Lo scorso
14 dicembre, a
Roma, presso la sede dell’associazione
'Mais Odv', il giornalista
Paolo Aleotti ha presentato il suo ultimo libro:
'Che sapore hanno i muri' (Casa Sirio Editore). I limiti a cui si fa riferimento nel titolo sono quelli imposti dalle
mura del
carcere di Bollate, istituto penitenziario sito nei pressi di
Milano, in
via Cristina Belgioioso 120, da molti ritenuto
esemplare: scopriamo insieme a lui il perché.
Paolo Aleotti, come è nata l’idea di questo libro?
“Questo libro è nato dall’esperienza maturata in circa nove anni e mezzo al carcere di Bollate, dove ho insegnato e insegno tuttora a fare radio e televisione. In quasi un decennio, ho raccolto tantissimo materiale registrato: dai giornali-radio alle chiacchierate con i detenuti, fino ai nostri incontri. Questo lavoro è andato sempre meglio e mi ha sempre più appassionato, al punto da farmi pensare: perché non scriverci un libro? Quest’idea ha preso corpo, infine, quando Casa Sirio, casa editrice giovane e intelligente, si è interessata ai miei racconti”.
Avrebbe voglia di entrare nel dettaglio su questi nove anni?
“Assolutamente sì. Nel 2014, l’associazione Antigone, che si occupa delle carceri italiane, mi ha chiamato chiedendomi se fossi disponibile a insegnare ai detenuti l’arte della comunicazione, di fare radio e televisione, d’insegnar loro a comunicare verso l’esterno. Questo aspetto è molto delicato: quando si entra in carcere, la separazione dalla società esterna in qualche modo li fa sentire privi di identità, privi di voce. Restituire in qualche modo una voce ai detenuti volenterosi di ricominciare, di uscire dal carcere migliori di come sono entrati, era l’obiettivo del progetto”.
Tra i cinque sensi a disposizione, perché proprio il ‘sapore’?
“Bella domanda. Quel titolo è nato un po’ casualmente, da una delle chiacchierate di cui parlavo poco fa. Pur avendo fatto il giornalista per tanti anni, non sono mai stato un grande titolista. Quindi, mi sono affidato a una frase di uno dei detenuti che hanno lavorato con me: si chiama Vincenzo e, da qualche tempo, ha ottenuto il permesso di uscire di giorno per lavorare fuori, con l’obbligo di rientrare alla sera. Questa particolare forma di graduale rientro dei detenuti nella società, si chiama ‘Articolo 21’. Ebbene, un giorno sono andato a trovare Vincenzo sul posto in cui lavorava e lui mi dice: ‘Sai, Paolo: oggi tutti parlano di un carcere dal volto umano, tutti vorrebbero davvero cambiare il carcere. Allora fanno dei bellissimi convegni, arrivano grandi luminari e chiamano anche alcuni di noi detenuti come testimonial. Si parla per un giorno intero, si dicono bellissime parole, ma poi, alla sera, quando si spengono le luci del convegno e i luminari tornano alle loro case, noi detenuti torniamo alle nostre celle fredde e buie e lo sappiamo noi che sapore hanno i muri’. Ecco da dove viene il mio titolo”.Quante ore e quanti momenti ha passato tra le mura di Bollate?
“Per questo laboratorio dovevo andare ogni martedì per circa 2-3 ore, che però alla fine diventavano sempre 4-5. All’interno del carcere, il tempo assume tutto un altro valore rispetto a come siamo abituati fuori. Dentro, naturalmente, non ci possono essere telefonini. Inoltre, nel carcere di Bollate, c’è un lunghissimo corridoio (300 metri) con tantissimi orologi appesi al muro, ognuno impostato su un’ora diversa. Quegli incontri con loro sono diventati, pian piano, quasi delle sedute di psicoanalisi: stavamo tutti insieme, loro gradualmente si raccontavano e io stesso mi raccontavo. All’inizio non chiedevo mai a nessuno di loro per quale reato fosse lì, mai. Però, parlando e conoscendosi, conquistandosi reciprocamente la fiducia, dopo un po’ abbiamo cominciato ad aprirci: io ho raccontato le mie esperienze, loro anche. Da un incontro di 2-3 ore alla settimana, perciò, si è arrivati, a volte, anche a due incontri di più ore. Questo, quando volevamo portare a termine i nostri progetti, che consistevano in documentari radiofonici, televisivi e una sorta di giornale-radio settimanale di 5 minuti, che continuiamo a produrre ogni settimana”.
