A margine di alcuni importanti meeting internazionali sull’attuale condizione dei Paesi poveri del nostro pianeta, tenutisi di recente a Washington, è stato pubblicato il volume ‘La Banca dei ricchi’, edito da Terredimezzo, a firma Luca Manes e Antonio Tricarico. Quest’ultimo, dal 2001 è Coordinatore del Crbm (Campagna per la riforma della Banca mondiale) e, in quest’intervista cortesemente rilasciataci, ha voluto spiegare perché la World Bank non sia riuscita a sconfiggere la povertà nel mondo.
Dottor Tricarico, può chiarirci perché lei ritiene che la World Bank, che doveva essere una buona idea, si è invece rivelata una sorta di ‘Banca dei ricchi’?
“La Banca nacque alla fine della seconda guerra mondiale per assistere l’opera di ricostruzione dei Paesi distrutti dalla guerra, facilitando investimenti di capitali per finalità produttive e promuovendo la crescita del commercio internazionale per contribuire ad un aumento della produttività. Tuttavia, a distanza di sessanta anni e nonostante uno staff di 7000 persone, 4000 consulenti e un budget di 30 miliardi di dollari, non è riuscita a sconfiggere la povertà, le disuguaglianze e i soprusi. Nel tempo, ha acquisito sempre più la forma di un istituto di credito atto a finanziare lo sviluppo. Con la creazione dell’Ida (International Development Association), avvenuta con il consenso di Washington e del fondamentalismo del libero mercato negli anni ’80 del secolo scorso, la prospettiva della Banca cambiò radicalmente a favore di privatizzazioni e liberalizzazioni nei Paesi in via di sviluppo. A partire da quel decennio, Banca mondiale e Fondo monetario internazionale hanno dunque iniziato una campagna di pressione coordinata per la decentralizzazione, il ridimensionamento e la privatizzazione delle funzioni pubbliche dei Governi nei Paesi del sud del mondo”.
Che tipo di progetti dovevano essere promossi e quali, invece, sono stati finanziati veramente?
“Con il passare degli anni, le uniche beneficiarie si sono rivelate le imprese private. La banca continua a finanziare progetti insostenibili per i Paesi del sud del pianeta, come ad esempio le grandi infrastrutture, vero marchio di fabbrica della Banca mondiale. Negli ultimi decenni sono state costruite ben 538 dighe in 92 Paesi che producono energia elettrica per l’esportazione, causando, però, le inondazioni di milioni di ettari di terreni. Si tratta di infrastrutture costate, secondo stime che arrivano, al momento, fino all’anno 2000, circa 75 miliardi di dollari ma che, in realtà, hanno provocato lo sfollamento di oltre 10 milioni di persone, ovvero un sesto della popolazione italiana. In Lesotho, un piccolo Stato africano con poco meno di due milioni di abitanti, manca l’acqua nonostante quel Paese esporti elettricità prodotta da un invaso costruito dall’italiana ‘Impregilo’, che per quel progetto è stata anche condannata per corruzione, una vicenda che ha portato alle dimissioni del Presidente Paul Wolfowitz. Non parliamo, poi, dei tanti ‘faraonici’ oleodotti costruiti in tutto il resto dell’Africa, devastanti per l’ambiente e la salute delle popolazioni locali”.
E’ corretto affermare che la questione del debito dei Paesi poveri è strettamente collegata ai quella dei cambiamenti climatici?
“Diciamo che l’inondazione di grandi superfici di foreste e vegetazione in regioni tropicali da parte dei bacini artificiali creati dalle numerose dighe costruite, alla fine ha favorito la formazione di immensi strati di sedimenti naturali, che emettono una massiccia quantità di ‘gas – serra’ come, ad esempio, il metano, il quale, a causa delle sue caratteristiche chimico - fisiche, possiede una lunga persistenza nell’atmosfera e, a parità di quantità, contribuisce pesantemente all’aumento del cosiddetto ‘effetto – serra’. E si calcola che tali emissioni potranno arrivare a rappresentare il 28% del potenziale riscaldamento globale del pianeta, vera causa di fondo dei mutamenti climatici. E’ chiaro che le dighe non possono rappresentare una valida ed esclusiva alternativa alle fonti di energia da combustibili fossili nel quadro degli impegni di riduzione delle emissioni di gas serra sanciti dal Protocollo di Kyoto...”.
