Vittorio Lussana

A prescindere dalla 'supercazzola' del neoministro della Cultura, Alessandro Giuli, noi crediamo non ci sia alcuna speranza per il popolo italiano. E rimaniano assai perplessi di fronte a un utilizzo alquanto maldestro di Hegel, soprattutto se ci limitiamo a 'scopiazzarne' le formule più arcaiche. In tal senso, il giovane neoministro non ha dato prova di avere un proprio pensiero 'neo-hegeliano': più che altro, abbiamo assistito a un Hegel redivivo che ha chiesto disperatamente aiuto, in quanto posseduto da Alessandro Giuli. Un ribaltamento logico puramente strumentale, comprensibile in un film horror come 'L’esorcista', ma che politicamente non serve a nulla. Per ritrovare una nuova forma di egemonia culturale dobbiamo ripartire dai nostri editori. I quali, hanno sempre trattato con molta superficialità l’argomento di uno sviluppo economico avvenuto attraverso modalità fortemente accelerate, scarsamente accompagnate da un grado di coscienza culturale per lo meno adeguata alle trasformazioni in atto. Uno dei pochi romanzi che ci è capitato di leggere intorno a questo tema è stato proprio 'Fratelli d’Italia' di Alberto Arbasino: la cronaca di un pellegrinaggio in un Paese completamente a soqquadro, tra cantieri e grandi opere pubbliche. Ma a parte tale eccezione, l’andazzo complessivo della nostra produzione letteraria è stato sempre quello di concentrarsi esclusivamente sulla drammatica estinzione della nostra tradizionale cultura contadina e pre-industriale, in forma ora di idillio, ora di epicedio straziato verso i suoi ragazzi di vita per Pier Paolo Pasolini; di resoconto della forzata irruzione della Storia in un mondo quasi immobile per Ferdinando Camon ('Il quinto Stato'); di soave follia per Luigi Malerba ('La scoperta dell’alfabeto'); di incurabile ipocondria verso i sentimenti, aggravata dal lavoro in fabbrica, per Paolo Volponi ('Memoriale'). Già, la fabbrica. Con tutto ciò che l’ha sempre accompagnata in termini di alienazione umana e di realistica analisi antropologica dei rapporti di lavoro: raramente essa è apparsa in primo piano, all’interno della nostra produzione culturale. E il cosiddetto romanzo industriale, un genere che ha avuto grandi momenti di splendore in Germania, Francia e Inghilterra, qui da noi non è quasi mai riuscito a emergere dal documentarismo più asettico e impalpabile. In chi ha sofferto una realtà di dissoluzione materiale, spirituale e morale, il rimpianto e la nostalgia si trasformano in un qualcosa di ovvio, che non solleva problemi particolari. Ed è forse per questo motivo che l’unico scrittore impegnatosi a redigere con occhi veramente asciutti il certificato di morte di un passato composto eminentemente da 'Dio, Patria e Famiglia' sia stato Luigi Meneghello ('Libera nos a malo' e 'Pomo pero'), il quale ha saputo mettere il proprio illuminismo al servizio di un più logico inventario linguistico. Perché se istituti, cibi, abiti, mestieri, giochi, ornamenti, farmaci, usanze domestiche e persino odori e sapori della vecchia 'Italietta' contadina si sono ormai inabissati, occorre salvare la nostra memoria attraverso una serie di tecniche di vita in grado di infilzare con lo spillo dell’entomologo quelle parole che, per intere generazioni, hanno rappresentato un senso corrispondente alle cose.

