Vittorio LussanaCi vediamo costretti a chiarire a lettrici e lettori perché sarebbe il caso che il nostro parlamento ratificasse il famoso Mes (Meccanismo europeo di stabilita, ndd), poiché stanno circolando, da più parti, messaggi fuorvianti. Il Meccanismo europeo di stabilità venne creato nel 2012 attraverso un trattato internazionale e non come atto unilaterale dell’Unione europea - perché inizialmente non tutti i Paesi-membri della Ue volevano partecipare all’accordo. E fu dotato di un capitale iniziale sottoscritto di circa 700 miliardi di euro (di cui solamente 80 vennero versati dagli Stati membri che aderirono sin dall’inizio all’accordo) e della possibilità di finanziarsi emettendo obbligazioni sui mercati. Ciò significa che il Fondo monetario internazionale ha versato una propria quota di capitalizzazione e non gli si può chiedere di avere un ruolo di mera consulenza esterna, come si va dicendo con atteggiamenti da ‘Azzeccagarbugli’ funzionali a prendere altro tempo per chiedere ulteriori modifiche, dato che gli Stati che hanno aderito sin dall'inizio hanno messo meno risorse. Pertanto, la triade dei soggetti istitutori, composta da Fmi, Ue e Bce, resta confermata, altrimenti non ci sarebbe stato alcun bisogno di un trattato. Ed è a dir poco pazzesco chiedere una modifica in tal senso, oltretutto da parte di Stati-membri che hanno versato meno risorse rispetto alle altre parti. Il Mes aveva, in origine, la funzione fondamentale di concedere assistenza finanziaria con prestiti sottoposti a determinate condizioni verso Stati-membri con difficoltà di accesso ai mercati finanziari, ma con un debito pubblico sostenibile. Negli anni della grande crisi finanziaria, esso ha fornito assistenza non solo alla Grecia (il caso più controverso), ma anche a Spagna, Portogallo, Irlanda e Cipro: tutti Paesi usciti brillantemente dalle loro difficoltà anche grazie all’assistenza del Mes. Nel 2021 fu poi adottata, con un accodo sottoscritto anche dal governo italiano, una prima limitata riforma del Mes, con la quale veniva sostanzialmente prevista la possibilità di fornire una rete di sicurezza finanziaria (il backstop) al fondo medesimo, a garanzia di una risoluzione comune per le banche. In pratica, è stata inserita un'ulteriore assicurazione circa la possibilità di intervenire con uno strumento comune, al fine di contenere i rischi di contagio nei casi di crisi bancarie. Con la stessa riforma si sono anche parzialmente modificate le condizioni di accesso all’assistenza finanziaria, introducendo una nuova linea di credito cosiddetta ‘precauzionale’. L’accordo su questa riforma è stato ormai ratificato non solo da tutti i diciotto firmatari, ma anche dalla Croazia, che nel frattempo ha aderito all’euro. Mancherebbe solo la ratifica italiana, senza la quale il trattato in questione non può tecnicamente entrare in vigore. Fino a pochi mesi fa, il Governo Meloni si era trincerato dietro l’attesa di una pronuncia nel merito della Corte costituzionale tedesca. Ma nel frattempo, anch’essa si è pronunciata a favore della ratifica da parte della Germania. E non ci sono più scuse valide per rinviare ulteriormente l’approvazione da parte del parlamento del disegno di legge di ratifica. Ma allora, in cosa consiste il problema? Perché solo in Italia si continuano a manifestare riserve e perplessità su uno strumento che tutti gli altri membri dell’Eurozona hanno sottoscritto e vogliono vedere operativo? Perché tanta diffidenza per una riforma che, tra l’altro, potrebbe rivelarsi particolarmente utile in una fase in cui si torna a paventare il rischio di crisi bancarie, anche se non sistemiche? Il motivo è sostanzialmente uno solo e ha a che fare con la difficoltà dell’attuale esecutivo e della sua maggioranza di smentire o rinnegare prese di posizione pregresse, largamente ispirate da considerazioni ideologiche. E di dover fare i conti con la realtà e le responsabilità che incombono su chi governa. Attualmente, la ratifica del Mes non può essere ulteriormente rinviata, per il semplice motivo che l’Italia non può permettersi il lusso di bloccare una riforma non solo sottoscritta da un suo precedente esecutivo, ma soprattutto voluta da tutte le altre parti dell’accordo. Ratificare la riforma del Mes non significa impegnarsi a chiedere in futuro l’assistenza del Fondo salva-Stati. E questo passaggio è talmente chiaro al governo che in più di un’occasione, Giorgia Meloni, pur evitando di prendere una posizione chiara sulla ratifica, ha affermato, con tutta la determinazione del caso, che