Ci risiamo. Ancora una volta, come tante e tante altre, siamo spettatori di un dramma: protagoniste, le donne; nemico, l’uomo, oppure, come si sente dire in questi giorni, le ‘bestie’. Già, perché definirli ‘uomini’ sarebbe un complimento. Tema: lo stupro. E allora lasciamo che i media sciorinino quotidianamente definizioni, immagini, servizi, ricordi, cifre, e poi i commenti: la maggioranza, la minoranza, i magistrati, gli avvocati, gli psicologi, i criminologi, gli esperti… C’è chi inorridisce, chi accusa, chi chiede e chi promette, ma anche chi trova attenuanti, chi compatisce, chi perdona. In ultimo ci sono anche i vip, le soubrette, e attori, cantanti, uomini e donne -a vario titolo- assimilati o assimilabili al mondo dello spettacolo… Ognuno di loro ha -a vario titolo- qualcosa da dire sull’argomento, una propria particolare visione da esternare, un’esperienza o un punto di vista di cui renderci partecipi… Sulla scia dell’orrore provocato dagli ultimi episodi di violenza sulle donne, sono stati invocati (in ordine sparso): la pena di morte, la castrazione chimica, l’ergastolo, i lavori forzati, la morte lenta, la legge del taglione… ma anche la riabilitazione, le cure psichiatriche, la tolleranza. In compenso, tra deliri di onnipotenza e affermazioni intrise di odio e di razzismo, tra lo scoraggiamento e gli psicologismi da supermercato, apprendiamo che: a) solo una piccolissima percentuale degli stupri contro le donne avviene in luoghi pubblici e ad opera di sconosciuti; b) solo una piccolissima percentuale degli stupri contro le donne viene da queste denunciata; c) solo una piccolissima percentuale degli stupri contro le donne è perpetrata da extra-comunitari o meglio, come occorre precisare nel caso dei romeni, da ‘stranieri’. Oltretutto, i dati registrano una diminuzione dell’odioso reato in termini quantitativi, esattamente l’opposto di quanto viene quotidianamente percepito dalla popolazione. La serie di episodi che si sono susseguiti in così breve tempo ha dato l’impressione che il fenomeno sia in crescita: colpa della maggiore attenzione che i media stanno riservando al tema o, come sostiene qualcuno, preoccupante segnale di un malessere sociale crescente che vira in violenza? E neppure vi sono elementi, stando ai dati, a sostegno della tesi secondo la quale ci sarebbe un aumento degli stupri da collegare direttamente alla presenza crescente di ‘stranieri’ nel nostro Paese. Dunque, le promesse/minacce di intensificare i controlli sul territorio (dove?), di aumentare il numero delle telecamere (dove?), di potenziare la militarizzazione urbana, a che serve un tale dispiegamento di mezzi se risulta ormai accertato che la gran parte delle violenze nei confronti delle donne avviene tra le mura domestiche ad opera di partner o ex-partner, padri, fratelli, cognati, cugini e conoscenti? Non andrebbero forse ripensati -in modo radicale- i rapporti umani? Non sarebbe forse ora di riflettere sulle relazioni uomo-donna e genitori-figli all’interno di quel nucleo inattaccabile che è la famiglia? E sulle relazioni di quest’ultima con il ‘resto’ della comunità, con le istituzioni e sul suo isolamento? Che lo stupro fosse un reato contro la persona e non contro la morale, quale era scandalosamente prima del 1996, l’Italia se ne è accorta con 28 anni di inaccettabile ritardo rispetto agli altri Paesi europei e non sono mancati tentativi di depenalizzazione, come il caso, ridicolo quanto pericoloso, della sentenza dei jeans, che provocò un’ondata di sdegno perfino negli Stati Uniti! Il senso era, di autosottoporsi a restrizioni comportamentali per evitare l’attenzione del maschio! Abiti monacali, dunque, a casa presto e, se possibile, obbedienza… Se gli stupri denunciati non rappresentano che una piccolissima percentuale della totalità degli episodi è ancora perché, dati Istat alla mano, la donna prova spesso vergogna e senso di colpa per la violenza subita. E’ consapevole che spesso deve sostenere con forza la propria difesa rispetto al suo aguzzino e teme, infine, ritorsioni e vendette, plausibili se si pensa alla brevità del periodo di detenzione. Vergogna, sensi di colpa, timore di subire - oltre al danno fisico - lo sfregio morale della comunità che, negando la propria solidarietà, ti guarda, ti addita come una ‘facile’, come una che ‘se l’è andata a cercare’, condannandoti ad un futuro di emarginazione e sofferenza; timore di un’umiliazione dovuta alle lungaggini dei procedimenti giudiziari; timore di essere perseguitata, minacciata e, come già accaduto, magari uccisa, senza che nulla e nessuno possa