Salutato dalla casa editrice come una nuova versione dei
'Buddenbrook' di
Thomas Mann, il romanzo
'La gemella H' di
Giorgio Falco, edito da
Einaudi, si addentra nella storia di una famiglia per la durata di
80 anni, dalla
Germania nazista fino ai
giorni nostri. Una storia che parla di noi, che ci denuda affondando il
'bisturi' dell’analisi con uno stile duro e serrato, dove le parole vibrano fino a toccare le nostre emozioni più profonde, lì proprio dove abbiamo errato, mettendo al centro del nostro mondo
un’unica gemella, l’unica che è sopravvissuta veramente: la
merce. Ecco l’eredità che ci ha lasciato la
propaganda fascista e
nazista: l’era del
consumismo sfrenato, dove
tutto si compra, addirittura gli
affetti. Sentimenti comprati e poi rimessi in bancarella attraverso il
'Grande fratello', come profetizzava
Orwell e come ci ammonisce il filosofo
Galimberti. Viviamo in un
deserto emotivo devoti a un unico dio: il
denaro. Fin dall’iconografia della copertina, una
natura morta che rappresenta
mele marce, si sente questa mortificazione interiore alla quale ci siamo condannati. Ma chi è
la 'gemella H'? E’ la metafora della
merce che regna sovrana, ma all’anagrafe è
Hilde, la
gemella di Helga, quella che si è accomodata nel secolo del
consumismo con un
matrimonio ricco e borghese. E’ la figlia di
Hans Hinner e di
Maria Zemmgrund, che nasce in una città immaginaria della
Germania, che però potrebbe essere certamente una rmetropoli eale:
Bockburg. Qui era nato anche il
padre di Hans, un fabbro
ostile al regime 'hitleriano'. Il figlio, invece, durante il
nazismo raggiunge una posizione di rilievo e ben retribuita come
giornalista di propaganda: ecco come i soldi cambiano le menti e le rendono
'mele marce'. Le pagine sul
giornalismo sono particolarmente
taglienti: la forza della
parola celebrata dagli
antichi Greci; la
parola che diviene forte soprattutto quando è
mistificatoria, manipolativa, ipnotizzante. Attraverso la voce narrante di
Hilde sembrerebbe che tutto sia cominciato da lì: dalla
parola perversa e
menzognera. Infatti il romanzo si apre con
Hilde che tutte le mattine si reca a comprare
due quotidiani, ai quali si dedica nelle prime ore della giornata, prima di rassettare le camere
dell’albergo acquistato dal padre a
Milano marittima. In quei giornali vede la manifestazione tangibile dell’uomo con le sue
brutture, iniziate da quando si è volto al
'Male' che, come un’ossessione, permea l’intero romanzo, mentre la
merce s'impone come una
bestia a tentacoli: un incubo alla
'Yeats' o alla
'Lovecraft'. La stessa sensazione che si prova nel vedere il film
'Il capitale umano' di
Paolo Virzì. Invece, siamo noi, ciascuno di noi, che inseguiamo senza lena un
benessere che neppure più ci corrisponde, vista la
invariabile tendenza al
declino dell’attuale
crisi economica. Una
crisi che sta lì a punire noi
macchiati di tracotanza, fiduciosi
'ad infinitum' nelle nostre capacità, in quanto
'figli della merce'. In realtà, in quest’opera avrebbe dovuto parlare
Helga, la figlia
allineata con il sistema, quella accomodante. Invece, a parlare, o meglio a sillabare, a trovare le parole più
“scarne e secche” è
Hilde, la
voce narrante, quella
embrionalmente in rivolta, che non riesce a tagliare il
cordone ombelicale che la lega a questa famiglia di
accumulatori di ricchezza. Così si avverte tutto il
disprezzo inespresso, mentre la sua vita, stancamente, apaticamente, si conduce
divorata dal male. Così la famiglia ha tutto: dalla
Mercedes nera alle
ville e
all’albergo. Ma quello che manca è il
cuore. Una famiglia che in realtà
non ha nulla, in cui non vige alcuna
educazione sentimentale, ma il
nichilismo assoluto, che è il
vero protagonista assieme alla
merce, alla
“roba”, come direbbe il
Verga. Quella che ci distrugge fino al
midollo e non ci lascia respiro. Esattamente quello che avviene in questa
società consumista, che arriva a
consumare anche il nostro
‘Io’ interiore.