l’Italia in nessuna circostanza chiederà i finanziamenti del Mes. Il problema, pertanto, risiede negli atteggiamenti, alquanto forzati, non nel passaggio parlamentare in sé. L'unica soluzione a questo ‘rebus’ consiste nell’accompagnare la nostra ratifica parlamentare - anche semplicemente di tipo ‘tecnico’ - con una richiesta da parte del parlamento italiano, il quale potrebbe, con un proprio ordine del giorno, indirizzare il governo a impegnarsi a non utilizzare il Mes in futuro. Tuttavia, sarebbe il caso di farlo rapidamente, al fine di sgombrare il campo da possibili equivoci o fraintendimenti sulle intenzioni del governo italiano. Meglio evitare di dare l’impressione di voler prendere tempo, magari per ipotizzare una diversa riforma del Mes: ci sono temi troppo importanti nell’agenda dell’Ue per permetterci di rimanere in una situazione di ‘stallo’ su una questione ormai divenuta di importanza secondaria. Ne va, ancora una volta, della credibilità del Paese: una credibilità di cui avremmo molto bisogno per affrontare gli altri dossier, molto più delicati e importanti, relativi ai nostri veri interessi nazionali. Chiarito tutto questo, bisogna sottolineare che il tentativo di condurre una trattativa con atteggiamenti propagandistici non appartiene alle regole diplomatiche tra gli Stati: porre oggi l'Italia in una posizione ricattatoria significa solamente non calcolare che non siamo in una posizione di forza su nessun genere di aiuto di cui abbiamo bisogno. Sollevare ‘cavilli’ quando non si è nella condizione di farlo significa trincerarsi dietro un mero atteggiamento, per motivi di visibilità propagandistica. Quindi, non ci si venga a dire che il Governo Meloni, da sempre molto critico nei confronti della Ue, vorrebbe tutelare i diritti dei popoli europei, perché ciò non è affatto vero. Questo tipo di politica ‘politicante’, incapace di mantenere in debito conto la realpolitik, non appartiene alla cultura del liberalismo mittle-europeo, bensì a una subcultura, tutta italiana, del ‘self made man’ fatto in casa, forte con i deboli e debole con i forti. Il Trattato istitutivo dell'Unione europea, firmato a Maastricht nel 1991, rappresentava una prima ‘base’ per ogni futura integrazione tra gli Stati, i quali hanno tutti degli obblighi, a cominciare dal rispetto dello Stato di diritto nel regolare i propri rapporti interni con i popoli sulla base dei principi di solidarietà e inclusione. Non tutti rispettano tale condizione, ma quello di un'integrazione europea è un processo dinamico e graduale, a cui potranno aggiungersi, in futuro, nuovi organismi, come un bilancio comune, un esercito europeo e tutto il resto. Considerare la Ue una mera somma di Trattati istitutivi significa non riconoscere una direzione di marcia già stabilita da più di 30 anni. E se non si riconosce questo, l'obiezione di una Ue non ancora completata non ha senso, dato che siamo noi, all’improvviso, a voler complicare il percorso. Sappiamo tutti quanti che il processo integrativo è solamente avviato e non completato. Ma volerlo interrompere in base a considerazioni populiste, tendenti a suggerire un rapporto inesistente tra democrazia e popoli, che invece sarebbero dominati da oligarchie tecnocratiche, è pura demagogia. Le elezioni europee si svolgono ogni 5 anni e si susseguono regolarmente. E non può esistere nessuna democrazia rappresentativa se non si riconosce, oltre all'ente-comunità, anche un ente-governo giuridicamente inteso, composto dal parlamento di Bruxelles, dalla Commissione europea, dal Consiglio d’Europa e dagli altri organi giurisdizionali, come le varie Corti di giustizia europee. In caso contrario, si rimane nel campo dell'estremismo ideologico delle culture autarchiche e non in quello delle società aperte. A meno che non s'intenda teorizzare per la Ue un'altra forma di democrazia, come per esempio quella diretta: un’opzione alquanto utopica, funzionante solo in singoli Stati di ridotte dimensioni, come per esempio la Svizzera. Insomma, se le obiezioni sono puramente ideologiche, si abbia per lo meno la correttezza di dirlo espressamente. Ma porre la questione dall'oggi all'oggi sulla 'pelle' del Paese, non solo non risponde agli interessi dell'Italia, ma appare alquanto ‘bislacco’, per non dire irresponsabile. Un atteggiamento contagioso, da quanto si è visto in questi ultimi anni, ma anche prodromico di disastri.




(articolo tratto dalla rubrica settimanale Giustappunto! pubblicata su www.gaiaitalia.com)

Lascia il tuo commento

Nessun commento presente in archivio