Sulle note della canzone di
Renato Zero, ‘Viva la Rai’, un brano ancora oggi in larga parte
censurato, inserito in uno dei lavori migliori di
"Renatino", in cui l'artista romano ricordava la dura
gavetta vissuta al
Piper di
Roma, sono cominciate le celebrazioni per i
70 anni di
'Mamma Rai'. Un brano estremamente intelligente, quello di
Renato Zero, che ammiccava in più punti alle varie forme di
prostituzione intellettuale e
sessuale e a
un’omosessualità a lungo mantenuta nascosta da un giudizio di
abominio morale, da parte della
cultura cattolica dominante in questo Paese. Perché allora, non si poteva nemmeno fare
"outing" senza finire
'fuori dal giro' e non lavorare più, anche se eri
“bravissimo” a detta di tutti. La canzone di
Renato Zero prendeva in giro,
gramscianamente, la
cultura generalista e
nazionalpopolare della
Rai, che tendeva a nascondere ogni verità sotto al
'tappeto' di
un’apparente oggettività. La frase:
“Dice la Rai soltanto il vero…” fa diretto riferimento alla continua
censura che veniva operata in
viale Mazzini da
funzionari zelanti, contro
artisti, culture alternative e
forze politiche. Il
Pci viveva costretto in un’alienante
'camicia di forza', per non dover mostrare il fianco ai tanti
'bacchettoni'; i
socialisti, a loro volta, provavano, un po’ timidamente, ad aprirsi alle
tematiche libertarie; i
democristiani mantenevano la loro
'cappa incombente', che risaliva ai tempi di
Filiberto Guala e
dell’Azione cattolica. Infine, i
Radicali di
Marco Pannella non potevano neanche
avvicinarsi alla
televisione di Stato, poiché giudicati
“folli” e
“trasgressivi”, secondo i canoni di una
cultura media che è sempre
corruttrice del
pensiero critico, nel tentativo di contenerne e limitarne le
'punte' più
innovative. Come nella miglior
tradizione clerico-fascista di questo Paese, che tende a portarsi la
rivoluzione al proprio
interno, anziché
anticiparne le mosse e provare ad articolare nuove
risposte. Per carità, la
Rai ha svolto un ruolo importantissimo
nell’acculturazione degli italiani, che erano arrivati sin quasi alle soglie degli
anni '60 del secolo scorso in una condizione di
semi-analfabetismo: una
'testa di turco' che, ancora oggi,
“vive e lotta insieme a noi”, per dirla con
Walter Veltroni, accertata e dimostrata da
studi autorevolissimi e non certo inventati. A una
zattera ideologica di
sinistra corrisponde, qui da noi, una
cultura di destra che non intende fare il benché minimo passo verso una
modernizzazione dei costumi, paurosa nei confronti di ogni forma di
cambiamento. Come se un Paese potesse
fermarsi e
segnare il passo con le masse, anziché spingerle a
riflettere e ad
evolversi. Oltre a tali polemiche intestine, che in ogni caso
Renato Zero fece bene a sollevare con intelligenza nel bellissimo
‘Via Tagliamento 1965-1970’ - che corrispondeva, in molti brani, a un sonoro
'pernacchio' verso
l’ipocrisia cattolica che lo aveva mantenuto, per interi decenni, a uno stadio di
talento inespresso, nonostante una
voce potentissima ed estremamente intonata - nell’affrontare questi temi siamo sempre noi quelli costretti a ricordare
l’altra faccia della medaglia del
'generalismo-Rai'. E allora tiriamola fuori questa storia, ripescando nei meandri più soffocanti del
qualunquismo italiano quella funzione di un
medium di massa - la televisione - che pur tra
infinite mediocrità, ha avuto un’importanza fondamentale nel fornire un’impronta unitaria
all’identità collettiva degli italiani. Un lascito storicamente
ambiguo, carico di
contaminazioni formali, che hanno modificato profondamente la nostra
indole nazionale attraverso una versione controversa di