Il cinema
Maggiormente sensibile verso l’analisi antropologica della nostra vita quotidiana, il cinema italiano ha rappresentato uno specchio assai più fedele dei cambiamenti avvenuti nel nostro Paese: la 'commedia all’italiana' ha donato al pubblico spunti satirici e verità squarcianti, che hanno realmente illuminato le ordinarie vergogne di una cieca corsa, tutta italiana, verso un benessere grettamente materialista. Per esempio, 'Divorzio all’italiana' di Pietro Germi, tramite una scettica eleganza, ha saputo scherzare sull’assurdità di un codice penale che non puniva i delitti d’onore del 'maschio' italiano, mentre 'Una vita difficile' di Dino Risi ha affrontato di petto il dramma di quegli italiani che hanno creduto negli ideali della Resistenza e che si sono visti travolti dalla iattanza cafona dei tanti neo-ricchi. Sempre Dino Risi, ne 'Il sorpasso', ha saputo ritrarre, attraverso un ritmo filmico tutto a singulti, la 'giornata-tipo' di uno dei tanti parassiti che raccolgono le briciole dei nuovi modi di vita imposti da una modernità vacua, canagliesca e, alla fin fine, amarissima. Tuttavia, anche in questo settore, le leggi del successo e della commercializzazione sono riuscite a imporre la superficialità e l’involgarimento. Alcune pellicole di buona fattura hanno preteso di intonacare la nostra 'Storia–Patria' diffondendo ideologie giustificazioniste e autoassolutorie. Ne 'La grande guerra' di Mario Monicelli e in ‘Tutti a casa' di Luigi Comencini sono state presentate figure di italiani i cui tratti indolenti sono addebitati alla nostra tradizionale arte di arrangiarsi, mentre la satira ha spesso degenerato nel 'macchiettismo' e nella bonaria presa in giro ci stiamo riferendo, in particolare, al film 'Il vigile' di Luigi Zampa – di costumi e modi di vivere accettati con eccessiva indulgenza. Fortunatamente, qualcuno, a un certo punto, si è accorto che certe nostre istituzioni non reggevano più. E con tocco assai delicato, il grande Luchino Visconti, in 'Rocco e i suoi fratelli', ha splendidamente fotografato una famiglia di immigrati la cui esigua manciata di valori morali finisce col venire letteralmente 'bruciata' dai 'labirinti' della grande città. Per non parlare del geniale e fantasioso Federico Fellini, che ne 'La dolce vita' è stato uno dei pochi a raccontarci una Roma stordita e corrotta, dove ogni compostezza sprofonda in un paganesimo provinciale, che celebra i propri riti goderecci senza nemmeno saper attingere a una 'grandiosa malvagità'. Poi giunse l’epoca del cinema di denuncia civile, dalla chiara impronta politica. Su tale versante, decisamente accecanti si sono rivelati i film di Francesco Rosi ('Le mani sulla città' e 'Il caso Mattei'); addirittura 'radiografici' quelli di Elio Petri ('A ciascuno il suo' e 'La classe operaia va in Paradiso'); dolorosamente poetici quelli di Pier Paolo Pasolini ('Uccellacci e uccellini' e 'Mamma Roma'). E a rammentarci che l’istituzione maggiormente priva di tenuta è proprio la famiglia ci hanno pensato Marco Bellocchio ('I pugni in tasca'); il 'crudo' Salvatore Samperi ('Grazie zia'); e il quasi onirico Marco Ferreri ('Dillinger è morto'). Tutti registi che hanno appuntato i propri 'strali' contro le atrocità del matrimonio, le ipocrisie del familismo amorale all’italiana e gli egoismi dei moderni rapporti di coppia. In ogni caso, tranne alcune eccezioni, in linea generale la nostra produzione letteraria e cinematografica ha sempre dato l’impressione d’intrattenere con la realtà italiana un rapporto sovrastato dalle bronzee leggi degli schematismi ideologici: da una parte si è riprodotta un’Italia arcaica, pervasa da forme di sfruttamento e di sopraffazione che lo sviluppo economico non è stato mai in grado di intaccare o, quanto meno, di correggere; dall’altra, si rincorrono i volti di una borghesia concepita nel più idealtipico dei modi, come un banale epifenomeno la cui coscienza storica, quando esiste, rappresenta solamente un 'rivolo di spurgo'.

