Per
l’Abi (l'associazione bancaria italiana,
ndr) – al netto di spese, perizie e adeguamenti della
Banca centrale europea - i tassi dei
mutui per la casa sono ormai vicini al
5%. Ma in un solo mese c’è stata una
contrazione dei contratti del
3,3%, che su base annua vuol dire la riduzione di un terzo delle pratiche. Inoltre, se si guarda ai
prestiti alle imprese, ridottisi in un mese del
4%, il
campanello d’allarme è ormai molto chiaro: anche le aziende non possono più permettersi di
investire. Interessante notare come
l’Abi ammetta che i tassi pagati dalle banche alla clientela sui depositi si attestano allo
0.8% medio, ovvero
appiattiti verso il basso e senza significativi incrementi. Ciò, nonostante i
dieci progressivi aumenti del tasso di riferimento decisi, appunto, dalla
Bce. La
‘forbice’ della
stretta creditizia non viene, quindi, immessa nel sistema, privilegiando, per esempio,
finanziamenti mirati, più produttivi o di incremento occupazionale. In tal modo, il grosso della
liquidità resta alle banche, che festeggiano con profitti da record semplicemente riversando i soldi raccolti, quasi gratis, dalla clientela nei
rapporti interbancari, ben remunerati, oppure
comprando titoli di Stato, lucrando così una
splendida differenza senza rischi. L’imprenditore e il capitale dovrebbero
reinvestire gli
utili, oppure
acquistare titoli per
finanziarsi sui mercati: questo ci viene insegnato a
Economia politica. Dunque, è difficile
dar torto al governo se si permette di tassare in modo più pesante questi
extraprofitti. E non si capisce perché l’ipotesi non dovrebbe essere
sposata anche a
livello comunitario, magari a vantaggio di
spese ‘mirate’ e applicate da tutti gli
esecutivi Ue. In buona sostanza,
l’Unione insiste con una politica limitata solo sui
tassi per
frenare l’inflazione (questa almeno la vulgata ufficiale, che pochi si permettono di contestare, pur sapendo che non è
l’unico modo per tenere a freno i prezzi,
ndr) quando – nello stesso giorno del
report Abi – la
Confesercenti sottolineava come la
spesa alimentare delle famiglie italiane, primo indice del consumo, si sia
ridotto, nel
primo semestre 2023, di
3,7 miliardi di euro, nonostante l’aumento dei prezzi: si compra, insomma, il
10% di merci e
di beni di
prima necessità in meno. Sempre meno richiesta dei
mercati, che s’impoveriscono anch’essi, un
costo del denaro così alto abbassa la
curva dell’offerta. E
un’ombra inflazionistica inquietante, a medio termine potrebbe causare
'spirali' più gravose, come accaduto dopo le decisioni riguardanti la
guerra in Ucraina, che hanno fatto esplodere la
crisi energetica e
l’aumento delle materie prime. Tutto questo non significa che abbia ragione
Putin. Anche perché tutto ciò ci ha dato modo di
diversificare gli approvvigionamenti energetici, ma che
perpetuare una guerra sta cominciando a danneggiare pesantemente soprattutto
l’Europa. Al momento, assistiamo solo alle
spese militari di cui nessuno fornisce un
rendiconto, ma aumentano come la distruzione e la miseria. Inoltre, troppi
Paesi extra-Ue, che non sono legati a strategie del genere, nel frattempo
crescono e
conquistano mercati, spesso insensibili alle
tematiche ambientali e con gravi danni per il pianeta, rendendo così
nulle le
scelte europee. Ecco, dunque, spiegate le decisioni di
Berlino, con i suoi
scostamenti di bilancio e il relativo
aumento del debito: la
Germania, semplicemente,
può permetterselo. E lo aveva già fatto ai tempi della
riunificazione con la
Ddr. Qualcuno con lo
'sguardo lungo', vivaddio,
esiste: è
l’Italia, invece, ad avere il
‘portafoglio corto’.