La docente di
Filosofia presso
l’Università ‘La Sapienza’ di Roma, Donatella Di Cesare, è stata
prosciolta dal
giudice monocratico del
Tribunale penale di
piazzale Clodio dall’accusa di
diffamazione nei confronti del ministro dell’Agricoltura,
Francesco Lollobrigida, che l’aveva querelata per averlo accostato a un
“governatore neohitleriano” in seguito alle sue stravaganti teorie sulla
“sostituzione etnica”. In pratica, il magistrato ha deciso per il
“non luogo a procedere”: una decisione che noi giudichiamo
ineccepibile, a differenza della querela mossa dalla presidente del Consiglio,
Giorgia Meloni, nei confronti del
professor Luciano Canfora, per averla definita
“una neonazista nell’animo”. La
divaricazione tra queste due
distinte decisioni – il non luogo a procedere per la professoressa
Di Cesare e il rinvio a giudizio del professor
Canfora - è apparsa un vero e proprio
mistero giuridico in molti ambienti del centrodestra italiano:
e perché mai? Proviamo a spiegarlo. La differenza tra un
mero accostamento, cioè tra un
paragone in quanto
parallelo storico, rispetto all’accusa di nutrire
sentimenti suprematisti e
razzisti, dovrebbe esser chiara. Invece, in molti ambienti del centrodestra non lo è: una forma di
ignoranza, che ci preoccupa assai più della querela in sé, in quanto limpido segnale di mancanza di
cultura democratica. In pratica, nelle future
diatribe sul
premierato, tanto per fare un esempio, il dibattito potrebbe risultare
viziato da diverse forme di
intimidazione e
autocensura indotte dal rischio delle cosiddette
querele temerarie nei confronti di chi si porrà sul fronte del
dissenso, comprimendo il
diritto di critica. Infatti, la totale mancanza di ogni
nesso 'crociano' della distinzione nel discernere le due
fattispecie non rappresenta una semplice
sfumatura giudiziaria, bensì rende pienamente il senso del
vuoto culturale di cui le
destre italiane, anche quelle che si dicono ispirate da
princìpi liberali, evidentemente soffrono. In buona sostanza, anche chi si definisce
liberale non sembra in grado di porre un
argine alle eventuali
incontinenze provenienti dalle
destre, giustificando ogni
opportunismo, il proprio e quello altrui. Un modo di ragionare totalmente
utilitaristico, che tende a sovrapporre
apparenze sbagliate o
astratte con
giudizi sostanziali su individui e persone. Insomma, c’è il rischio di trascendere
nell’attacco personale, anziché inscenare un
confronto tra le idee, scambiando tale
sommatoria qualunquista e
populista per un risvolto della
volontà popolare. L’analista politico - giornalista, scrittore o intellettuale che sia - prende le mosse da una
coordinata deontologica ben precisa: semplificare il proprio linguaggio per essere compreso
“dall’uomo della strada”, che dunque viene concepito come un soggetto
privo di strumenti e
categorie culturali. In pratica, nei
Paesi anglosassoni, che sono la vera patria delle
culture liberali, la distinzione tra
liberalismo e
qualunquismo, cioè tra
filosofia e
mera opinione completamente priva di qualsiasi riferimento di principio, risulta
netta e
ben definita, mentre qui da noi
non lo è affatto: si scambia per
liberalismo ciò che è semplice
populismo propagandistico, totalmente privo di radici. Noi non crediamo si tratti di una
volontà polemica da parte delle destre italiane, ma di una vera e propria
incapacità: un paragone come quello espresso della
professoressa Di Cesare non dovrebbe essere confuso con un
giudizio sostanziale sulla persona del
ministro Lollobrigida. E chi propone una querela su tali basi non intende difendersi da
un’accusa sostanziale verso la propria persona come nel caso di
Giorgia Meloni, la quale, pur definendosi
“una donna del popolo” - come dice spesso - non ha mai teorizzato
classificazioni verticiste tra
razze o