 
L’italo-marxismo
E’ stato sostanzialmente questo il giudizio espresso sulla società italiana dal predominio comunista sulla cultura. Ed è quindi giunto il momento di affermare, a chiare note, che l’italo-marxismo è sempre stato trattenuto da un perdurante pregiudizio anti-industrialista, incapace di aprirsi a una critica superatrice del capitalismo. Ciò è avvenuto proprio a causa della politica culturale del Pci, che ha coltivato a lungo la paura dello sviluppo economico, giudicando il congelamento dei dualismi e delle permanenze pre-industriali come il viatico migliore per la crescita delle forze produttive, al fine di una transizione democratica verso il socialismo. Ma questo errore è disceso, a sua volta, dai filtri a cui è stata sottoposta, qui da noi, la dottrina di Karl Marx dai suoi autori più amati, Antonio Gramsci e Gyorgy Lukacs. I quali, per ragioni diverse, sono sempre stati assai poco attratti dai problemi della modernizzazione: il primo in quanto pensatore sostanzialmente ottocentesco; il secondo, perché non è mai riuscito ad andare oltre a una concezione assai rigida della totalità dottrinaria 'marxiana'. I tentativi migliori di riannodare i fili della riflessione di Karl Marx all’evoluzione della società industriale come per esempio quello di Galvano Della Volpe, che ha sempre insistito sul metodo 'galileiano' del filosofo di Treviri, tentando altresì di aggirare autentici 'macigni' concettuali quali quelli di rivoluzione e socialismo postulando una 'transvalutazione' normativa della democrazia, che passasse attraverso una serie di coraggiose riforme di struttura – sono sempre stati stroncati da bruschi richiami all’inammissibilità dei saperi eclettici. Di fronte a simili 'lumi di luna', la conseguenza culturale più devastante è storicamente risultata quella di una vera e propria messa in quarantena delle cosiddette scienze sociali: mentre in tutti gli altri Paesi occidentali venivano regolarmente pubblicati i grandi classici della sociologia, da Weber a Durkheim, da Tonnies a Thomas e Znaniecki, da Aron a Kelsen, da Fromm a Galbraith, in Italia si è continuato a setacciare la letteratura marxista e post-marxista internazionale proponendo Baran, Braveman, Lukacs, Sweezy, Horkheimer, Adorno, Marcuse e, persino, Mario Tronti. Una egemonia di tal genere è derivata soprattutto da una classe intellettuale che ha voluto gettarsi a capofitto nell’applicazione della teoria del materialismo storico alle arti e alle scienze, tentando di rompere il proprio accerchiamento 'avvinghiando' se stessa a una snobistica immagine di intellettualità totalmente autoreferenziale.


La narrativa
Esaurito il filone neo-realista, la narrativa italiana, in particolare, è vissuta in una sorta di 'limbo' complessivamente riluttante ad assumere ogni genere di trasformazione come oggetto di riflessione critica, vagabondando straccamente tra un intimismo totalmente soggettivo e un indifferentismo allergico a tutto, dalla televisione al cinema, dal calcio al turismo di massa. In forme linguisticamente assai diverse, solo tre romanzieri hanno assunto un atteggiamento che non fosse di supina accettazione o di aristocratico disdegno: il poetico Pier Paolo Pasolini, che con angoscia quasi mistica ha censito le potenti attitudini mortifere della modernità; il lucido Italo Calvino, che è riuscito a conservare una fiducia tutta illuminista nella possibilità di riuscire a dominare razionalmente il “brulicante mare dell’oggettività”, contemplando il mondo dall’alto come il suo 'Barone rampante', che trascorreva la propria vita sopra a un albero; e Leonardo Sciascia, la cui 'sicilitudine ombrosa' viene freddamente applicata a un’implacabile diagnosi dell’organizzazione pianificata del male nelle società soggette a processi di arricchimento inegualitario e troppo accelerato.

