Vittorio LussanaAbbiamo letto in questi giorni molte cose che non sono del tutto corrette, in seguito al femminicidio di Giulia Cecchettin. Si pensa che una parte del Paese sia fondamentalmente fascista, ma le cose non stanno così. Risulta pur vero che il fascismo sostenne una precisa visione sociale, basata sul 'gallismo virile maschilista'. Ma la cultura cattolica successiva non ha mai sostituito quella visione con un'altra, basata su un’effettiva “presenza cristiana nella società” o su una rianalisi del 'missionarismo'. Ci provò l'Azione cattolica, ai tempi della 'crociata' contro i fumetti, i quali "nascevano con la pistola in mano" e con i testi sermoneggianti di Fanciulli e Anguissola. Ma essa non aveva gli strumenti adatti per affrontare certi problemi pedagogico-educativi, che sono alla base di quelli sociali. Pertanto, la borghesia laica e liberale si schierò con socialisti e comunisti almeno per far passare alcuni provvedimenti come il divorzio, ma allora avevamo grandi leader e grandi Partiti. E riguardo alla scuola italiana, si tratta di una questione da sempre oggetto di suggestioni nostalgiche, dal vago sapore classista ed 'elitario'. Il tema di una riforma di più ampio respiro è sempre stato terreno di tensioni politiche infinite: nel 1959, venne posta in discussione, al Senato della Repubblica, una proposta di legge comunista, la 'Donini–Luporini', che i socialisti condividevano praticamente per intero. Ma l’allora ministro della Pubblica Istruzione, il democristiano Giuseppe Medici, decise di approntare un proprio progetto di legge che non si discostava affatto dal vecchio disegno 'bottaiano'. La 'proposta-Medici' venne criticata da più parti per il proprio immobilismo e le evidenti incongruenze, ma allorquando il presidente del Senato, il liberale Cesare Merzagora, minacciò di portare in aula proprio il disegno di legge del Pci, il Governo Segni di quel tempo si decise finalmente a dar vita a un ddl 'Medici 2'. Nel frattempo, gli eventi precipitarono con la costituzione del Governo Tambroni e i moti genovesi del luglio 1960. E della riforma scolastica non se ne parlò più, sino all’insediamento di un nuovo monocolore democristiano, presieduto da Amintore Fanfani, sostenuto all’esterno dai Partiti laici e con la 'benevola' astensione dei socialisti: il famoso Governo “delle convergenze parallele”. Il nuovo esecutivo, attraverso l’azione del ministro Giacinto Bosco, tentò di aggirare ogni ostacolo sperimentando, per via amministrativa, fino a 304 cicli di scuola media inferiore unificata, presentando al contempo, presso la VI commissione del Senato, una serie di emendamenti che accoglievano in gran parte le richieste delle sinistre, compresa l’introduzione di un corso di educazione civica fortemente condiviso e voluto, tra l'altro, da Aldo Moro. I giochi sembravano fatti, ma la sostituzione a viale Trastevere di Giacinto Bosco con Luigi Gui - un 'doroteo' dal temperamento 'spigoloso' - scompaginò nuovamente gli equilibri raggiunti, inondando Palazzo Madama di emendamenti che cancellarono totalmente il lavoro del precedente ministro. Il conflitto divenne, a quel punto, apertamente politico. E venne risolto, in sede di trattativa, dal cosiddetto compromesso 'Codignola–Gui', il quale, dopo opportuna 'blindatura', venne portato in aula e approvato benché rappresentativo di una riforma scolastica 'monca', che non incideva più di tanto sugi antichi assetti educativi e sociali del Paese, inchiodato a visioni ataviche, per non dire ancestrali. Giunse poi l’epoca rivoluzionaria del ’68 a dare un altro 'scossone' all’immobilismo italiano. Si tenga presente che le agitazioni 'sessantottine', nel nostro Paese, presero le mosse dall’ostilità vero il progetto di legge n. 2314 – il cosiddetto ‘piano Gui’ – nel quale, nonostante un’intera legislatura di discussioni, tutte le evidenti e necessarie modifiche dell’ordinamento si erano risolte in 'briciole', che continuavano a rivendicare puntigliosamente il controllo del potere esecutivo sui programmi scolastici e su ogni provvedimento emanato dagli organismi accademici. Se si fossero sostituiti allora ‘Dio, Patria a Famiglia’ con una visione maggiormente 'laica', oggi molti italiani non faticherebbero a comprendere molti fatti, poiché trattati dai democristiani come un mero 'feudo elettorale' conservatore. Si potrebbe, forse, ritentare oggi, dato che il voto all'unanimità dei giorni scorsi potrebbe rappresentare una buona premessa a 'qualcosa', l'anima di destra sociale di Giorgia Meloni è finalmente riemersa e la Lega potrebbe fare qualche passo in avanti se guidata da 'mentalità aperte' e non dal 'classismo' dei vari Salvini e Pillon. Anche in questo caso, si segnala il problema di una selezione politicamente più adatta a riprendere il cammino di un riformismo cattolico che esisterebbe come visione culturale, dato che i fatti relativi all'assassinio di Giulia Cecchettin sono capitati nell'Italia più ricca e avanzata del nord-est. Modernizzazione e chiusure ideologiche di retroguardia, infatti, possono creare solamente contraddizioni sempre più stridenti, alle quali prima o poi bisognerà decidersi a fornire risposte. E anche chi pensa che la soluzione sia un ritorno alla cultura del 'padre' o del 'pater familias' sbaglia di grosso: una sorta di cammino all'indietro non sarebbe coniugabile con lo sviluppo tecnologico in atto, sempre più spinto e funzionale unicamente a se stesso. L'universalismo dei mercati andrebbe condizionato e diretto attraverso l’imposizione di una nuova 'direzione di marcia', basata su uno sviluppo controllato ma non ideologico, che abbia il coraggio di effettuare scelte educative ispirate a soluzioni che altri Paesi hanno già adottato in materia di parità di genere e inclusività. Perché - lo ribadiamo - la società va avanti da sola. E ripiegarsi sul privato, oppure su un mondo arcaico e superato, alla lunga non servirà a nulla e, anzi, lascerebbe emergere sempre più alcuni 'danni sociali cronici', come la scarsa educazione maschile nell’approccio con l’universo femminile, rimasto ancorato a categorie semplificate. Purtroppo, fatti come quelli accaduti  in provincia di Pordenone capitano lo stesso: non basta consolarsi pensando che le cose vadano bene in casa propria. E non ci si può dichiarare indipendenti rispetto al resto del Paese. Per cambiare le cose e guidare una società bisogna volerlo. Ma se si ripetono gli errori del passato, la realtà stessa s'incaricherà di venirci addosso, investendoci in pieno. Amare l'Italia non è un mero concetto di tifoseria calcistica: significa possedere un progetto, una visione di società basata su obiettivi e princìpi. Rintanarsi nel privato, chiusi contro il mondo, non serve a nulla: sarebbe quello il vero tradimento della “nazione”.




Direttore responsabile di www.laici.it
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