La banca sostiene solo marginalmente le energie rinnovabili, unica soluzione per dare accesso a fonti di elettricità a costi competitivi e senza impatti ambientali e sociali negativi nelle zone rurali non elettrificate: a che cosa riconduce questo scarso interesse della Banca alle energie rinnovabili?
“La Banca associa alla definizione di energie rinnovabili progetti che, pur se concepiti per far fronte alla sfida climatica e ridurre il sostegno dei combustibili fossili, hanno forti impatti sociali e ambientali a livello locale. Ma la sua posizione è alquanto controversa, in quanto include pianificazioni energetiche ad alto livello di emissioni e impatto sull’ambiente, quali i folli progetti idroelettrici, il carbone pulito e il nucleare, quest’ultimo mai finanziato dalla Banca mondiale. Aggiungo che la Banca è finanziatore leader dei combustibili fossili e che, nei suoi oltre 60 anni di attività, ha spesso sostenuto compagnie petrolifere con un passato equivoco, molto attive anche in Paesi con regimi dittatoriali. L’industria estrattiva poteva contribuire a vincere la povertà e avviare uno sviluppo sostenibile a tre condizioni: 1) che le politiche pubbliche e delle aziende fossero pianificate in modo consono e verificabile; 2) che fossero rafforzate le politiche sociali e ambientali; 3) che si verificasse il rispetto dei diritti umani. Riassumendo, gli elevati margini di ritorno sugli investimenti garantiti dal settore ‘oil and gas’, in sostanza spingono la Banca a prestare di più per questi progetti, così da garantirsi la propria sopravvivenza: una contraddizione in termini per chi si prefigge di aiutare i più poveri del pianeta. Non solo: per la prima volta, lo scorso anno gli extra profitti generati dai prestiti al settore privato, che avvengono a tassi quasi di mercato, sono stati utilizzati per riempire le casse dell’Ida, lo ‘sportello’ della Banca che presta denaro ai Paesi poveri a tassi vantaggiosi. In pratica: prima si aiutano le multinazionali a devastare l’ambiente e le comunità locali pur di accaparrarsi l’oro ‘nero’ e le altre ingenti risorse del sottosuolo, poi, con una parte di quei profitti, oltretutto limitata, si cerca di aiutare lo sviluppo di chi è stato impoverito”.
I maggiori creditori, banche e imprese, continuano a rifiutare il principio della cancellazione del debito, come nel caso dell’Argentina, che ha minacciato di diminuire l’afflusso di prestiti e investimenti. Non pensa che, paradossalmente, i Governi o, meglio, i Paesi ricchi siano troppo vincolati alle decisioni degli istituti finanziari? Il debito pubblico non potrebbe essere posto a una verifica indipendente, un organo che consideri le responsabilità dei creditori?
“Per i Paesi in via di sviluppo tutto è effettivamente vincolato alle ‘condizionalità’, all’obbligo, cioè, di ridurre la spesa pubblica e di privatizzare servizi essenziali come l’acqua o la sanità al fine di poter accedere ai finanziamenti. Viene allora spontaneo chiedersi quale sia l’obiettivo principale della Banca: la lotta alla povertà o il sostegno al settore privato? Dopo 25 anni di politiche fallimentari, i banchieri continuano a proporre la ricetta delle privatizzazioni, ‘camuffate’ sotto l'ingannevole insegna della partnership pubblico - privato. Inoltre, anche per rispondere alla vostra domanda, non esiste nessun organo di verifica, né niente del genere: è anarchia allo stato puro. In materia di gestione del debito servirebbero soluzioni globali e il coraggio di una radicale svolta politica, nuove modalità di dialogo tra vecchie e nuove potenze, incluse quelle più povere, spesso trascurate”.
L’Italia che ruolo svolge su questo scenario internazionale? Secondo lei, al prossimo summit della Maddalena, previsto per il mese di febbraio del 2009, riuscirà il nostro Governo a presentare un concreto piano di sviluppo?
