Vittorio Lussana

Queste ultime settimane sono state caratterizzate dal gigantesco piano di salvataggio del mercato azionario statunitense predisposto dall’amministrazione americana uscente, un investimento monetario di circa 700 miliardi di dollari resosi necessario in seguito alla gravissima crisi dei mutui e al fallimento ‘pilotato’ della Lehman Brothers, una delle più grandi società di servizi finanziari del mondo. La proposta delineata sarebbe quella di creare un organismo in grado di rilevare le attività ‘in malus’ di tutti gli istituti bancari compromessi, al fine di rivenderli nel momento in cui la tempesta sarà definitivamente superata. Tale progetto è destinato a ricevere l’approvazione del Congresso degli Stati Uniti, pur rappresentando un’ingerenza tale sulle più classiche leggi del libero mercato da rimettere in discussione i principi fondamentali della stessa economia politica. Per poter affrontare questo genere di questione dobbiamo innanzitutto far riferimento alla visione classica dell’economia. Essa si è sempre imperniata attorno ad alcuni grandi princìpi fondamentali: a) il mercato deve essere lasciato a se stesso, poiché è naturalmente in grado di raggiungere il proprio equilibrio grazie all’operare delle forze economiche della domanda e offerta. Questo equilibrio è sempre di pieno impiego, tanto che Adam Smith in persona era solito far riferimento ad una famigerata ‘mano invisibile’, in grado di indirizzare sempre il sistema verso la piena occupazione; b) le forze di mercato, libere di agire senza ostacoli, realizzano invariabilmente un’efficiente allocazione delle risorse; c) lo Stato non deve mai intervenire con manovre di politica economica, poiché quest’ultime possono rappresentare un ostacolo alla libertà d’azione delle forze di mercato e, quindi, impedire il raggiungimento della piena occupazione e della efficienza produttiva. Tale filosofia fu messa fortemente in discussione dalla gravissima crisi finanziaria del 1929, in cui si verificò un vero e proprio tracollo dei titoli di borsa delle principali multinazionali capitalistiche, le quali, all’improvviso, si ritrovarono di fronte ad una gigantesca penuria di capitali. A quel punto, tutti gli economisti si resero conto dell’impossibilità, da parte del mercato, di raggiungere da solo la piena occupazione. E la terrificante difficoltà, occupazionale e di consumi, che caratterizzò gli anni immediatamente successivi, portò all’instabilità sociale praticamente tutte le popolazioni del pianeta. Nel corso di quella terribile crisi - la più tremenda che si ricordi, tanto da rappresentare la vera causa di fondo del II conflitto mondiale - si fece strada una teoria formulata dall’economista John Maynard Keynes. Gli elementi principali delle sue osservazioni furono i seguenti: a) la crisi economica era dovuta da un’insufficienza di domanda da parte dei consumatori per i beni di consumo e, da parte delle imprese, per i beni di investimento. Era dunque tale basso livello della spesa, sia per i consumi, sia per gli investimenti delle imprese, ad aver causato l’allontanamento del sistema dalla piena occupazione; b) risultava evidente la necessità di un intervento statale per uscire dalla crisi ed evitarla nel futuro, una manovra pubblica che fosse in grado di rialimentare la domanda di consumo sia degli stessi consumatori, sia delle imprese per i beni di investimento; c) questa manovra poteva realizzarsi sia nei termini di una nuova politica monetaria, sia attraverso una nuova politica fiscale. Anzi, secondo Keynes, l’intervento migliore era proprio quest’ultimo. La sua attenzione si concentrò in particolar modo sulle politiche di spesa pubblica, ovvero nella direzione di un aumento delle spese dello Stato nel sistema economico per la costruzione di opere di interesse collettivo, al fine di offrire ai cittadini maggiori servizi d’istruzione, di mobilità, di difesa e di assistenza sanitaria; d) l’aumento della spesa pubblica, secondo Keynes, era la manovra di politica economica più efficace proprio per favorire il ritorno alla piena occupazione, perché costituiva essa stessa una nuova domanda di consumo pur se proveniente dall’apparato pubblico anziché dai cittadini o dalle imprese; e) attraverso la spesa pubblica, lo Stato poteva inoltre aumentare la domanda aggregata di beni, e la conseguente ripresa dei consumi a sua volta avrebbe portato il sistema al di fuori dell’insufficienza di domanda e verso la ‘quasi piena’ occupazione (una percentuale di disoccupazione, purtroppo, è fisiologica per ogni genere e tipo di sistema produttivo, ndr). Tutto ciò venne spiegato da Keynes attraverso una complessa equazione matematica che si richiamava ad un calcolo assai simile a quello predisposto da Marx ed Engels, con la sola differenza che questi due economisti tedeschi avevano formulato la loro funzione di adeguamento della curva di domanda all’andamento dei prezzi all’interno di un regime di pieno monopolio dello Stato. Keynes, invece, era riuscito non solo a contemperare la convivenza dell’economia pubblica con quella privata, ma addirittura