Quali erano i contenuti di questo giornale-radio?
“Il lavoro è impegnativo, anche perché la ‘redazione’ ogni tanto cambia: alcuni escono di prigione, finiscono la pena, altri si stancano. Poi, c’è stata la pandemia che ci ha interrotto per più di un anno. Noi parliamo tanto e ragioniamo su cosa proporre nel giornale-radio e nei documentari. Per il giornale-radio, la nostra idea è quella di trattare notizie provenienti dall’interno del carcere e proporre approfondimenti. Per le notizie di ‘interno-carcere’, noi intendiamo le novità, se accade qualcosa di nuovo: un’attività che comincia, una che finisce, ma anche momenti dell’anno ritenuti significativi. Ora che siamo durante le feste natalizie, per esempio, nel reparto femminile abbiamo ragionato insieme su cosa significa passare il Natale in carcere. Per l’8 marzo, sempre nel reparto femminile, abbiamo realizzato un bellissimo numero. Stessa cosa abbiamo fatto per la giornata dell’Olocausto. Realizziamo anche degli approfondimenti: abbiamo ampliato concetti quali la resilienza, le neuroscienze e tanto altro. Adesso stiamo realizzando un abbecedario: per ogni lettera dell’alfabeto, detenuti e detenute preparano 5 minuti in cui raccontano, a più voci, varie tematiche. ‘A’: abbigliamento; ‘B’: cos’è Bollate; ‘E’: educazione: ‘D’ cosa significa essere donne in carcere. Pertanto, possiamo dire che c’è una parte di notiziario e una di approfondimenti. Questo, per quanto riguarda i giornali-radio”.
E i documentari?
“Per quanto riguarda i documentari, ne abbiamo fatti alcuni sul carcere di Bollate. Si tratta di un penitenziario molto particolare: uno dei pochi casi, in Italia, ad adottare la legge secondo la quale le porte delle celle possono essere tenute aperte tutto il giorno. Questo permette alle detenute e ai detenuti di fare una serie di attività alternative, come quella che fanno con me. Un’altra attività che svolgono, per esempio, è lo yoga. Poi possono studiare, lavorare, vanno in palestra. Prima, addirittura, c’erano una ventina di cavalli per la ‘pet therapy’. Ci sono anche le serre e c’è persino un ristorante, che si chiama ‘In galera’, dove lavorano i detenuti. Tantissime idee, insomma, che purtroppo sono state possibili solo a Bollate. Nelle altre carceri, tutto questo non è ancora arrivato. Una cosa, però, posso dirvela: il tasso di recidiva, nelle duecento carceri italiane, sfiora il 70%, mentre a Bollate, con questo metodo, è sceso al 17%. Questo vuol dire che il ‘metodo-Bollate’ funziona: perché allora non fare tanti altri penitenziari come Bollate”?
Iniziative come quella guidata da lei o come il ristorante, che implicano la presenza di un pubblico, a che target si rivolgono? Quello esterno?