modernità, composta da molte
'ombre' e scarsissime
'luci'. Ebbene, quella che il
3 gennaio 1954 iniziò a trasmettere dagli studi di
Milano fu una
televisione di Stato che si pose, immediatamente, una serie di
drammatiche preoccupazioni di ordine
pedagogico e
censorio. Sin dal primissimo biennio, contraddistinto dalla direzione generale di
Filiberto Guala, vennero emanate alcune norme di regolamentazione e autodisciplina che, in molti punti, risultavano
estratte di peso dalle indicazioni del
Centro cattolico cinematografico: un organismo che aveva già causato
danni inenarrabili, con le sue
ridicole amputazioni e la propria condizionante
influenza sul fronte della
produzione filmica nazionale. Per lungo tempo, nella televisione italiana non furono consentite:
a) la rappresentazione di scene che potessero turbare la pace sociale o l’ordine pubblico;
b) l’incitamento all’odio di classe o la sua esaltazione;
c) sabotaggi, attentati alla pubblica incolumità, conflitti con le forze di polizia e disordini pubblici, i quali potevano esser rappresentati con somma cautela e sempre in modo che ne risultasse chiara la condanna;
d) opere di qualsiasi genere che portassero insidia all’istituto della famiglia, che risultassero truci o ripugnanti, che irridessero alla legge o che risultassero contrarie al sentimento nazionale;
e) particolare riguardo doveva essere mantenuto di fronte alla santità del vincolo matrimoniale e verso il rispetto delle istituzioni;
f) il divorzio poteva essere rappresentato solo allorquando la trama lo rendesse indispensabile e l’azione si svolgesse ove ciò risultava consentito dalle leggi;
g) le vicende che derivavano dall’adulterio e che con esso si intrecciavano non dovevano indurre antipatia verso il vincolo matrimoniale;
h) un’attenta cura doveva esser posta nella rappresentazione di fatti o episodi in cui apparivano figli illegittimi.
Autodisciplina a parte, l’allora responsabile dei palinsesti,
Enrico Pugliese, nel corso della loro messa a punto oscillò continuamente tra una sottovalutazione delle
possibilità del mezzo, una blanda
vena enciclopedica e l’intento di educare
l’italiano medio sotto la luce cui esso appariva ai nostri
tutori ecclesiastici. Gli spettacoli di maggior successo furono, perciò, i
testi teatrali mandati in onda alla sera del venerdì; il programma
‘L’amico degli animali’, condotto da
Angelo Lombardi, uno zoologo un po’ sgrammaticato; una rubrica di curiosità erudite, etimologiche e un poco antiquarie dal titolo
‘Una risposta per voi’, affidata a un professore di biblioteconomia,
Alessandro Cutolo, frequentatore a
Napoli del mitico
'salotto' di
casa Croce. Vennero, inoltre, introdotte le prime
trasmissioni a quiz, ricavate dai modelli americani e francesi:
‘Lascia o raddoppia’, presentato da
Mike Bongiorno; ‘Il musichiere’, condotto da
Mario Riva; ‘Telematch’ con
Silvio Noto, Enzo Tortora e
Renato Tagliani; ‘Campanile sera’, ancora con
Enzo Tortora e
Mike Bongiorno. Questi programmi si rivolsero
all’everyman italiota con l’espresso scopo di rassodarne la tranquilla coscienza di
benpensante. Tuttavia, ciascuna di queste trasmissioni finì con l’imprimere sul costume una propria
impronta specifica e peculiare:
‘Lascia o raddoppia’ santificò una
cultura nozionistica sostanzialmente
mnemonica, del tutto priva di ogni attitudine critica;
‘Il musichiere’ preannunciò l’avvento di un
dialetto romanesco leggermente
'purgato' come nuova
lingua nazionale, scardinando definitivamente
l’antica sintassi letteraria del
fiorentino storico, le ultime vestigia del
lombardo-manzoniano e lo stesso
purismo franco-piemontese tanto caro al sempre più dimenticato,
