Dopo le polemiche legate a
Sanremo relative alla frase del cantante
Ghali contro la
spedizione punitiva di
Israele a
Gaza, il senatore della
Lega e sottosegretario alla presidenza del Consiglio,
Alessandro Morelli, ha proposto la sua
'liberalissima' soluzione:
“Sarebbe utile”, ha spiegato in un’intervista al
'Tempo' di
Roma, “cominciare a pensare a una sorta di Daspo per chi utilizza quel palco per fini diversi da quelli della musica. Un artista fa musica, non politica”. Cominciamo col dire che un esponente politico che arriva con
l’ultimo treno a scoprire che gli artisti in generale, compresi quelli del nostro panorama musicale, producano
contenuti e non solamente
intrattenimento evasivo, non si capisce su quale
pianeta abbia vissuto fino a oggi. In secondo luogo, col
diritto d’autore come la mettiamo? La legislazione in materia si è molto sviluppata: quanto costerebbe allo
Stato finire in
tribunale per le varie richieste di
risarcimento a causa di
censure e
amputazioni dei testi? I
democristiani ci provarono in passato. Si faccia dire, il
sottosegretario Morelli, com’è andata a finire e quale figura ha fatto la
Dc: si finisce sui
libri di Storia come esempio classico di
compressione dei diritti e della
libertà di espressione del singolo
artista. Il
diritto di libera espressione e
d’indipendenza di artisti e cantanti ha già fatto molta strada, sia in
Italia, sia nel resto nel
mondo. Anche perché spesso proprio gli artisti sono stati
utilizzati dal potere, sin dai tempi di
Elvis Presley. Il quale, con la propria carriera, ha descritto il
perfetto stereotipo di
artista occidentale: quello del
giovane sottoproletario che, grazie al proprio
bell’aspetto e alle sue
capacità vocali, riesce a farsi accettare nei
'salotti' del potenti, fino a diventare
vittima di quello stesso
ruolo e dei suoi
malefici meccanismi. I
fratelli Cohen, tanto per citare un esempio, lo hanno inserito, genialmente, nel loro
cult-movie, il bellissimo
‘The Hudsucker Proxy’, facendolo apparire all’improvviso a una
festa di gala del grande
capitalismo americano, al fine di evidenziare le
svenevolezze di certe anziane signore o delle tante
mogli americane trascurate dai propri mariti. ll modello che
Presley ha rappresentato all’interno del
'sogno americano', consentiva alle
mogli, generalmente relegate in cucina a lavare i piatti o in lavanderia a stendere i panni appena usciti dalle prime lavatrici, di
sublimare la propria
repressione sessuale, surrogando il proprio stato di abbandono rispetto al
'macho' americano anni '50, totalmente dedito al mantenimento di
giovani segretarie in carriera o di vere e proprie
prostitute d’alto bordo. Dopo esser stato a lungo utilizzato,
Presley si vide superato dai fenomeni musicali successivi e venne
abbandonato a se stesso, finendo col riempire il proprio
disorientamento personale per essere diventato solamente un
fenomeno di consumo, attraverso
l’alcoolismo e le prime
droghe sintetiche immesse sui mercati interni nord-americani. Ovvero, sino alla
consunzione definitiva del proprio
'Io' interiore. Nell’ingenua e provinciale ottica della
piccola borghesia italiana, improvvisamente resuscitata dal
sottosegretario Morelli, il
rock ‘n roll americano rappresenta un fenomeno di
'rottura', di
libertà aggressiva, mentre invece si è trattato di
'modelli imposti', studiati
a tavolino dal mercato discografico, che prima diffonde la propria visione di società
'bruciando' gli artisti e poi, quando il loro momento è ormai passato, li
'sputa' direttamente nella
'spazzatura'. In
Italia, le cose sono andate un po’ diversamente: dopo una fase di forte
contaminazione americana, che produsse veri e propri
'cloni' di
Elvis Presley, quali
Little Tony e
Bobby Solo, s’impose la nuova moda dei
cantautori e della
musica d’autore. La quale, in effetti, riuscì a esprimere
concetti, sogni e
nuovi modelli poetici spostando
l’ottica culturale di un’intera generazione verso
orizzonti più pensosi e
sofferti. Ma in realtà, anche qui da noi la questione è sempre stata assai più controversa: i
cantautori italiani si erano resi portatori di un
malessere, di una generica
ostilità verso le
mitologie consumistiche, contro le
ipocrisie e il
falso perbenismo dei padri. Le loro
canzoni, di volta in volta
disperate o
beffarde, tenere o addirittura
imploranti, cominciarono a trattare temi quali la
solitudine, gli
amori infelici, l’amore in quanto
unico antidoto contro la già allora
vuota condizione giovanile (“Mi sono innamorato di te, perché non avevo niente da fare…” sono i fondamentali quanto significativi versi di
