Nel Caribe é essenziale gettare l’occhio sui programmi televisivi che non - stop segnalano e illustrano le condizioni meteo. Le chiamano: “Depressioni tropicali”, ma in verità sono dei veri e propri cicloni, che preannunciano qualcosa di più grosso e consistente. Sulle isole, di questi tempi, tutti si sono abituati. Ma si tratta di un’abitudine che sposa la paura, l’angoscia che si ripresentino fenomeni di violenza inaudita, che spazzano via tutto ciò che si ritrovano davanti lasciando segni e piaghe difficili da rimarginare. Se poi le case sono di fango e latta, diviene pressoché impossibile sperare che il passaggio di una depressione di modesta entità possa non provocare lesioni definitive. La capitale di Haiti, Port au Prince, é infatti una metropoli di latta e fango, poco adatta a sopportare uragani. La città si é ormai rassegnata a patire quasi mezzo secolo di cicloni, compresi quelli politici e sociali, dalla quale fatica ad emergere. Pare fosse bellissima negli anni ‘50: i miliardari americani ed europei attraccavano sulle coste circostanti la capitale con le loro barche, le haitiane erano - e sono - le ragazze più affascinanti del Caribe, il fascino tropicale si fondeva con la cultura europea trasportata dagli antichi coloni francesi, più raffinata del vicino e confinante inquilino dell’isola, Santo Domingo. Si dice che tutto fosse così bello e così ricco che chi prendeva in mano l’isola finiva per sprofondare nel gorgo della megalomania e della corruzione, in un’ossessione maniacale di difesa della purezza della razza africana ai danni della consanguinea razza mulatta, la quale si é consapevolmente mescolata col sangue dei ‘coloni-dominatori’. Oggi, il Paese é spogliato delle sue ricchezze, delle sue intelligenze, delle sue belle ragazze: rimane un luogo leggendario, Haiti, ma la sua storia sembra essersi fermata nel tempo e le vestigia dei predatori, dei corrotti, delle bande del malaffare legate al traffico della droga e allo scontro fra vecchi e nuovi ‘imperi’, sembra condizionare il presente e pregiudicare il futuro. Un inserviente dell’aeroporto, alle otto della mattina, mi apre la “sala diplomatica”, praticamente una ghiacciaia che, di lì a poco, si trasforma in un viavai di famiglie benestanti che cercano riparo nella vicina Miami, di militari della missione Minusta dell’Onu di tutte le nazionalità, di uomini politici di governo. La missione delle Nazioni Unite é ‘su piazza’ da diversi anni: più di duemila uomini con il compito di ripristinare l’ordine in una città oppressa da una guerra tra bande che ha preceduto la fuga nel lontano Sudafrica dell’ex Presidente Aristide, uno che al Palazzo presidenziale convocava i suoi subalterni per farli assistere quotidianamente a riti ‘vodoo’, difeso e mantenuto dai plenipotenziari dell’impero americano fino alla minaccia dell’antica ex-colonia francese di mandare i propri marinai della flotta d’oltremare a prenderselo. Quello dei ‘riti vodoo’ é una conferma della sospensione di Haiti fra il passato e il presente, di una religiosità popolare che si distribuisce in oltre 300 fra sette, religioni monoteiste e religioni di origine afro. Me lo conferma il Ministro degli Esteri, che é anche il Ministro del Culto, una delle figure più importanti del Paese: sono grati dell’aiuto internazionale, sinceramente impegnati nell’opera di rilancio e di ripristino della normalità, pur sapendo che sradicare decenni di anarchia e di dominio dei ‘clan’ nel controllo di tutti i traffici legali ed illegali e nello sfruttamento di risorse naturali senza alcun ritorno finanziario per le casse disastrate dello Stato non sarà facile: anzi, si presenta come una missione quasi impossibile. L’italiano, anche nei posti più sperduti, lo ritrovi sempre. In questo caso, il mio ‘cicerone’ appartiene ad una famiglia di armatori napoletani, stabilitisi sull’isola da tre generazioni. Oggi, egli si fregia del titolo di Console onorario e ha mantenuto l’accento di Genova, la città dove ha completato gli studi ed in cui ha convinto la sua ragazza, ora sua moglie, a seguirlo sin qui per curare interessi di famiglia che, nel frattempo, si sono ristretti. Il suo ufficio é anche il Consolato. Quello ufficiale andò distrutto da una bomba incendiaria il giorno in cui Paolo Rossi ebbe la ‘sciagurata idea’ di rifilare tre ‘pappine’ al Brasile nel ‘mundial’ del 1982 e i giovani haitiani, ‘brasiliani di complemento’, non gradirono. Da allora, la bandiera non é stata più esposta ed é proprio ‘il tricolore’ la prima richiesta che mi viene fatta, ovverosia al primo uomo di governo che mette piede ad Haiti dopo venticinque anni. Vengo messo in guardia dei rischi che si corrono ad attraversare la città senza una protezione adeguata: furti, rapimenti, sgozzamenti e decapitazioni sono stati all’ordine del giorno