Ai socialisti, dopo le elezioni non viene riservato nemmeno lo spazio di un dibattito. Eppure, scompare una delle formazioni politiche costituenti e il più antico partito della democrazia italiana. Ma questo fatto non è degno neppure di un funerale di seconda classe. Proviamo a comprendere perché: dopo anni di travagliata, confusa e rissosa diaspora politica degli eredi del socialismo italiano, corredati da tentativi più o meno riusciti e poi abortiti di ricongiunzione e ricostruzione politica, la Costituente socialista si era posta il compito di riunire i socialisti e di allargare il proprio campo d’influenza verso una sinistra più ‘larga’, che accogliesse nel proprio perimetro anche personalità significative della sinistra laica che non avevano aderito al ‘cartello’ del Pd. Un disegno ambizioso e utile allo stesso tempo, perché cercava di rimettere in sintonia il sistema politico italiano con le grandi democrazie europee mantenendo in vita, non soltanto per ragioni storiche ma anche per ragioni politiche e pratiche, l’esperienza italiana del socialismo democratico, che rappresenta la sinistra in tutta Europa. Ciò che appariva come un disegno politicamente ambizioso e, tuttavia, ragionevole anche nell’interesse della cosiddetta area del centro-sinistra italiano, si è invece trasformato in un obiettivo velleitario, destinato ad una sconfitta storica e contrassegnato da una campagna elettorale su cui incombeva l’epilogo del celeberrimo romanzo di Marquez: “Cronaca di una morte annunciata”. Nonostante la scomparsa istituzionale socialista faccia ‘pendant’ con la sconfitta di una parte consistente della sinistra italiana e si accompagni ad un altrettanto vistoso arretramento delle sinistre in Europa, qualcosa ancora respinge l’idea che l’assenza di una forza o di un movimento che faccia riferimento esplicito alla nobile tradizione socialista rappresenti un problema non solo per i socialisti, ma per l’intera sinistra italiana presa nel suo insieme. Infatti, il suo maggior partito non si è fatto minimamente carico della ‘questione socialista’, espungendola dalla natura fondativa del Pd spingendosi, altresì, al punto di non sostenere la necessità di un’alleanza politica considerata strategica in tutta la fase della seconda Repubblica. D’altronde, o la cultura, le idee e i valori di fondo della tradizione del socialismo italiano, con particolare riferimento alla sua stagione migliore, quella degli anni ’80 del secolo scorso, rivivono nella sinistra italiana, oppure questi si disperdono nell’illusione di una politica secolarizzata sostanzialmente priva di ogni legame ideale con la propria storia e le proprie tradizioni. Per questo genere di motivazioni, non dovrebbero farsi molte illusioni nemmeno coloro che pretendono di rappresentare, in qualche modo, una continuità socialista, riformista e progressista all’interno del ‘listone populista’ di Berlusconi, sopravvivendo a fianco dei conservatori, agli istinti primitivi del federalismo leghista o ad un preistorico nazionalismo conservatore dipinto di nuovo: presto o tardi, questo assemblaggio politico entrerà in contraddizione, tanto più se saremo capaci di riflettere sulle ragioni politiche della sconfitta di una sinistra senza riforme e senza identità. Per parte nostra, è evidente che dobbiamo ragionare evitando di sanzionarci ad oltranza per la mancanza di un esito elettorale. La Costituente socialista ha fallito il proprio obiettivo, ma non il suo compito politico. Essa è giunta con colpevole ritardo e non sopravvive alla fine di uno schema bipolare che aveva consentito l’esistenza di formazioni minori a ridosso delle più grandi. Tuttavia, ha scelto con coraggio la strada orgogliosa e doverosa di non imbrogliare né i propri aderenti, né (come invece hanno fatto altre formazioni) gli elettori. Un’avventura politica solitaria che ha finito col sacrificare persino il suo leader, cui certamente, oggi, non può essere mosso il rimprovero di una scommessa ‘autonomista’ dopo anni di alleanze elettorali sempre da tutti deprecate. Non esprime alcuna rendita al Ps il proprio riferimento internazionale. Come già accadde nel 1993, i socialisti europei (con l’eccezione dei mediterranei portoghesi e greci) hanno voltato ancora una volta le spalle agli italiani nel loro momento più difficile. Il tentativo socialista non è stato sorretto nemmeno da quel settore del mondo sindacale organizzato che aveva candidato uno dei suoi leader più prestigiosi nelle sue liste, così come, di fronte al voto utile, è franata anche la generosa ed isolata vocazione socialista a difesa e tutela di nuovi diritti civili e sociali messi a rischio dal timbro individualista e clericale che sembra pervadere la società italiana. Affinché questa sconfitta non venga vissuta, come ha analizzato lo storico Ciuffoletti, come il secondo tempo del genocidio avvenuto nel biennio ’92 – ’94, diviene dunque necessario non perdere di vista quelle ragioni di fondo che devono spingerci ad una discussione e ad una riflessione che superi il solo ambito di ciò che esiste e di ciò che è ancora organizzato nell’area socialista. Dobbiamo farlo, però, evitando frettolose annessioni o i richiami delle ‘sirene’ di interessati ‘salvatori delle patrie altrui’, poiché noi, oggi, scontiamo la debolezza di una sinistra tutt’altro che forte e in salute. Mantenere saldo e organizzato il Partito socialista è un obbligo morale verso una grande storia, nei confronti di coloro che gli hanno espresso fiducia alle recenti consultazioni politiche e amministrative e per chi ha versato il proprio contributo. “Vivere et philosophari” è una condizione necessaria, perché essa renderà meno scontato anche il dibattito e l’azione politica di tutti quei riformisti che si opporranno al nuovo centro-destra. Solamente in tal modo si potrà riuscire a trasformare un ‘male’, la sconfitta socialista e la sua nuova dimensione extra-parlamentare, in un ‘bene’ e in una rinnovata e costante azione politica nel Paese. Basta volerlo.