Chiara Scattone

In Italia, come ormai in quasi tutti i Paesi europei e occidentali, si stanno proponendo sul piano socio – politico - giuridico fenomeni di matrice religiosa che talvolta sollevano 'querelles' sulla questione della libertà di espressione e di manifestazione della propria appartenenza religiosa. Prima fra tutti, è stata certamente l’imposizione francese di negare l’utilizzo del velo nelle scuole pubbliche, che ha appassionato dibattiti in tutta Europa e sollevato domande e problematiche nuove, riuscendo a creare disequilibri anche in un Paese così laico come la Francia, in cui dalla legge del 1905 sulla separazione tra Stato e Chiesa, non si erano mai verificati dibattiti così tanto vivaci e intensi di natura religiosa. La soluzione francese ha portato dunque ad uno stravolgimento dei costumi: la legge del 15 marzo 2004 ha provocato una profonda incisione, modificando sensibilmente non solo il modus vivendi di parte della comunità islamica francese, ma anche l’uso plurisecolare della kippà nelle scuole per gli ebrei. In Italia, l’articolo 19 della Costituzione repubblicana recita: “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”. Il fenomeno migratorio italiano, ormai pluridecennale, dai Paesi arabo - islamici ha portato con sé tematiche culturali e giuridiche che meritano alcune riflessioni. L’islam è divenuta la seconda religione del nostro Paese con più di un milione di fedeli, ma è anche forse l’unica comunità di credenti a non avere una rappresentanza ufficiale e riconosciuta, né ad aver sottoscritto un accordo di intesa con lo Stato italiano tale da garantirle diritti e doveri costituzionali e giuridici, nonché consolidarne i rapporti con le istituzioni e la presenza pubblica. In questa sede mi sembra opportuno non dilungarmi oltre sulle problematiche che la sottoscrizione delle intese tra differenti comunità di fedeli e lo Stato italiano si stanno verificando per la quasi totale incapacità o la mancanza di volontà dello Stato a formulare intese pattizie che rispecchino le reali esigenze delle differenti comunità religiose e non invece che si presentino ogni volta come fotocopia della precedente, provocando un’omologazione che distorce e tende ad appiattire le peculiarità di ciascuna delle comunità pattizie. Il problema che si sta presentando in questi ultimi anni con la comunità religiosa islamica è totalmente differente, coinvolgendo direttamente la natura della comunità stessa, poiché l’islam non è un ‘unicum’ religioso, ma si caratterizza per la sua mutevolezza che fa sì che un credente marocchino, ad esempio, non abbia pressoché poco o nulla in comune con un musulmano pachistano, se non la sola comune appartenenza alla Umma islamica e cioè alla Comunità di fedeli che si incontrano nella credenza del messaggio profetico di Muhammad. Le differenze si evidenziano non solo tra credenti provenienti da differenti realtà geografiche, ma si manifestano anche a seconda dei percorsi culturali, delle tradizioni locali, delle varietà linguistiche, ma soprattutto dall’integrazione con la società italiana conseguente alla durata della permanenza nel nostro Paese. Ulteriori differenze si rinvengono all’interno della stessa appartenenza islamica: un musulmano sunnita segue un modus di vita religiosa ben diverso da quello di un musulmano sciita, ed entrambi abbisogneranno di luoghi di culto differenti, un po’ come un cattolico e un calvinista, che pur appartenendo entrambi al cristianesimo vivono la propria fede in maniera completamente dissimile l’uno dall’altro. E ancora, tra gli stessi sunniti esistono differenze a seconda dell’appartenenza ad una delle quattro scuole giuridiche, per cui il fedele tunisino o marocchino di scuola ‘malichita’, vive il proprio islam all’interno del suo nucleo familiare e nel rapporto con l’esterno, sia esso arabo o italiano, in un modo completamente difforme da quello che vive invece un sunnita di provenienza saudita e di scuola ‘hanbalita’. Tali dissimili atteggiamenti si rispecchiano manifestatamente anche nell’abbigliamento che viene indossato. L’usanza di abiti tradizionali, talvolta indica la propria