Primissimi anni ‘20 del secolo scorso: il nostro
'Belpaese' è al centro di numerosissimi, nuovi
‘Grand Tour’: viaggi reali, attraverso paesaggi naturali, punteggiati di testimonianze storico-artistiche e, al tempo stesso vagheggiati, orientati dalla pittoresca fascinazione delle epoche passate. I panorami
dell’Italia centrale tra le mete privilegiate di tali poetiche divagazioni, gli
Alinari a pieno regime nell’immortalare luoghi che diventano tappe fisse delle peregrinazioni d’artista. Questo fa da sfondo all’arrivo di
Maurits Cornelis Escher (Leeuwarden, 1898 - Laren, 1972), incisore olandese di stanza in
Italia a partire dal
1921, anno in cui cominciò a girare per la
Liguria, la
Toscana e
l’Umbria, giungendo infine, nell’anno
1923, a
Roma, dove poi decise di stabilirsi per
12 anni in
via Poerio 122 (quartiere
Monteverde vecchio, ndr). Qui frequentò personalità quali lo storico dell’arte olandese,
Godefridus Johannes Hoogewerff (1884-1963), direttore
dell’Istituto olandese a
Roma, o
Adolfo Venturi (1856-1941), titolare della prima cattedra di
Storia dell’Arte in
Italia (1901-31). Sempre qui a
Roma, poté subire la malìa del
'rovinismo' di stampo
'piranesiano' e la magniloquenza architettonica
barocca, vissute in solitaria, di notte, con una piccola torcia appesa alla giacca, su una sedia pieghevole a disegnare:
“La sera, dopo le otto, fino alle undici e anche mezzanotte, disegnavo la meravigliosa, bellissima architettura di Roma di notte, che mi piaceva di più di quella alla luce del giorno. Le passeggiate notturne sono il più meraviglioso ricordo che ho di Roma”. In quest’atmosfera, a metà tra sogno e realtà, nacque una delle sue opere incisorie più incantevoli: i
12 esemplari della serie xilografica
'Roma notturna' (1934), interamente esposta nella rassegna attualmente in corso a
Palazzo Bonaparte. Curata dallo specialista,
Federico Giudiceandrea e dal
Ceo della
M.C. Escher Company, Mark Veldhuysen, tale antologica intende e riesce a ripercorrere la parabola creativa di
Escher, attraverso circa
300 opere grafiche, molte delle quali realizzate proprio durante il suo
soggiorno italiano, romano in particolare. E non a caso, data la ricorrenza del
centenario dall’arrivo dell’artista
nell’Urbe. Assoluti protagonisti:
scorci capitolini ritratti da punti di vista spesso insoliti, impressi su carta attraverso
un’acribia incisoria e un’orchestrazione luministica di matrice evidentemente
olandese. Un’arte, quella di
Escher, di qualità antica, erede di tutta la tradizione artistica di
Fiandra (dai ‘miracoli’ ottici e
luministici dell’Ars nova quattrocentesca, all’espressività incisa di
Van Gogh, fino
all’Art Nouveau) e, al tempo stesso, profondamente moderna, sensibile alle sperimentazioni delle
avanguardie d’inizio secolo: dai lavori sul movimento e sulla luce di
Giacomo Balla, per esempio, alle immagini oniriche della
metafisica e dei
surrealisti. Straordinaria, la ricchezza di stimoli e di esperienze visive che la rassegna efficacemente mette in luce, articolando un percorso espositivo che da lavori giovanili quali i
'Girasoli' (1918) o la matrice raffigurante un
'Gatto bianco' (1919), approda alle sperimentazioni più estreme degli
anni '50, tutte giocate sulle
illusioni ottico-percettive indagate dalle leggi della
Gestalt Psychology. Ecco, allora, comparire in mostra la
'Cathédrale Engloutie', direttamente ispirata all’esecuzione del pianista
Erwin Fischer del
X preludio del I libro di Préludes di
Claude Debussy (1910), ‘scolpita’ attraverso un contrasto nettissimo tra segni bianchi e neri; o la
xilografia raffigurante la moglie
'Jetta' (1925), con tratti che ancora denunciano la formazione ricevuta alla
Scuola di Architettura e Arti decorative di
Haarlem, sotto la guida del grafico,
Samuel Jessurun de Mesquita, esponente
dell’Art Nouveau olandese presente in mostra con un’incisione raffigurante:
‘La Musica’. Ecco, inoltre, i
'XXIV Emblemata' del
1932, in cui
Escher rivisita
l’emblematica olandese di origine
cinquecentesca, su commissione di un tal
A. E. Drijfhout, alias
G. J. Hoogewerff. Ed ecco anche i paesaggi immortalati durante gli anni italiani
(in Campania, Calabria, Sicilia e Abruzzo), in compagnia dell’amico grafico di origini svizzere,
Joseph Haas Triverio. E tutta la produzione successiva al
1935, anno in cui,
dall’Italia fascista, si trasferì prima in
Svizzera, poi a
Uccle in
Belgio (1937) e, infine, dal
1941, a
Baarn nei
Paesi Bassi: dalle
'Tassellature' poligonali e zoomorfe, centrali nelle sue ricerche a partire dalla visita
al’Alhambra di
Granada (1935), dove restò folgorato dalle
decorazioni geometriche 'moresche', ai cicli di
'Metamorfosi' sviluppati dalla fine degli
anni '30 fino ai
'60 inoltrati, nei quali tutto è possibile: un
geco può tramutarsi in
alveare, ape, uccello, pesce, città, scacchiera. Ecco, infine, le
indagini spaziali estreme
('Relatività'; 'Salire e scendere'; 'Illusione della scacchiera'; 'Mani che disegnano' e così via): i
paradossi percettivi e i
mondi impossibili che portarono
Escher alla celebrità anche presso la comunità scientifica
(del 1954, l’esposizione di alcune sue stampe al
Congresso internazionale dei matematici ad
Amsterdam), traghettando la sua arte in film
('Harry Potter' e 'Labirynt'), fumetti, videogame, nell’oggettistica o sulle
copertine di dischi (come il vinile dei
Pink Floyd 'On The Run – The Live Biography Volume Three', per esempio), dando vita alla cosiddetta
‘Eschermania’, cui
Palazzo Bonaparte ha dedicato l’ultima sezione della mostra. Dunque, una
rivelazione un po’
psichedelica di un mondo che gradualmente scopre e manifesta tutta la propria sconcertante
ambiguità, aprendosi alla dimensione del
paradosso e
dell’infinito: quella allestita a
piazza Venezia fino al prossimo
1° aprile 2024, arricchita da numerosi
apparati didascalici, testuali e
interattivi, efficaci a spiegare al pubblico le
regole del gioco elaborato da
Escher attraverso decenni di lavoro. Come egli stesso affermò:
“Un gioco molto serio”.