“Credo di no: l’Italia ha acquisito, nel 2000, uno straordinario strumento: la Legge 209. Si tratta di una norma unica nel suo genere, che disciplina la cancellazione dei crediti governativi bilaterali italiani. Ma dalla sua entrata in vigore ha più volte subito il tentativo, da parte del Governo, di depotenziarla, perfino di azzerarla. L’articolo 7, che impegna il nostro esecutivo ad attivarsi, è stato completamente disatteso. E’ doveroso ricordare che il nostro Paese, con lo 0,19% del Pil destinato all’aiuto pubblico, è all’ultimo posto tra i Paesi che applicano provvedimenti di questo genere. Per non parlare degli impegni assunti per raggiungere gli ‘obiettivi di sviluppo del millennio’, che l’Italia ha sottoscritto insieme ad altri 185 Paesi alle Nazioni Unite. L’Italia, inoltre, può ‘vantare’, diciamo così, di non aver rispettato l’impegno che prevedeva una cancellazione di 6 milioni di euro, avendone ‘depennati’ solo 2,5. Quei soldi ci sono, ma prendono altre strade: spese militari, spesso sotto il ‘falso nome’ di operazioni ‘umanitarie’ o di irrilevanti tagli alle tasse. E la scusante della carenza di risorse è priva di ogni base oggettiva, poiché in altri settori non si lesinano investimenti adeguati. Come ad esempio nella commercializzazione delle armi, in particolare quelle leggere, delle quali l’Italia è uno dei maggiori produttori al mondo. In questo settore, il nostro Paese spende dieci volte tanto rispetto a quanto viene stanziato per la cooperazione internazionale…”.
Cosa potrebbe rendere, in futuro, più credibile la World Bank?
“A mio parere, rimarrà sempre limitata la credibilità di un’istituzione che continua a dimostrare una ossessione ‘mercatista’ ormai superata dai fatti, quando il sistema di Governo interno è ancora basato sul principio di ‘un dollaro, un voto’ e non è ancora dato sapere come poi votino individualmente i rappresentanti di Governi che, tra l’altro, godono dell’immunità concessa alle istituzioni internazionali. In un mondo che sta cambiando radicalmente e con una nuova mappa dei poteri geo – economici internazionali, se la Banca vorrà mantenere una leadership nella comunità dello sviluppo, dovrà necessariamente reinventarsi da ‘zero’. Oggi, le sfide sono molteplici: si parte dalla necessità di proporre una riforma del sistema di Governo interno per dare più quote di rappresentanza, in modo da rispecchiare la loro maggiore influenza economica e politica, alla necessità di prestare fondi a tassi quasi di mercato a queste realtà e al settore privato (principalmente alle grandi multinazionali) per assicurare sufficienti profitti, dimostrando che la Banca può ancora fare la differenza nella lotta alla povertà. In ogni caso, appare necessario che l’Ida, che oggi presta danaro a tassi agevolati, venga scissa dall’istituzione e ricollocata nell’Ecosoc del sistema Onu in quanto principale strumento per promuovere beni pubblici. La vera sfida è la necessità di una nuova ‘governance’ per un cambiamento più ampio e profondo dell’istituzione. Ma, soprattutto, è fondamentale riuscire a capire come trasformare la Banca in qualcos’altro, o come, al limite, riallocare alcune delle sue funzioni partendo da un approccio diverso, che si ponga alla ricerca di una sua nuova ‘mission’ per promuovere i beni pubblici mondiali. Per far ciò, è dunque necessaria una logica non propriamente bancaria, da ‘Agenzia di sviluppo’ o, meglio ancora, da ‘Fondo di mutuo soccorso’. In sostanza, tutti i Paesi dovrebbero finanziare un fondo da cui poi ognuno abbia diritto di attingere per far fronte alla stessa emergenza, secondo criteri definiti collettivamente. Bisogna andare oltre lo strumento dell’aiuto, ‘dell’aid’, come dicono gli anglosassoni. Ma per far questo, le risorse devono essere raccolte in un altro modo, secondo un criterio di giustizia e redistribuzione. La Banca mondiale potrebbe diventare una sorta di ‘investment bank’ aperta ai contributi del capitale privato in quote minoritarie. Infine, la vera questione rimane quella di come democratizzare i processi di sviluppo, di riuscire a determinare ‘chi’ deve decidere su ‘cosa’ vada fatto e ‘cosa’ no, in nome di una reale ed efficace lotta alla povertà”.