provenienza geografica, le proprie radici culturali e tradizionali, nonché l’appartenenza al sunnismo o allo sciismo. E inoltre, un’ultima e importante differenza si palesa con i convertiti italiani all’islam, che non provenendo da realtà locali arabo-islamiche, hanno un modo di vivere la propria religiosità del tutto dissimile da quella di qualsiasi altro musulmano arabo, accentuandone spesso i caratteri e portandoli talvolta all’estremo proprio per non apparire troppo diversi agli occhi dei musulmani nati all’interno dell’islam. È soprattutto questa frammentarietà nella comunità islamica presente in Italia, e la conseguente assenza di una rappresentanza ufficiale e unitaria di tutte queste alterità che ha provocato l’incapacità di tutti i musulmani italiani di formulare un’intesa con lo Stato, al fine di agevolare la libertà di professare la religione, di istituire nuovi luoghi di culto e di consolidare il rapporto con le istituzioni pubbliche. All’interno di questa frammentarietà della comunità islamica, esistono diverse aggregazioni, e tra le più numerose e rilevanti sul piano sociale e politico è importante ricordare l’Unione delle Comunità e Organizzazioni islamiche in Italia, più comunemente chiamata UCOII, che la dottrina vuole riconoscere come legata all’organizzazione fondamentalista dei Fratelli musulmani e che fin dalla sua costituzione, avvenuta nel 1990 ,ha coltivato un progetto di intesa con lo Stato, presentando a questo scopo una bozza dalla quale trapela il desiderio dell’Organizzazione di creare un ambiente religiosamente puro/islamico in un contesto non musulmano, richiedendo addirittura la stesura di uno statuto derogatorio di cittadinanza al fine di consentire il riconoscimento il più ampio possibile delle norme di culto e di diritto islamiche, stabilendo quasi una sorta di autoesclusione tale da permettere la riproduzione della propria peculiarità religiosa. Di tutt’altro carattere è il Centro Islamico Culturale d’Italia, unico ente morale costituito da un decreto del Presidente della Repubblica nel 1974 (D.P.R. 21 dicembre 1974, n. 712), fondatore e custode della grande Moschea di Roma, che si propone di rappresentare gli interessi dei Paesi arabo-islamici più influenti, garantendo così protezione e tutela anche giuridica dei musulmani in Italia. La Comunità Religiosa Islamica italiana, o Co.Re.Is, invece, si caratterizza per essere un’organizzazione composta prevalentemente da cittadini italiani convertiti all’islam, il cui radicamento con lo strato sociale e culturale risulta pertanto assai limitato, rifacendo la propria filosofia principalmente alla dottrina sufi e all’esoterismo di René Guénon. Presentandosi quindi come un’associazione culturale religiosa, il suo intento non è quello di negoziare con lo Stato italiano la costituzione di uno statuto speciale per i cittadini musulmani, ma di operare per completare una piena integrazione dei fedeli musulmani nella realtà italiana, ritenendo ciò compatibile con la dottrina islamica e auspicabile per l’instaurazione di un equilibrio tra le differenti religioni presenti in Italia. Altra organizzazione islamica è l’Associazione dei Musulmani in Italia, AMI, che si presenta come la Co.Re.Is. come manifestazione di un islam quasi totalmente composto da convertiti italiani, il cui scopo è quello di presentare la fede islamica come pienamente compatibile con l’ordinamento pubblico italiano, lontano da derive integraliste che non le appartengono. Il fine ultimo di tutte queste organizzazioni è quello di presentarsi davanti allo Stato come rappresentanza fedele e ufficiale della realtà dei musulmani italiani, per poter sottoscrivere un’intesa ufficiale in grado di consolidare istituzionalmente l’esistenza e la consistenza della comunità islamica in Italia. Nel 2005 a questo proposito l’allora ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu firmò il decreto con il quale venne data vita alla prima Consulta Islamica italiana, manifestazione delle molteplici espressioni della vita civile e politica, organizzata o meno dell’islam italiano. La Consulta è stata creata proprio allo scopo