essere in grado di impedire un omicidio annunciato… Va da sé che la violenza carnale, oltre a rappresentare un’offesa indelebile per la vittima, è un reato sociale: se si potesse prevedere almeno la massima pena per l’autore del delitto, non solo si permetterebbe un serio percorso riabilitativo, evitando che il reato possa essere reiterato (come successo più e più volte), ma si tutelerebbe la vittima contro tentativi certi di rivalsa. Infine, sarebbe determinante per la scelta della vittima di denunciare il torto subito. D’altronde, francamente, appaiono offensive le attenuanti proposte generalmente in sede processuale: ‘è un ragazzo di buona famiglia’ oppure ‘è incensurato’, oppure ‘era sotto l’effetto di stupefacenti’, oppure ‘ha collaborato nelle indagini’. Se persino per l’omicidio risultano accettabili attenuanti come il raptus oppure la colposità, oppure ancora l’aver vissuto in un ambiente particolarmente degradato, ricordiamo che lo stupro è sempre premeditato, è sempre espressione di una volontà, implica sempre tutta la partecipazione fisica e mentale del soggetto (si pensi a come sceglie la sua vittima, a come costruisce l’effetto ‘sorpresa’, a come fa in modo che sia isolata e incapace di reagire o di attirare attenzione su di sé) e, inoltre, per le modalità in cui avviene, tutta la lucidità che una tale pratica richiede. Solo in rari casi l’autore dello stupro risulterà poi essere malato o affetto da gravi disturbi psichici; nella maggior parte dei casi si tratta soltanto di individui che fanno della ferocia il loro unico strumento di espressione e di contatto sociale. Non mi si dica che non hanno scelta, una scelta c’è sempre. La rabbia, la frustrazione originate da relazioni problematiche con altre donne, siano esse la madre, la moglie, la sorella, si liberano mediante un atto di prevaricazione e di odio nei confronti della vittima, sottomessa e brutalizzata, generando un piacere che non è solo fisico, è in realtà il suo sogno di onnipotenza. Per non parlare dei casi in cui, più numerosi di quanto possiamo immaginare, lo stupratore trasmette alla donna il virus dell’HIV, condannandola praticamente a morte: non equivale questo forse ad un omicidio? E quando la donna, rimasta incinta, è costretta ad abortire? Non si aggiunge dolore al dolore, morte alla morte? Ma dunque, è necessario chiedersi: fino a che punto si può tollerare la libera scelta del male? Quale la soglia accettabile dell’orrore? Concedere gli arresti domiciliari ad un reo confesso e vederne tanti altri scontare pene ridicole, purtroppo, equivale a dire che sì, la società lo ritiene accettabile. E’ accettabile che ci si accanisca in branco contro una ragazza, la si malmeni, la si torturi, magari con il coltello alla gola ma con la speranza, concreta, di farla franca… In qualunque caso è praticamente impossibile accettare delle attenuanti. Una condanna leggera alimenta lo stupro, la pedofilia, la violenza coniugale, è percepita come una vera e propria infamia. Vale la pena ricordare, infatti, che, per quanto riguarda gli immigrati, quasi sempre la pena nella quale incorrerebbero nel proprio Paese d’origine è assai più severa: in alcuni paesi è applicata la pena di morte, in altri il carcere a vita, in altri ancora, addirittura, sono previste pene corporali. Sanno bene che, in Italia, rischiano poco e sono perfettamente a conoscenza della debolezza giuridica e sociale delle donne, basta vedere quante di queste ricoprono incarichi istituzionali o sono, a vario titolo, inserite nel tessuto sociale, lavorativo o politico del Paese. Uno Stato civile, uno Stato democratico non dovrebbe permettere l’annichilimento, l’annullamento di migliaia di vite, di progetti, di energia, di cultura, di ideali, di capacità di amare e di provare gioia, un patrimonio cancellato traumaticamente e sistematicamente, l’eliminazione da qualsiasi scenario futuro. Perché ‘vivere’ non è solo stare in piedi e respirare. Devono le donne pagare un prezzo così alto per l’integrazione degli immigrati? Devono essere condannate alla morte civile per garantire migliori condizioni di vita (e assenza di regole) a delinquenti di tutte le nazionalità in cerca di un proprio ‘riscatto’? Non abbiamo dimenticato che, in tutti i tempi e in tutte le guerre, a qualsiasi latitudine, sono sempre state le donne a pagare, sulla propria pelle, le scelte della politica: solo nel giugno dello scorso anno, con la risoluzione 1820, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha condannato lo stupro come arma di guerra. Senza andare troppo lontano con la memoria, dalla ex-Yugoslavia