a rilanciare la seconda per mezzo della prima. In base a tale ingegnosa ‘illuminazione’, per molti studiosi il ‘keynesismo’ rappresenterebbe addirittura l’evoluzione naturale e più moderna di quanto predisposto dall’econometria marxista. Ma il punto in questione, sotto un profilo strettamente scientifico, non è affatto questo: le intenzioni di Keynes non erano quelle di dare smalto al ‘capitalismo di Stato’ in quanto soluzione esclusiva di tutte le disfuzioni del mercato, bensì di utilizzare l’economia pubblica come semplice ‘pungolo’ di stimolazione dell’iniziativa privata allorquando questa, sostanzialmente, appare ‘dormiente’ o in crisi. In base a ciò, noi non ci troviamo di fronte ad una teoria economica ideologicamente equiparabile al socialismo – come paventato in questi ultimi giorni da alcuni analisti sugli organi di stampa statunitensi – bensì all’individuazione precisa dei compiti e dei limiti dello Stato all’interno di un sistema di produzione capitalistico. Sotto questo profilo, non solo Keynes favorì sostanzialmente la grande ripresa economica americana degli anni ’40, ma anche quella di tutto il mondo occidentale dei successivi decenni ’50 e ’60, permettendo la fuoriuscita dalla gigantesca diatriba ideologica che si era innescata tra economia ‘collettivista’ ed economia di mercato. Rinchiudere il mondo all’interno di due ‘steccati’ invalicabili, privi di ogni comunicazione, non aveva alcun senso: lo Stato poteva svolgere un proprio ruolo di sostegno al sistema capitalistico senza per questo essere costretto a ‘forzare’ i propri interventi di natura fiscale ma, anzi, risvegliando i mercati stessi attraverso il principio del ‘moltiplicatore’ degli investimenti. Se anche la teorizzazione marxista aveva avuto una sua ragion d’essere ed una propria intrinseca ‘ratio’ sociologica, il principale problema che essa lasciava irrisolto era quello, fondamentale in un regime privo di concorrenza, di come determinare il prezzo delle merci. Invece, attraverso la convivenza tra Stato e mercato, il prezzo di equilibrio veniva comunque dettato dalle normali formule econometriche della microeconomia classica, mentre lo Stato giungeva a svolgere una più utile funzione di stimolazione macroeconomica dell’iniziativa privata garantendo, altresì, una maggiore stabilità sociale. In seguito a tali teorie, gli economisti della generazione successiva a Keynes riuscirono a mettere ulteriormente a punto una teoria dei flussi e degli andamenti ‘ciclici’ dei mercati in grado di aiutare tutti gli operatori a comprendere quando fosse il momento di lasciar andare il sistema capitalistico ‘a briglie sciolte’ e quando, invece, utilizzare le risorse pubbliche al fine di correggerlo. Grazie a Keynes, insomma, il capitalismo non era più quel cavallo selvaggio che correva imbizzarrito verso le praterie del consumo senza mete precise: la ‘bestia’ era stata ‘domata’. Una domanda, a questo punto, sorge spontanea: che tipo di capitalismo abbiamo, oggi, nel mondo? Troppo imbrigliato dal fisco e dallo Stato? Oppure caratterizzato da una classe imprenditoriale composta da affaristi e speculatori che non contemplano più nessun fattore di rischio nella propria attività? Personalmente – e lo scrivo da liberale – mi ritengo ormai stanco di una certa retorica del bravo imprenditore che vuole ‘farsi da sé’ ma che ha contro tutto e tutti: lo Stato, la burocrazia, le leggi, i regolamenti. Ciò è il prodotto di un’anticultura anarcoide che ha finito col devastare mercato del lavoro e rapporti sociali, che ha ‘drogato’ ogni rapporto economico e finanziario, che ha creato differenziazioni di trattamento bancario tra piccoli risparmiatori e ‘grandi manager’, i quali, senza fondi statali, il più delle volte dimostrano di non essere in grado nemmeno di ‘mettere in piedi’ una fabbrica di inscatolamento di pomodori. La verità è che il capitalismo occidentale vive da tempo una fase di arroccamento difensivo teso ad impedire ogni genere di cittadinanza economica ai nuovi operatori emergenti sui mercati. Una cronica scarsità di capitali e una storica ritrosia all’autofinanziamento e al reinvestimento dei profitti – e degli ‘extraprofitti’… - inducono ormai da decenni certi cosiddetti ‘grandi manager’ a reagire all’atrofia del mercato azionario attraverso l’indebitamento e la conseguente emissione di obbligazioni, costringendo le banche ad assorbire i titoli emessi e lo Stato a sottoscrivere nuove forme di deficit. Lo Stato, insomma, per il sistema di produzione capitalistico è solamente una ‘mucca’ da mungere, al fine di nascondere la propria incapacità a rinnovarsi e a diversificare la produzione, magari investendo coraggiosamente nei settori di ricerca più avanzati. Ma questo tipo di capitalismo, inadeguato rispetto ai processi di globalizzazione planetaria in atto, sostanzialmente allergico alla libera concorrenza, fortemente messo sotto pressione dalla presenza di una nuova pesantissima moneta, l’Euro, sui mercati finanziari internazionali, è ormai destinato a ‘collassare’. Definitivamente.


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