“Il ristorante sta a metà tra le mura del carcere più interne e il primo ingresso, in una sorta di terreno intermedio tra dentro e fuori. Lì lavorano i detenuti: il cuoco, i camerieri, lo chef e il pubblico può venire anche da fuori. Quando vorrete venire, basta prenotare e potete entrare. Per quanto riguarda il giornale-radio, questo invece viene trasmesso all’interno di ‘Jail house rock’ (dalla canzone di Elvis): una trasmissione condotta da Fabrizio Gonnella e Susanna Marietti, rispettivamente presidente e vicepresidente di Antigone. Durante il programma, trasmesso da Radio Popolare il sabato pomeriggio, si parla, fondamentalmente, di carceri. C’è tanta musica, ma anche giornali-radio realizzati da Bollate, dal carcere di Roma, forse anche quello di Torino. Questi giornali-radio sono interamente dedicati al carcere e si rivolgono a persone che vogliono ascoltare cose che provengono dall’interno del carcere. I nostri documentari, infine, abbracciano un target più ampio: nel 2015, per esempio, in occasione dell’Expo ‘Nutrire il pianeta’, abbiamo prodotto un audio-documentario che si intitola: ‘Il cibo in carcere’. L’idea era quella di parlare di cibo attraverso il carcere. Cosa significa cibo in carcere? Il cibo in carcere assume una valenza particolare. Abbiamo notato, infatti, che mentre le donne perdono un po’ la voglia di cucinare, per gli uomini, invece, la cucina in carcere diventa un qualcosa di particolare: restando aperte le porte delle celle, chi sa cucinare meglio può invitare a pranzo o a cena più compagni. Paradossalmente, poter invitare altre persone diventa una questione di status. Pertanto, attraverso il cibo siamo riusciti a raccontare cosa significa vivere a Bollate. Il centro di questi documentari è sempre la vita nel carcere, raccontata, però, attraverso tante altre cose”.
Attraverso il suo lavoro, le è mai capitato di entrare in contatto con persone che hanno compiuto anche i crimini più efferati? Come ha vissuto questa esperienza e come definirebbe il dialogo intessuto con loro?
“All’inizio, io non sapevo nulla di loro. E quando sono entrato ho fatto, come si suol dire, ‘il convitato di pietra’: stavo lì, buono buono, zitto zitto, non dicevo una parola e cercavo di capire come funzionavano le cose. I primi tempi, guardavo le persone e mi chiedevo: ‘Questo perché sta qua dentro? E lei che avrà fatto?’. Insomma, ero guardingo, sospettoso. Dopo un po’, tre o quattro mesi, ho cominciato a tornare a essere me stesso: stavo lì per insegnare a usare la radio e la televisione, per sentire se c’era una buona voce che fosse in grado di parlare bene. A qualcuno chiedevo di realizzare un servizio; a chi aveva più capacità organizzative, chiedevo di mettere insieme una piccola redazione. Ed ecco che, gradualmente, il laboratorio è diventato quasi un lavoro professionale. Questo ha facilitato il rapporto con i detenuti, tanto che, a un certo punto, uno dei ‘decani’, in carcere da 25 anni, Gaetano, mi disse: ‘Caro Paolo, adesso sei maturo per capire una cosa che da tempo vogliamo dirti: noi non siamo reati che camminano, ma persone che hanno commesso un reato. Io ho commesso tante rapine, ma non sono un rapinatore: sono uno che ha commesso tante rapine’. Dopo un po’, spontaneamente, ho introiettato proprio questo fatto: non dobbiamo identificare le persone con i reati. Non parlavo più con assassini, prostitute e tossicodipendenti, ma con persone che avevano sbagliato. Ognuno di loro, ai miei occhi, è tornato a essere una persona. E io lo stesso, per loro. Ecco, è stato proprio questo processo di riconoscimento reciproco che mi ha permesso di arrivare a questo libro, nel quale i detenuti si aprono totalmente, ma anche io mi apro, come uomo e come giornalista. Ho cominciato a tirar fuori le mie paure, i miei dubbi: perché loro stanno dentro e io no? Perché loro sono cattivi e io sono buono? Perché uno nasce cattivo e uno buono? Oppure, perché ci sono condizioni che ti portano dentro”?
Che impatto ha avuto tutto questo sulla sua identità professionale?