Luigi Tenco, che identificarono pienamente tali contesti sociali). Con il
suicidio sanremese di
Luigi Tenco, che giunse letteralmente come uno
'schiaffo' in piena faccia nei confronti
dell’italianità discofila e
pudibonda rappresentata dalla nostra
subcultura cattolico-reazionaria, si comprese che il problema stava assumendo contorni
maledettamente seri. La
musica italiana stava cominciando a esprimere una vera e propria
tensione verso
altri valori e
stili di vita, una certa carica di
anticonformismo, un’ansia di
rinnovamento. E la storia successiva divenne perciò quella di un vero e proprio
scontro generazionale: mentre la
televisione si ostinava a proporre al pubblico innocui
'pastiches' di
rock edulcorato, orrendamente fusi con la più
nauseabonda tradizione neomelodica italiana, una minoranza sempre meno esigua di giovani venne intercettata
dall’intimismo spoglio e
malinconico di
Gino Paoli e
Fabrizio De Andrè, evocatori di un mondo che cominciava a sognare un
utopico 'altrove' o a rovistare tra le nostre
miserie quotidiane. Lo stesso
Giorgio Gaber iniziò a ritrarre, con toni
affettuosi e
garbati, gli
squallidi personaggi della
'banlieue' milanese - ciclisti falliti, maniaci del biliardo, bevitori di Barbera, pregiudicati
“usciti da poco” - mentre
Enzo Jannacci iniziò a raccontarci, con grande
ironia, gli sfortunati
approcci amorosi dei timidi frequentatori di
balere, le
gaie prostitute amanti della
musica sinfonica o i
'barboni' coi piedi doloranti che passeggiavano sotto la finestra della loro innamorata calzando
“scarp de tennis”. Anche il sommesso ed esangue
Sergio Endrigo, prima di lasciarsi trascinare dalle ridondanze della propria vena più crepuscolare, seppe descrivere la
disillusione preventiva degli
immigrati meridionali, costretti a trasferirsi nel
nord Italia per riuscire a rimediare un
lavoro dignitoso. Tutto ciò ha generato una
frammentazione drammatica, priva di ogni
identità culturale, del
mondo giovanile italiano. Il quale ha finito col crescere immerso in una
confusionaria cultura musicale, che ha svariato dalle
nenie lamentose di
Giliola Cinquetti al
rock duro e
spavaldo dei
Rolling Stones, dalle raffinate
partiture gregoriane di
Gino Paoli agli strilli vagamente
'swing' di
Caterina Caselli e
Adriano Celentano, componendo il quadro complessivo di un Paese che non solo tende a
'cannibalizzare' ogni
fenomeno artistico che appare all’orizzonte, in nome di un
mercantilismo 'mordi e fuggi' - tipico di una mentalità da
'pezzenti' - ma che da sempre
si prostra acriticamente verso ogni
imposizione del mercato senza mai riuscire a
dominare - o quantomeno a
governare - il
mondo dei consumi e della
produzione di massa attraverso
'bussole' di orientamento e di giudizio che non siano né da
apocalittici, né da
lobotomizzati. Questa
guerra totale, avvenuta in
Italia, ha finito col determinare l’assoluta mancanza di ogni
via di mezzo, espellendo definitivamente da ogni genere e tipo di
evoluzione artistica una schiera infinita di personaggi che, invece, meritavano una
carriera ben diversa e che, spesso, hanno dovuto limitarsi a servire da
'spunto' per programmi televisivi appositamente dedicati al ricordo
sguaiato e
ridanciano di autentiche
'meteore'; oppure ancora, alla creazione di veri e propri
'generi' plasmati attorno alla nostalgia di un
target di pubblico composto quasi esclusivamente da
'rintronati', considerati come tali e
sottilmente insultati proprio da questo tipo di rappresentazioni. Si può anche continuare a discutere, oggi, su ciò che quest’antica
generazione di artisti abbia rappresentato nel merito della loro
ingenuità stilistica o di una quasi
stucchevole, ma
genuina, semplicità. Ciò che tuttavia non possiamo perdonare è un
'sistema-Paese' che continua a trattare gli
artisti e il
pubblico dall’alto in basso, in base a un
'populismo' e a
un’inculturazione di massa che appiattisce ogni
qualità individuale o
professionale a mero fenomeno di
prostituzione artistica e
intellettuale 'usa e getta'. Questo è stato il percorso del nostro panorama musicale, caro
Alessandro Morelli: altro che
Daspo agli artisti, che devono preoccuparsi solamente di
“farci divertire”, tanto per citare le parole di un
ex presidente del Consiglio, anche lui
approdato miracolosamente a
palazzo Chigi. Un destino da
'pagliacci', praticamente.
Quali voi stessi siete, gentile
sottosegretario Morelli. Con pochissime
eccezioni.
(articolo tratto dalla rubrica settimanale 'Giustappunto!', pubblicata su www.gaiaitalia.com)