Ogni tanto, la giornalista ‘femminista’ Roberta Tatafiore faceva due parole con il sottoscritto. Mi invitava a casa sua, dopo avermi addirittura ospitato, nel 2001, per quasi un mese, in un momento di mie difficoltà personali. Era una donna e una collega intelligente, sapiente, fantasiosa, coltissima. Quando abitai insieme a lei, passammo molte serate sulla sua terrazza, a parlare per notti intere sotto la luce della luna di Roma. Ho ancora nella mente le sue risate clamorose, di gusto, per il mio modo originale con il quale le narravo le trame di alcuni film che avevo visto in quel periodo, o le mie più recenti disavventure amorose. In quel periodo, Roberta stava in ‘fissa’ con lo sceneggiato televisivo ‘Incantesimo’. E mi obbligava a vederlo tutti i giovedì sera, spiegandomi ogni retroscena di quella intricatissima vicenda. “Ti prende dopo un po’ che lo segui”, mi diceva, “quando inizia a germogliare dentro di te quel ‘tocco’ di sensualità complicata”. Mai avrei pensato fosse una persona così a rischio, così depressa. “La mia casa per te è sempre aperta”, mi disse una volta, “vieni quando vuoi…”. Ed io sarei anche andato a trovarla volentieri, per raccontarle ancora una volta il mio punto di vista sulle donne, sulle loro complicazioni, sulle loro stravaganti ‘strategie’. Talvolta, venivo bersagliato dagli sms di qualche aspirante ‘mogliettina’ in cerca dell’ultima ‘fuitina’ prima del matrimonio. E lei mi consigliava cosa rispondere: “Dille così: vedrai che la ‘spiazzi’…”. Che amica dolcissima, che donna generosa. Quando ho letto del suo suicidio ‘programmato’, mi sono sentito fortemente in colpa. Negli ultimi tempi, i suoi amici di sempre l’hanno vista confusa e delusa “per la mentalità statalista echiesastica degli italiani”. Quando Roberta diceva e pensava queste cose, voleva dire che aveva bisogno di parlare con me, di pensare con me, di reagire insieme a me. Ed io, oggi, mi sento persino ingannato da quella sua immagine di donna forte, sempre ‘in gamba’, salda come una roccia. Non ho capito, non ho pensato, non ho nemmeno sospettato: tutto avrei voluto tranne che dover scrivere un ‘coccodrillo’ su di lei. Il suo interesse era per le cose che capitavano a me. Ed infatti, è stato quasi sempre di me che abbiamo parlato, perché la incuriosivo e la divertivo. Io, invece, non ho indagato e, adesso, mi sento colpevole. Mi ha sempre fermato il rispetto, una forma di educazione verso di lei, un riguardo sincero verso la sua grande esperienza professionale, le sue inchieste, il suo storico ‘femminismo colto’. Una volta, andammo insieme sulle strade consolari più sperdute e periferiche della capitale, al fine di studiare di nascosto il mondo della prostituzione romana. E facemmo una ‘piantina’ vera e propria: le albanesi sulla Tiburtina, le nigeriane sulla Collatina, le slave sulla Salaria, i transessuali al Torrino e sulla via Pontina. Ero ammaliato da lei, come una sorta di nipote nei confronti di una zia sempre sicura di sé, che non aveva mai paura di nulla. Eppure, di quel che le accadeva veramente non mi ha mai parlato: mi ha descritto tutte le donne del mondo tranne se stessa! Ed è così che, oggi, vorrei ricordarla, per questa sua generosità immensa: ha pensato a tutte le donne e a me, “perché tu, Vittorio, sei tanto carino: quando hai vissuto con me, mi hai resa felice con il tuo cibo cinese da asporto, con le tue pizze a sorpresa e per avermi descritto il tuo mondo più privato”. Io sono stato carino con te, Roberta, ma forse questa volta ho fatto assai poco per una vera amica. Perdonami, ti prego: te lo chiedo con tutto il cuore.
(articolo tratto dal quotidiano 'L'opinione delle Libertà' del 21 aprile 2009)