Ci vediamo
costretti a chiarire a
lettrici e
lettori perché sarebbe il caso che il nostro
parlamento ratificasse il famoso
Mes (Meccanismo europeo di stabilita, ndd), poiché stanno circolando, da più parti,
messaggi fuorvianti. Il
Meccanismo europeo di stabilità venne creato nel
2012 attraverso un
trattato internazionale – e non come
atto unilaterale dell’Unione europea - perché inizialmente non tutti i
Paesi-membri della
Ue volevano partecipare all’accordo. E fu dotato di un capitale iniziale sottoscritto di circa
700 miliardi di euro (di cui solamente
80 vennero versati dagli
Stati membri che aderirono sin dall’inizio all’accordo) e della possibilità di finanziarsi emettendo
obbligazioni sui mercati. Ciò significa che il
Fondo monetario internazionale ha versato una propria
quota di capitalizzazione e non gli si può chiedere di avere un ruolo di mera
consulenza esterna, come si va dicendo con atteggiamenti da
‘Azzeccagarbugli’ funzionali a
prendere altro tempo per chiedere ulteriori modifiche, dato che gli Stati che hanno aderito sin dall'inizio hanno messo
meno risorse. Pertanto, la
triade dei soggetti istitutori, composta da
Fmi, Ue e
Bce, resta
confermata, altrimenti non ci sarebbe stato alcun bisogno di un
trattato. Ed è a dir poco
pazzesco chiedere una modifica in tal senso, oltretutto da parte di
Stati-membri che hanno
versato meno risorse rispetto alle altre parti. Il
Mes aveva, in origine, la funzione fondamentale di concedere
assistenza finanziaria con prestiti sottoposti a determinate condizioni verso
Stati-membri con difficoltà di accesso ai
mercati finanziari, ma con un debito pubblico sostenibile. Negli anni della
grande crisi finanziaria, esso ha fornito assistenza non solo alla
Grecia (il caso più controverso), ma anche a
Spagna, Portogallo, Irlanda e
Cipro: tutti Paesi
usciti brillantemente dalle loro difficoltà anche grazie all’assistenza del
Mes. Nel
2021 fu poi adottata, con un accodo sottoscritto anche dal
governo italiano, una prima limitata
riforma del Mes, con la quale veniva sostanzialmente prevista la possibilità di fornire una
rete di sicurezza finanziaria (il backstop) al fondo medesimo, a garanzia di una
risoluzione comune per le
banche. In pratica, è stata inserita un'ulteriore assicurazione circa la possibilità di
intervenire con uno strumento comune, al fine di contenere i
rischi di contagio nei casi di
crisi bancarie. Con la stessa riforma si sono anche parzialmente modificate le
condizioni di accesso all’assistenza finanziaria, introducendo una nuova linea di credito cosiddetta
‘precauzionale’. L’accordo su questa riforma è stato ormai ratificato non solo da tutti i
diciotto firmatari, ma anche dalla
Croazia, che nel frattempo ha aderito
all’euro. Mancherebbe solo la
ratifica italiana, senza la quale il
trattato in questione non può tecnicamente entrare in vigore. Fino a pochi mesi fa, il
Governo Meloni si era trincerato dietro l’attesa di una pronuncia nel merito della
Corte costituzionale tedesca. Ma nel frattempo, anch’essa si è pronunciata
a favore della ratifica da parte della
Germania. E non ci sono più
scuse valide per rinviare ulteriormente l’approvazione da parte del parlamento del
disegno di legge di ratifica. Ma allora, in cosa consiste il
problema? Perché solo in
Italia si continuano a manifestare
riserve e
perplessità su uno strumento che tutti gli altri membri
dell’Eurozona hanno sottoscritto e vogliono vedere
operativo? Perché tanta diffidenza per una riforma che, tra l’altro, potrebbe rivelarsi particolarmente
utile in una fase in cui si torna a paventare il rischio di
crisi bancarie, anche se non
sistemiche? Il motivo è sostanzialmente uno solo e ha a che fare con la difficoltà
dell’attuale esecutivo e della sua
maggioranza di smentire o rinnegare
prese di posizione pregresse, largamente ispirate da considerazioni
ideologiche. E di dover fare i conti con la
realtà e le
responsabilità che incombono su chi governa. Attualmente, la
ratifica del Mes non può essere ulteriormente
rinviata, per il semplice motivo che
l’Italia non può permettersi il lusso di bloccare una
riforma non solo sottoscritta da un suo precedente esecutivo, ma soprattutto
voluta da tutte le altre parti dell’accordo.