“Stando lì dentro, ho cominciato, pian piano, a riformare la mia stessa identità di giornalista. Prima, se incontravo una persona che aveva commesso omicidi terribili, andavo, la intervistavo e la sparavo in prima pagina. Adesso no: stando lì, ho capito che non dovevo sparare in prima pagina i delitti, ma cercare di capire perché erano accaduti e se, per caso, quella persona aveva voglia di espiare la propria pena, per cominciare a metter via quella parte di sé e tornare migliorata nella società. Una domanda che mi fanno spesso è la seguente: è giusto trattare bene persone che hanno commesso reati terribili? Giusto dargli l’occasione di fare radio, televisione, attività con cavalli e così via? Sì, perché una cosa è la giustizia personale; un’altra è la giustizia dello Stato. Lo Stato deve certamente tutelare la società civile, segregando queste persone e impedendogli di fare ancora del male, ma nello stesso tempo ha il compito di rieducarle, in modo che quando escano di prigione non rifacciano le stesse cose. E questo può accadere solo se le tratti bene, se le migliori. Si è trattato di introiettare questa cosa, che certamente fa a pugni con la mia etica: trattar bene uno che ha ucciso un bambino, chiaramente ti ‘spacca’ dentro. Però, lì dentro ho capito di non essere un agente della vendetta sociale, ma della giustizia: si trattava di dare, anche a una persona che aveva commesso un errore gravissimo, la possibilità di redimersi, di espiare la propria pena e di uscire, magari dopo 20 anni, migliore di quando era entrato”.
Questa trasformazione è stata dolorosa? Provare simpatia per degli omicidi le ha creato una frattura interiore, confusione?
“Assolutamente sì. I primi anni ero molto guardingo. Mi dicevo: ‘Possibile che mi stia simpatico uno che ha ucciso’? Il processo è stato molto lento. Tuttavia, sono arrivato a capire che quella persona aveva fatto del male soltanto dopo averla conosciuta”.
Cosa intende di preciso? Può farci un esempio?
“Sì. Calcolate che alcuni dei nomi che farò - e che faccio nel libro - sono un po’ modificati: non volevo in alcun modo che emergessero i casi mediaticamente importanti. Un giorno, un detenuto di nome Gianrico mi raccontò un episodio accaduto mentre stava andando a trovare i suoi genitori, vicino Padova, poiché da qualche mese gli permettevano di uscire temporaneamente per andare dai suoi: ‘Sai, Paolo, quando esco mi vesto tutto per bene: la camicina, i polsini. Nessuno capisce che sono un detenuto. Una volta, sul treno, stavo consultando dei faldoni relativi ad alcuni compagni che volevo aiutare sul piano giuridico, quando una coppia di signori, molto carini, mi chiesero cosa stessi facendo. Alla mia risposta, cominciarono a dire che tutti i detenuti sono brutte persone, che vanno buttati nelle celle e lasciati marcire, buttando via la chiave e via dicendo. Io non riuscii a dire niente, se non alla loro discesa dal treno, quando rivelai di non essere un avvocato, ma un detenuto io stesso. Uscirono attoniti, viola in faccia… Paole’, pensa se gli avessi detto di aver ammazzato mia moglie...’. Io sono rimasto congelato: ‘Scusa Gianrico, ma tu hai ammazzato tua moglie? Personami, se te lo chiedo, ma ti fanno uscire’? E lui: ‘Paolo, vuoi sapere una cosa? Sono passati undici anni: adesso il giudice è un anno che mi dice che posso uscire. E io, all’inizio, gli dicevo di no: io non volevo uscire, prima devo essere sicuro di essere cambiato, che dentro me non c’è neanche più un pezzetto di quel mostro che ha ucciso sua moglie. Pensa, Paolo: ci hanno messo meno, a perdonarmi, i genitori di mia moglie di quanto ci metta io a perdonare me stesso. Io, ancora oggi, non riesco a perdonarmi. Sono uscito, quella volta, perché mia mamma stava male, ma non voglio uscire fino a quando dentro me non ho la certezza di aver espiato la mia colpa, di aver mandato via quelle cose che mi hanno spinto a fare quella cosa là’. Capii, allora, che la mia non era simpatia, ma comprensione di quello che mi stava dicendo, che era molto profondo”.
