Abbiamo letto in questi giorni molte cose che non sono del tutto
corrette, in seguito al
femminicidio di
Giulia Cecchettin. Si pensa che una parte del Paese sia fondamentalmente
fascista, ma le cose
non stanno così. Risulta pur vero che il
fascismo sostenne una precisa
visione sociale, basata sul
'gallismo virile maschilista'. Ma la cultura
cattolica successiva non ha mai
sostituito quella visione con un'altra, basata su un’effettiva
“presenza cristiana nella società” o su una rianalisi del
'missionarismo'. Ci provò
l'Azione cattolica, ai tempi della
'crociata' contro i
fumetti, i quali
"nascevano con la pistola in mano" e con i
testi sermoneggianti di
Fanciulli e
Anguissola. Ma essa non aveva gli
strumenti adatti per affrontare certi problemi
pedagogico-educativi, che sono alla base di quelli
sociali. Pertanto, la
borghesia laica e
liberale si schierò con
socialisti e
comunisti almeno per far passare alcuni provvedimenti come il
divorzio, ma allora avevamo
grandi leader e
grandi Partiti. E riguardo alla
scuola italiana, si tratta di una questione da sempre oggetto di
suggestioni nostalgiche, dal vago sapore
classista ed
'elitario'. Il tema di una
riforma di più ampio respiro è sempre stato terreno di
tensioni politiche infinite: nel
1959, venne posta in discussione, al
Senato della Repubblica, una proposta di legge
comunista, la
'Donini–Luporini', che i
socialisti condividevano praticamente per intero. Ma l’allora
ministro della Pubblica Istruzione, il democristiano
Giuseppe Medici, decise di approntare un proprio progetto di legge che non si discostava affatto dal vecchio disegno
'bottaiano'. La
'proposta-Medici' venne criticata da più parti per il proprio
immobilismo e le evidenti incongruenze, ma allorquando il
presidente del Senato, il liberale
Cesare Merzagora, minacciò di portare in aula proprio il disegno di legge del
Pci, il
Governo Segni di quel tempo si decise finalmente a dar vita a un
ddl 'Medici 2'. Nel frattempo, gli eventi precipitarono con la costituzione del
Governo Tambroni e i moti genovesi del
luglio 1960. E della
riforma scolastica non se ne parlò più, sino all’insediamento di un nuovo monocolore democristiano, presieduto da
Amintore Fanfani, sostenuto all’esterno dai
Partiti laici e con la
'benevola' astensione dei socialisti: il famoso
Governo “delle convergenze parallele”. Il nuovo esecutivo, attraverso l’azione del ministro
Giacinto Bosco, tentò di aggirare ogni ostacolo sperimentando, per via amministrativa, fino a
304 cicli di
scuola media inferiore unificata, presentando al contempo, presso la
VI commissione del Senato, una serie di
emendamenti che accoglievano in gran parte le richieste delle
sinistre, compresa l’introduzione di un corso di
educazione civica fortemente condiviso e voluto, tra l'altro, da
Aldo Moro. I giochi sembravano fatti, ma la sostituzione a
viale Trastevere di
Giacinto Bosco con
Luigi Gui - un
'doroteo' dal temperamento
'spigoloso' - scompaginò nuovamente gli equilibri raggiunti, inondando
Palazzo Madama di
emendamenti che cancellarono totalmente il lavoro del precedente ministro. Il conflitto divenne, a quel punto,
apertamente politico. E venne risolto, in sede di trattativa, dal cosiddetto
compromesso 'Codignola–Gui', il quale, dopo opportuna
'blindatura', venne portato in aula e approvato benché rappresentativo di una
riforma scolastica 'monca', che non incideva più di tanto sugi antichi assetti educativi e sociali del Paese, inchiodato a visioni
ataviche, per non dire
ancestrali. Giunse poi
l’epoca rivoluzionaria del
’68 a dare un altro
'scossone' all’immobilismo italiano. Si tenga presente che le
agitazioni 'sessantottine', nel nostro Paese, presero le mosse dall’ostilità vero il
progetto di legge n. 2314 – il cosiddetto ‘piano Gui’ – nel quale, nonostante un’intera legislatura di discussioni, tutte le evidenti e necessarie modifiche dell’ordinamento si erano risolte in
'briciole', che continuavano a rivendicare puntigliosamente il
controllo del
potere esecutivo sui
programmi scolastici e su ogni provvedimento emanato dagli
organismi accademici. Se si fossero sostituiti allora
‘Dio, Patria a Famiglia’ con una visione maggiormente
'laica', oggi molti italiani non faticherebbero a
comprendere molti fatti, poiché trattati dai
democristiani come un mero
'feudo elettorale' conservatore. Si potrebbe, forse, ritentare oggi, dato che il
voto all'unanimità dei giorni scorsi potrebbe rappresentare una
buona premessa a 'qualcosa', l'anima di
destra sociale di
Giorgia Meloni è finalmente
riemersa e la
Lega potrebbe fare qualche passo in avanti se guidata da
'mentalità aperte' e non dal
'classismo' dei vari
Salvini e
Pillon. Anche in questo caso, si segnala il problema di una
selezione politicamente più adatta a riprendere il cammino di un
riformismo cattolico che esisterebbe come
visione culturale, dato che i fatti relativi all'assassinio di
Giulia Cecchettin sono capitati
nell'Italia più
ricca e
avanzata del
nord-est. Modernizzazione e
chiusure ideologiche di retroguardia, infatti, possono creare solamente
contraddizioni sempre più
stridenti, alle quali prima o poi bisognerà decidersi a
fornire risposte. E anche chi pensa che la soluzione sia un ritorno alla
cultura del 'padre' o del
'pater familias' sbaglia di grosso: una sorta di
cammino all'indietro non sarebbe coniugabile con lo
sviluppo tecnologico in atto, sempre più spinto e funzionale unicamente a se stesso.
L'universalismo dei mercati andrebbe condizionato e diretto attraverso l’imposizione di una nuova
'direzione di marcia', basata su uno
sviluppo controllato ma
non ideologico, che abbia il coraggio di effettuare
scelte educative ispirate a soluzioni che altri Paesi hanno già adottato in materia di
parità di genere e
inclusività. Perché - lo ribadiamo - la
società va avanti da sola. E
ripiegarsi sul privato, oppure su un
mondo arcaico e
superato, alla lunga non servirà a nulla e, anzi, lascerebbe emergere sempre più alcuni
'danni sociali cronici', come la
scarsa educazione maschile nell’approccio con
l’universo femminile, rimasto ancorato a
categorie semplificate. Purtroppo, fatti come quelli accaduti in provincia di
Pordenone capitano lo stesso: non basta consolarsi pensando che le cose vadano bene
in casa propria. E non ci si può dichiarare
indipendenti rispetto al resto del Paese. Per cambiare le cose e guidare una società
bisogna volerlo. Ma se si ripetono gli
errori del passato, la realtà stessa s'incaricherà di venirci addosso, investendoci in pieno.
Amare l'Italia non è un mero concetto di
tifoseria calcistica: significa possedere un
progetto, una
visione di società basata su
obiettivi e
princìpi. Rintanarsi nel
privato, chiusi contro il mondo, non serve a nulla: sarebbe quello il vero
tradimento della “nazione”.
Direttore responsabile di www.laici.it