Ratificare la
riforma del Mes non significa
impegnarsi a chiedere in futuro l’assistenza del Fondo salva-Stati. E questo passaggio è talmente chiaro al governo che in più di un’occasione,
Giorgia Meloni, pur evitando di prendere una
posizione chiara sulla
ratifica, ha affermato, con tutta la determinazione del caso, che
l’Italia in nessuna circostanza chiederà i finanziamenti del
Mes. Il problema, pertanto, risiede negli
atteggiamenti, alquanto
forzati, non nel
passaggio parlamentare in sé. L'unica soluzione a questo
‘rebus’ consiste nell’accompagnare la nostra
ratifica parlamentare - anche semplicemente di tipo
‘tecnico’ - con una richiesta da parte del
parlamento italiano, il quale potrebbe, con un proprio
ordine del giorno, indirizzare il governo a impegnarsi a
non utilizzare il Mes in futuro. Tuttavia, sarebbe il caso di farlo
rapidamente, al fine di sgombrare il campo da possibili
equivoci o
fraintendimenti sulle intenzioni del
governo italiano. Meglio evitare di dare l’impressione di voler
prendere tempo, magari per ipotizzare una diversa
riforma del Mes: ci sono temi troppo importanti
nell’agenda dell’Ue per permetterci di rimanere in una situazione di
‘stallo’ su una questione ormai divenuta di
importanza secondaria. Ne va, ancora una volta, della
credibilità del Paese: una credibilità di cui avremmo molto bisogno per affrontare gli altri
dossier, molto più delicati e importanti, relativi ai nostri
veri interessi nazionali. Chiarito tutto questo, bisogna sottolineare che il tentativo di
condurre una trattativa con
atteggiamenti propagandistici non appartiene alle
regole diplomatiche tra gli Stati: porre oggi
l'Italia in una posizione
ricattatoria significa solamente non calcolare che
non siamo in una posizione di forza su nessun genere di aiuto di cui abbiamo bisogno. Sollevare
‘cavilli’ quando non si è nella condizione di farlo significa trincerarsi dietro un
mero atteggiamento, per motivi di visibilità propagandistica. Quindi, non ci si venga a dire che il
Governo Meloni, da sempre molto critico nei confronti della
Ue, vorrebbe
tutelare i diritti dei popoli europei, perché ciò
non è affatto vero. Questo tipo di
politica ‘politicante’, incapace di mantenere in debito conto la
realpolitik, non appartiene alla cultura del
liberalismo mittle-europeo, bensì a una
subcultura, tutta italiana, del
‘self made man’ fatto in casa, forte con i deboli e debole con i forti. Il
Trattato istitutivo dell'Unione europea, firmato a
Maastricht nel
1991, rappresentava una
prima ‘base’ per ogni futura
integrazione tra gli Stati, i quali hanno
tutti degli obblighi, a cominciare dal rispetto dello
Stato di diritto nel regolare i propri rapporti interni con i
popoli sulla base dei principi di
solidarietà e
inclusione. Non tutti rispettano tale
condizione, ma quello di
un'integrazione europea è un
processo dinamico e
graduale, a cui potranno aggiungersi, in futuro, nuovi organismi, come un
bilancio comune, un
esercito europeo e tutto il resto. Considerare la
Ue una
mera somma di Trattati istitutivi significa non riconoscere una direzione di marcia già stabilita
da più di 30 anni. E se non si riconosce questo, l'obiezione di una
Ue non ancora completata
non ha senso, dato che siamo noi, all’improvviso, a voler
complicare il percorso. Sappiamo tutti quanti che il
processo integrativo è solamente avviato e non completato. Ma volerlo interrompere in base a
considerazioni populiste, tendenti a suggerire un
rapporto inesistente tra
democrazia e popoli, che invece sarebbero dominati da
oligarchie tecnocratiche, è pura
demagogia. Le
elezioni europee si svolgono ogni
5 anni e si susseguono regolarmente. E non può esistere nessuna
democrazia rappresentativa se non si riconosce, oltre
all'ente-comunità, anche un
ente-governo giuridicamente inteso, composto dal
parlamento di
Bruxelles, dalla
Commissione europea, dal
Consiglio d’Europa e dagli altri
organi giurisdizionali, come le varie
Corti di giustizia europee. In caso contrario, si rimane nel campo
dell'estremismo ideologico delle
culture autarchiche e non in quello delle
società aperte. A meno che non s'intenda teorizzare per la
Ue un'altra forma di
democrazia, come per esempio quella
diretta: un’opzione alquanto
utopica, funzionante solo in
singoli Stati di
ridotte dimensioni, come per esempio la
Svizzera. Insomma, se le obiezioni sono
puramente ideologiche, si abbia per lo meno la correttezza di
dirlo espressamente. Ma porre la questione dall'oggi all'oggi sulla
'pelle' del Paese, non solo non risponde agli
interessi dell'Italia, ma appare alquanto
‘bislacco’, per non dire
irresponsabile. Un atteggiamento
contagioso, da quanto si è visto in questi ultimi anni, ma anche
prodromico di disastri.
(articolo tratto dalla rubrica settimanale Giustappunto! pubblicata su www.gaiaitalia.com)