa che poteva far intendere chi veramente avesse interesse a che De Mauro non parlasse e non scrivesse mai più. Chi ha fatto sparire De Mauro? La mafia, a causa di alcune sue inchieste che, tuttavia, da almeno due anni il giornalista non seguiva neanche più? Oppure sono stati alcuni agenti dei poteri occulti internazionali, magari con l’aiuto di ‘manodopera’ mafiosa, a causa del suo interesse mostrato per la morte di Mattei? Non lo sapremo mai. Ma c’è un particolare su cui nessuno ha mai veramente indagato e che costituisce una di quelle strane ‘coincidenze’ di cui è infarcita la Storia d’Italia: durante i giorni della visita di Mattei in Sicilia, i responsabili del servizio d’ordine erano il questore di Enna, Ferdinando Li Donni ed il vicequestore Antonio Savoia, commissario capo a Gela, due personaggi che, stranamente, nel 1970 li ritroviamo entrambi a Palermo ad occuparsi della scomparsa del giornalista de ‘L’ora’, Mauro De Mauro.
IPOTESI CONCLUSIVE
Il caso De Mauro formalmente non è mai stato chiuso: dopo che il pubblico ministero di Palermo, Giusto Sciacchitano, ha proposto l’archiviazione dell’inchiesta, il giudice istruttore del medesimo tribunale, Giacomo Conte, nell’aprile del 1991 ha deciso di chiedere alla Procura della Repubblica un supplemento di indagine, allo scopo di appurare “il ruolo della mafia e i suoi collegamenti con i poteri occulti, l’estremismo di destra, i servizi segreti e la massoneria”. Secondo il giudice palermitano, infatti, “ci sono elementi di prova che portano a Giuseppe Di Cristina e Giuseppe Calderone quali autori del sequestro De Mauro, nell’ipotesi che sia stato effettuato per conto di qualcuno allo scopo di bloccare l’inchiesta del giornalista sulla fine di Mattei”. Di Cristina e Calderone, due boss mafiosi di spicco, entrambi morti ammazzati, avevano stretti rapporti con ambienti della massoneria siciliana. E massone era pure un tal Cavaliere Nino Buttafuoco, un noto commercialista palermitano il quale, nei giorni immediatamente successivi alla scomparsa di De Mauro, si era recato presso la sua famiglia al fine di rassicurarla. Di De Mauro ha parlato anche il noto ‘pentito’ di mafia Tommaso Buscetta, il quale tuttavia ha riferito al giudice Giovanni Falcone che “la morte di De Mauro non fu faccenda di mafia. Quando ne parlavo con i miei interlocutori erano tutti stupiti: non ne sapevano nulla. Credo che la sua scomparsa sia legata alla morte di un noto politico italiano: credo si chiamasse Enrico Mattei”. Il giudice Conte ha anche proposto che venisse verificata l’ipotesi di un coinvolgimento della struttura clandestina ‘Gladio’ – creata dai serivizi segreti italiani, in accordo con quelli americani, durante gli anni della ‘guerra fredda’ – nell’omicidio di De Mauro. E sulla presenza di ‘Gladio’ in Sicilia voleva indagare pure Giovanni Falcone, anche se, come purtroppo sappiamo bene, la cosa gli è stata impedita. Sul finire del 1995, un altro ‘pentito’ di mafia, Domenico Farina, si è autoaccusato dell’omicidio di De Mauro, rifiutandosi però di fornire particolari sulla dinamica del delitto commesso. Ma, agli occhi dei magistrati che se ne sono occupati, la sua deposizione è sempre risultata scarsamente attendibile.