Edmondo De Amicis; ‘Telematch’ creò modi di dire che divennero immediatamente
metafore di uso nazionale;
‘Campanile sera’, che si riprometteva un qualcosa di molto vicino a un’operazione di
affratellamento nazionale tramite la competizione tra
due località assai distanti tra loro, rappresentò un vero e proprio
atto di ratifica di un Paese caratterizzato unicamente da
folclorismi, gonfaloni, acerrime
rivalità localiste e
strapaesane. Infine, per quanto piatti, insulsi e slavati, i primi
telegiornali consacrarono definitivamente il successo del nuovo mezzo di comunicazione: storicamente in
poca confidenza con la
carta stampata, gli italiani scoprirono che il
notiziario in diretta rappresentava una
finestra sul mondo e, dietro le
benedizioni, le varie pose di
prime pietre e l’inquadratura di qualche
doppiopetto ministeriale, essi cominciarono a intravedere qualche
squarcio di verità. Sia come sia, la
nascita della televisione, qui da noi, ha sostanzialmente rassicurato la natura più
ambigua e
dissimulatoria degli italiani. I quali, grazie a
'mamma Rai', sono stati trasformati nelle
vittime predestinate di una
modernità narcotizzata, che ha imposto
vessazioni rieducative assolutamente incapaci di distinguere fra il
contratto di assicurazione stipulato da questo Paese con la
Chiesa cattolica e la persistenza, nel suo seno, di una
religiosità autoritaria e
familista. La qual cosa, ha mantenuto in vita una
mentalità paternalista e
ipocrita, infarcita di pesantissimi
retaggi d’inciviltà giuridica e
morale. Eppoi, c’è tutta la nostra
critica al
Festival di Sanremo, accettata da amici e colleghi poiché espressa attraverso le cose migliori, maggiormente
estetizzanti, ch’io abbia mai scritto negli anni della mia lunga formazione professionale. Infatti, mentre a
Parigi, Georges Brassens e
Juliette Gréco, già negli
anni ’50 del secolo scorso interpretavano brani musicali imperniati sui testi di
Jean Paul Sartre, fino alla fine degli
anni ’60 e al drammatico suicidio di
Luigi Tenco, in
Italia continuarono a imperversare le
marcette melense di
Armando Fragna (‘Arrivano i nostri’; ‘I cadetti di Guascogna’; ‘I pompieri di Viggiù’), mentre il seguitissimo
Festival di Sanremo consacrò canzoni grondanti uno
stucchevole patriottismo (‘Vola colomba’); una
satira tremebonda (‘Papaveri e papere’); lagrimosi elogi della maternità (‘Tutte le mamme’); squallidi inviti al
servilismo (‘Arriva il direttor!’). In conclusione, la
televisione italiana ha quasi sempre trasmesso un
malcelato disagio culturale, che ha finito col
trascendere ogni rispetto verso le
leggi dello Stato, in quanto sintomo di
insicurezza di fronte ai fenomeni di
secolarizzazione dei costumi e
degli stili di vita individuali, in cui l’accordo di fondo tra due soffocanti
pedagogie collettive - quella cattolica e quella comunista - ha finito con
l’incidere profondamente sull’equilibrio psicologico e sul
destino sociale di
intere generazioni, secondo i canoni di una
democrazia sonnolenta e
noiosa, identificata e confusa con
l’ordine pubblico, nonché finalizzata a mantenere i
giovani in un
'limbo' di
staticità e
immobilismo, negando loro non soltanto un
passato in cui riconoscersi, ma un qualsiasi tipo di
futuro verso cui dirigersi e integrarsi.
Tanti auguri, mamma Rai: madre incestuosa e un po’
mignotta, dispensatrice di
stipendi immeritati. Qualcuno doveva pur dirtelo qual è stato veramente il tuo
orribile volto, senza troppe
maschere e
infingimenti: quello di
un’omologazione rezionaria devastante. Soprattutto, nei confronti dei tuoi
figli migliori.
(articolo tratto dalla rubrica settimanale Giustappunto!, pubblicata su www.gaiaitalia.com)