etnie, né ha mai espresso
sentimenti irrazionali di
sterminio nei confronti di una
categoria etnica, religiosa o
somatica ben precisa. La
presidente Meloni, insomma, è solamente espressione di una
destra dirigista, contraddittoria quanto si vuole, ma qui ci si ferma. Invece, il
ministro Lollobrigida sta dimostrando di essere un
personaggio ridicolo, non all’altezza del ruolo istituzionale che egli ricopre. E questo potete anche considerarlo un
giudizio di sostanza da parte nostra. Di
sostanza politica, ovviamente, non
personale. Il problema che a noi appare evidente è la
sintesi che viene fatta tra
apparenza e
sostanza: un
'sembrare', o anche il semplice
'ricordare', un
“governatore hitleriano” corrisponde, per le nostre destre, a un
giudizio di merito, che finisce con l’impedire ogni confronto proprio nel
merito. Una sovrapposizione potenzialmente in grado di mettere in forse persino le
rappresentazioni teatrali o
cinematografiche, perché un attore è naturalmente costretto ad aderire il più possibile al
ruolo che esso interpreta, anche quando si tratta di un personaggio
moralmente discutibile. Quest’ultimo potrà forse sembrare un
'esempio-limite' da parte nostra (e infatti lo è, sia ben chiaro), ma non così
distante dalla
'topica' che il
ministro dell’Agricoltura ha preso nell’intentare la sua
'denuncia-querela' contro la
Di Cesare. Una studiosa spesso assai
distante anche dalle nostre posizioni e convinzioni, avendo commesso, a nostro parere, numerosi
errori di valutazione ai tempi dell’invasione russa
dell’Ucraina. Purtuttavia, questa volta la
Di Cesare si è ritrovata dalla parte della
ragione: un vero e proprio
miracolo, quello compiuto dal
ministro Lollobrigida. Insomma, affermare che un
ministro stia ragionando, in un preciso momento, secondo i
parametri di un
nazista non presuppone che esso
lo sia. Mentre nel caso di
Giorgia Meloni, il
professor Canfora lo ha detto espressamente:
“Giorgia Meloni è una nazista nell’animo”, cioè interiormente. Questa differenza dovrebbe esser chiara ed evidente. Ma se si dimostra una simile
incapacità a
distinguere questi due casi, si commette un errore che pur risultando perdonabile per
“l’uomo della strada”, sprovveduto per definizione, per un
esponente politico investito da incarichi esecutivi e di governo
non lo è. Su questo punto, infatti, s’innesta uno
scollamento pericoloso in termini di
responsabilità politica, perché si finisce col professare una concezione
totalmente 'sganciata' da ogni
interesse nazionale e dallo
Stato di diritto. Un
difetto, quest’ultimo, che non risulta grave quando parliamo del
ministro Lollobrigida, completamente
'astemio' da simili
'cavilli dottrinari' (che tanto
cavilli non sono), ma lo è per chi si autodefinisce
“liberale” in questo Paese, poiché colpevole, per l’ennesima volta, di
minimizzare o addirittura di negare
l’incultura delle
destre populiste, lasciando loro
'campo libero'. Ciò nella convinzione, probabilmente, di poterle
controllare o
contenere: un errore di valutazione
gravissimo, già commesso nei
primi anni ’20 del secolo scorso e che si continua a
replicare. Tutto questo impedisce da sempre la rinascita di una nuova e più moderna
cultura liberale, in
Italia: è inutile che
Pierluigi Bersani, o la stessa
professoressa Di Cesare, oggi li vadano a cercare. Non ci sono più i
liberali, qui da noi: non esistono sin dai tempi di
Giovanni Giolitti. Essi sono morti, punto e basta. Esistono solamente dei
'libertini inviperiti' che, ogni volta,
tengono ferma la 'scala' ai
fascisti. E’
totalmente inutile che si cerchino i
liberali come
avvocati difensori. Totalmente
a gratis, oltretutto: un punto, quest’ultimo, che ci teniamo a
ribadire fermamente.
(articolo tratto dalla rubrica settimanale 'Giustappunto!' pubblicata su www.gaiaitalia.com)