C’è una storia che vorrebbe raccontarci?“Sì, riguarda Ilinka, una rom di 43 anni. Parlando un giorno, mi dice: ‘Sai? Ti sembrerà assurdo, ma quando sono entrata in carcere per la prima volta in vita mia mi sono sentita libera. Da quando avevo 6-7 anni, i miei mi hanno insegnato ad andare a rubare e che andare a rubare non era rubare, ma imparare il mestiere che mi avrebbe consentito di dar da mangiare ai miei figli. Per me, rubare era un lavoro: da piccola, pensavo fosse un mestiere. Poi ho sposato mio marito, a 16 anni. E anche lui e i suoi genitori mi imponevano di andare a rubare, cioè di lavorare’. Da allora, lei ha fatto 9 figli e accumulato 14 anni e mezzo di condanne: tutti ‘furtarelli’, ma 1+1+1…. A quel punto, spaventata che i servizi sociali potessero prenderdi i suoi figli, insieme al marito è fuggita dalla Sardegna in Serbia. In Serbia, per la prima volta ha conosciuto l’ansia e la depressione: ‘Stavo lì, non potevo lavorare, i miei figli tristi lontani dalla Sardegna, dove erano cresciuti, dai malloreddus… Poi pensavo a quei 14 anni e mezzo, che se per caso mi avessero ripresa, avrei comunque dovuto scontare’. Allora ha preso ed è tornata in italia: ha scoperto che il comandante della polizia locale avrebbe fatto in modo di non portargli via i figli per sempre e si è costituita. E quando si è costituita, per la prima volta ha capito che non era obbligata ad andare a rubare, si è sentita libera. In carcere, ha svolto una di queste attività alternative: un corso di fotografia, durante il quale ha posato per 30 secondi. Le hanno dato il suo ritratto fotografico e le hanno chiesto cosa ci vedeva. ‘Per la prima volta in vita mia, mi sono guardata e mi sono vista. E ho capito chi è Ilinka: una persona che non vuole assolutamente rubare, che vuole stare con i suoi figli. Sconterò ciò che devo, ma starò vicina a loro e nessuno più li obbligherà a fare quello che ho capito non essere un lavoro”.
Un ultimo racconto?
“Una storia d’amore: quello nato tra Maurizio e Celeste, due bellissimi ragazzi conosciutisi in carcere. Qualcuno un giorno parlò a lui di lei: ‘C’è una ragazza bellissima, ti piacerà’. Allora, da lontano, per via degli edifici separati, Maurizio cominciò a lanciarle dei segnali, tipo il cuoricino con la mano. E un giorno iniziarono a scriversi. Dopo un paio di mesi ottennero il permesso di vedersi nell’area comune: in quell’occasione poterono guardarsi da vicino e parlare. Capirono di essere innamorati e si misero insieme: ciò consentì loro di ottenere il permesso di vedersi quattro volte al mese, un’ora a settimana, sempre nell’area comune, in mezzo a tutti gli altri. La cosa andò avanti e Maurizio e Celeste si sposarono. A quel punto, ottennero otto ore al mese, due a settimana, sempre in questo modo. Maurizio, raccontandomi tutto questo, una volta mi disse una cosa bellissima: ‘Sono entrato a 19 anni e ora ne ho 39. Puoi immaginare quante donne avevo, quando stavo nella Palermo ‘bene’. Adesso, io non conosco gli umori intimi della mia compagna, però ho cominciato a dare valore a parole come: ‘Ti voglio bene’: ‘Ti penso’; ‘Ti amo...’. Quando lei mi dice ti voglio bene, io tremo tutto. Mia madre, quando le ho raccontato queste cose, mi ha detto che se avesse saputo quanto mi avrebbe fatto bene il carcere, mi ci avrebbe ‘buttato’ sin da subito...”.