La storiografia
Infine, dopo una lunga notte di muta erudizione, rischiarata solamente dal crocianesimo eterodosso di Federico Chabod e dal marxismo rovistante di Delio Cantimori – uno storico 'gentiliano' funambolicamente accampatosi su posizioni di frontiera “per questioni di chiarezza” il mondo dell’establishment editoriale e culturale italiano ha compiuto il suo capolavoro più orripilante: la creazione di una storiografia di appartenenza, che ha preteso di riscrivere la Storia d’Italia sottoforma di storia delle grandi forze popolari che hanno costruito la democrazia. Il profilo che è stato fornito del Partito socialista, del Partito comunista e dell’associazionismo cattolico è stato cioè quello di movimenti abilitati al protagonismo politico del dopoguerra non soltanto dal patrimonio di lotta dell’antifascismo ma, e forse più, dalla loro estraneità alla tradizione del moderatismo prefascita. Ciò ha rappresentato un errore gravissimo, che ha rinchiuso l’esperienza autoritaria fascista all’interno di una parentesi storica capitata quasi per caso: una gigantesca rimozione collettiva, che ha finito col giustificare ogni genere di revisionismo. Ed ecco perché ci ritroviamo, un’altra volta, prigionieri della 'palude' post fascista. Grazie al cielo, non sempre un’appartenenza esplicita ha fatto velo all’onestà intellettuale o è riuscita a ottundere le grandi capacità interpretative di alcuni storici: a) la 'Storia del socialismo italiano' di Gaetano Arfè è riuscita ad approdare a una ben argomentata rivalutazione del riformismo 'turatiano'; b) la documentatissima 'Storia del movimento cattolico in Italia' di Gabriele De Rosa ha saputo trarre in superficie un insospettato continente di uomini e istituzioni in cui hanno sempre germinato sensibilità sociali destinate a vaccinare il cattolicesimo democratico dai pericoli del confessionalismo; c) la monumentale 'Storia del Partito comunista italiano' di Paolo Spriano ha sfatato leggende e pregiudizi intorno a un Pci legittimo erede del Machiavelli, mettendo a nudo quel cieco settarismo che lo ha reso responsabile di disastri ai quali è stato poi costretto a dover rimediare in fretta e furia; d) Rosario Romeo, ne 'Il giudizio storico sul Risorgimento', oltre a rianimare un indirizzo di studi a lungo trascurato, se non negletto, ha saputo sforzarsi nel tentativo di salvare quei valori di libertà civile, intraprendenza individuale, serietà politica, competenza amministrativa e spirito di servizio verso le pubbliche istituzioni, minacciate dalla demagogia tribunizia e dalle elemosine di uno stato sociale concepito nella maniera più assistenzialista che si potesse immaginare.

La questione identitaria
Per tutta questa serie di motivi, oggi l’Italia è un aggregato senza alcuna identità, poiché il mondo della nostra cultura ha sempre preferito rimanere a bordo della propria 'mongolfiera' senza accorgersi, se non in rari casi, delle ripercussioni di un progresso totalmente materialistico sulla mentalità, le abitudini, i costumi e i comportamenti degli italiani. Questo è uno dei 'nodi cruciali', che dovrebbero impegnare il mondo dela cultura in una realistica e credibile ristrutturazione interiore, anziché architettare castelli teorici che la espellono totalmente dalla Storia. Compito di un rinnovato pensiero laico, libertario e ambientalista dev’esser quello di intuire i progetti del grande capitale per organizzare una risposta efficiente, scompaginandone le previsioni, anticipandone le mosse, rendendo obbligatoria una direzione di marcia che determini una effettiva conversione globale del nostro modello di sviluppo. Soprattutto, se si vuol vivere in un mondo meno nocivo e più sostenibile. Una moderna cultura laica e riformista deve convincersi a non rimuovere ogni spirito d’indagine della realtà sociale e dei multiformi interessi che in essa si accavallano: non può limitarsi a produrre qualche cupo brontolìo sopra il cielo di un Paese in cui gli intellettuali cosiddetti 'progressisti' non sono quasi mai riusciti a rappresentare - o quanto meno a 'centrare' veramente - il pensiero di fondo degli italiani. Perché hanno sempre creduto di essere, essi stessi, un’umanità rigenerata. A vario titolo.
 




(articolo tratto dalla rubrica settimanale 'Giustappunto!' pubblicata su www.gaiaitalia.com)
 


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