di elaborare un progetto di intesa unitario e condiviso da tutte le differenti componenti dei musulmani italiani. Tra i membri di questo organismo sono rappresentate tutte le organizzazioni islamiche e quasi tutti i Paesi di maggior provenienza degli immigrati italiani. La Consulta prende forza dall’art. 8 della nostra Costituzione nel quale viene sancita la possibilità per “le confessioni religiose diverse dalla cattolica […] di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano”. Purtroppo però l’operato della Consulta sembra aver subito un momento di stallo insanabile, e così dopo aver sottoscritto il Manifesto dell’Islam italiano nel 2006 e la Carta dei Valori della cittadinanza e dell’integrazione nel 2007, il suo cammino si è interrotto, diviso da fratture apparentemente insanabili tra richieste troppo ortodosse da un lato e accuse di intolleranza dall’altro. Il desiderio di creare un dialogo tra le istituzioni e la comunità islamica al fine di risolvere il problema della partecipazione alla vita pubblica e all’affermazione di diritti e doveri inscindibili per entrambe le parti, sembra aver subito una battuta di arresto negli ultimi anni in Italia, secondo un processo che ha visto coinvolti anche i principali Paesi europei. A tale arretramento non sembra estraneo il generale cambiamento del sentimento popolare che ha associato l’immigrazione di musulmani provenienti dai Paesi arabo-islamici all’insicurezza del vivere civile e ciò anche in coincidenza di gravi episodi di criminalità che hanno visto coinvolti immigrati stranieri. Il cambiamento di indirizzo politico, che si è determinato a seguito delle ultime elezioni politiche in Italia, ha visto il successo di forze di centro destra ed in particolare della Lega federalista che, cavalcando tale generale sentimento di insicurezza sociale, non sembra possa contribuire nelle condizioni attuali al superamento del clima di intolleranza di parte della cittadinanza italiana e delle sue rappresentanze politiche nei confronti dei musulmani, troppo spesso visti come immigrati indesiderati, perché appartenenti ad una religione sulla quale troppo facilmente strumentalizzazioni giornalistiche e politiche hanno scagliato anatemi irresponsabili e privi di fondamento.




Dottore in Diritto musulmano e dei Paesi islamici presso l'Università di Roma - Tor Vergata
Responsabile delle questioni religiose e multiculturali di www.laici.it
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Riccardo Biffoli - Firenze / Italia - Mail - giovedi 7 agosto 2008 8.29
Gentile Signora,
il suo articolo è chiarissimo e mi ha aiutato a capire qualcosa di più sull'islamismo e le sue ramificazioni. Lei però non fa parola dell'atteggiamento di queste varie ramificazioni nei confronti della donna.
Io sono d'accordo con lei che l'attuale governo al potere in Italia cavalca il sentimento di insicurezza e precarietà per creare un clima di guerra fra poveri, però resta il fatto che le donne costrette a vestirsi in un certo modo (uso il termine "costrette" non casualmente) si può essere sicuri che sono tutte sottoposte all'islamismo, qualunque ne sia la ramificazione.
Personalmente ritengo che quando un qualsivoglia tipo di pensiero (culturale, religioso, politico, privatistico ecc.) costringe a nascondere il corpo umano (e il volto è l'elemento imprescindibilmente rivelante l'identità di una persona), si tratta di un pensiero repressivo, violento e ottuso che nasconde a se stesso la sua stessa esistenza. E le donne rappresentano più o meno la metà del mondo.
Io non intendo dire che i modelli occidentali siano migliori; del resto l'ostentazione forzosa del corpo é frutto ed ingenera altre problematiche. Dico però che nessuna donna (e nessun uomo) è costretta a denudarsi. Si tratta, nel caso di paesi non dipendenti dall'etica musulmana, di fare un buon uso della libertà. Infatti, è più difficile vivere in un ambiente di libertà, perché ognuno deve saper formulare da sè i propri principi, che non in clima di totalitarismo dove i modi di essere sono già obblitariomente precostituiti.


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