sino alla fine dell’anno passato. Per questa ragione, mi é stata assegnata una pattuglia di accompagnamento che dall’aeroporto mi conducesse sino al Palazzo presidenziale. Ma più che una scorta, si tratta di un esercito multinazionale, non saprei se per un eccesso di zelo o per la premura nei confronti un ospite ritenuto importante. Fatto sta che attraversiamo i ‘quartieri – favelas’, dove le bande si fronteggiavano a colpi di proiettili vaganti, contrade che neanche i militari brasiliani di Minusta sono riusciti a disarmare. Dal girone infernale delle favelas, in cui la vita vale meno di zero ed ogni giornata deve essere ‘inventata’ per poter sfamare la famiglia - per chi ce l’ha – o per vincere la disperazione e l’inattività, che in città raggiunge l'80 % della popolazione, finalmente raggiungiamo il Palazzo presidenziale che si erge bianco, coloniale, solenne, in mezzo ad un ampio piazzale ai piedi di una collina gremita di casupole insignificanti e di boulevard zeppi di immondizia: “Come a Napoli”, mi viene da pensare… Mentre salgo le scale del sontuoso e disabitato palazzo accolto dal maestro di un cerimoniale improvvisato, penso alle ragioni della mia presenza qui, alla mia bisaccia dell’EXPO di Milano del 2015. E rifletto su quanto sia remota e distante non solo la mia città, ma la nostra stessa Europa, da questo ‘inferno’ in cui soltanto qualcuno dall’alto “potrà benedire quel che non ha futuro”, come canta e scrive Chico Buarque. Per fortuna, non mi presento a mani vuote dal Presidente Préval, un mulatto minuto che mi accoglie nell’anti-salone del suo studio in maniche di camicia corte. Lo scorso luglio, proprio noi degli Esteri abbiamo cancellato una parte del debito che la Repubblica haitiana aveva con la nostra. Uno scambio di sms con il Presidente Prodi mi ha autorizzato a preannunciarne la rimozione definitiva entro l’anno: in fondo non rappresenta una gran cifra, ma lo é certamente per questa amministrazione precaria. Préval fu il ‘numero due’ di Aristide, ma ne prese le distanze a tempo debito dopo aver vinto le elezioni, ragione per la quale la ‘corte’ del vecchio dittatore decise di fargli pagare un conto salato, a cominciare dalle corrotte dogane scese in sciopero, proprio in quei giorni, contro il governo. L’uomo é sereno e sicuro di sé - per quanto si possa esser sereni e sicuri in casa propria - e gode di un sostegno internazionale confermato dalla presenza di Ban Ki - moon, arrivato in città la settimana precedente il mio arrivo. I francesi e gli americani sembrano voler riallacciare rapporti e sviluppare interessi. Mi parla dell’Italia, dove ha studiato da ingegnere a Pisa. E’ felice di questa visita, scherza sulle origini haitiane del console, si informa della nostra ‘Expo’ e delle sue ambizioni di rappresentare ed irrobustire gli obiettivi del ‘Millennium goal’ delle Nazioni Unite in materia di sviluppo dell’agricoltura e di governo del ‘Climate Change’. “Sono stato in Italia negli anni ‘80”, mi dice il primo ministro, “proprio quando governava suo padre: dev’essere difficile guidare il vostro Paese…”. Il Presidente, rompendo protocolli e formalità, mi racconta, senza ‘enfasi berlusconiana’, la storiella delle ‘tre buste’, quella che ogni Presidente lascia al proprio successore come eredità e come consiglio “da aprire in caso di necessità”. Quando si presentò il primo problema, un immaginario presidente aprì la prima busta. In essa, c’era scritto: “Dai la colpa al tuo predecessore”. Fu così pure quando si presentò il secondo problema. Ma quando arrivò la terza e più drammatica emergenza, l’ultima busta consigliava perfidamente di “prepararne altre tre per il proprio successore”. E così, anche ad Haiti si trova il tempo per ridere e scherzare sulle difficoltà del governare, sul difficile, se non impossibile, rapporto di fiducia fra governi e governati, sul potere che é sempre tale nelle sue apparenze, ma che padroneggia sempre meno e con minor efficacia i bisogni del momento, in quel lembo di terra disgraziato chiamato a risolvere problemi basici, primari, elementari. Mentre lascio la casa presidenziale, mi risparmio la ‘lacrimuccia’ nel vedere dal finestrino delle auto i bambini scalzi e le madri appollaiate sul ciglio delle strade ad attendere il nulla: ci penserà Eolo a far soffiare il vento e a gonfiare nuvole di pioggia, la quale cadrà copiosa ed abbondante nelle prossime settimane. Sarebbe cosa buona se il raccolto finisse nei grandi supermercati del grande vicino americano. Invece, l’unico grande mercato alimentato da Haiti é quello della droga, che passa di qui e arricchisce brutte mafie. Non é detto che la storia non possa essere invertita, non é affatto detto che il destino sia segnato per questo popolo: non perdiamoli di vista, non cancelliamoli dalla nostra mappa geografica.