al Rwanda, dalla Sierra Leone alla Liberia, dalla Colombia al Perù, al Darfur, fino all’Iraq e all’Afghanistan, lo stupro su donne e bambine è stato uno strumento utilizzato sistematicamente per punire, umiliare, dominare, destabilizzare, generare migrazioni. Non un effetto inevitabile dei conflitti, ma una vera e propria ‘risorsa’, a volte anche solo premio per i soldati, criminali a cui è garantita l’impunità. Appoggiata da trenta Paesi, tra cui l’Italia, e approvata dai Quindici Stati membri del Consiglio di Sicurezza, la risoluzione chiede al segretario generale Ban Ki-moon di stilare, entro il 30 giugno 2009, un rapporto che individui “i conflitti armati dove la violenza sessuale è stata usata ampiamente o sistematicamente contro i civili”, vale a dire che non si tratta di episodi isolati, bensì di una strategia deliberata degli eserciti e dei governi che garantisce ai militari l’impunità e concede loro le donne come ‘bottino di guerra’, a riprova del fatto che, a volte, è più pericoloso essere una donna che un soldato. Il documento dovrà altresì contenere proposte di azioni volte a limitare l’esposizione di donne e bambine alle violenze garantendo loro protezione e a rafforzare la ‘tolleranza zero’ verso gli abusi sessuali da parte del personale Onu, finito in più occasioni sotto accusa. Staremo a vedere. Intanto, sappiamo che, alla fine di un conflitto, le donne continuano ad essere violentate anche nei campi profughi e discriminate nell’attuazione dei programmi di ricostruzione. In Afghanistan, ad esempio, la caduta dei Talebani non ha portato un miglioramento delle loro condizioni di sicurezza con il risultato, prevedibile, della completa esclusione dall’esercizio dei loro diritti fondamentali e dalla ricostruzione del Paese. Lo stesso vale per l’Iraq, dove buona parte delle donne vive segregata in casa per paura delle violenze sessuali. Ciò, nonostante la risoluzione 1325 del 2000 che, pur riconoscendo il ruolo fondamentale delle donne nei processi di costruzione della pace e della sicurezza, è stata manchevole nella sua attuazione. Tornando all’Italia, la politica deve necessariamente iniziare un processo di ‘naturalizzazione’ della presenza femminile nelle istituzioni e nei luoghi decisionali e far passare il messaggio che la violenza è inaccettabile, che essa non è provocata dalla libertà della donna né tanto meno dalla sua bellezza, e che allo stupro - una volta avvenuto - non c’è, ahimé, nessun rimedio. Prevenire significa anche promuovere un rinnovamento culturale che parta dalla scuola (provate a sfogliare i libri dei vostri bambini, in cui la mamma lava i piatti o prepara la cena con il grembiulino mentre il papà siede comodamente sul divano a leggere il giornale… eppure si è parlato sempre molto, a quanto pare inutilmente, del sessismo nei testi scolastici!), dai mezzi d’informazione (le immagini esplicite e gli ammiccamenti a cui i nostri mariti e i nostri figli sono continuamente sottoposti offrono un’immagine della donna stereotipata e falsa) e dall’aiutare l’uomo a non sottovalutare il problema, a trovare il coraggio di tentare una ridefinizione dell’identità maschile compatibile con il processo, ineluttabile, dell’emancipazione femminile e del nuovo ruolo assunto dalla donna nella società e nella famiglia. Chi stupra selvaggiamente una donna, sia una moglie, una figlia o una sconosciuta, è assolutamente refrattario al dialogo, è incapace di mettersi alla pari e di vivere una sessualità matura che comporti confronto e condivisione anziché sopraffazione e dominio. Agli uomini, un invito a riflettere sulla crisi dello schema patriarcale e ad assumersi le proprie responsabilità di genere, prendendo posizioni pubbliche contro la violenza maschile, che sarebbero di forte esempio e che sarebbero in grado di generare ulteriori riflessioni in ambito familiare, politico, lavorativo, sociale, universitario. A tutte le mamme, un invito ad educare le proprie figlie ed i propri figli in modo paritetico, ad insegnare loro che il cervello non ha sesso, a promuovere la sensibilità e la tenerezza in entrambi, ad essere obiettive e critiche nei confronti soprattutto di quei bambini che, più delle bambine, si mostrano inclini a comportamenti violenti, individuali o di gruppo. Alle giovani donne, alle adolescenti, l’invito è a non accontentarsi dell’uomo che hanno accanto, a pretendere sempre il dialogo e l’effettiva parità come condizione imprescindibile della relazione e a negare la propria amicizia e il proprio amore a chi, anche solo per scherzo, una volta vi detto: donne, cazzi e cazzotti...