Il
25 maggio scorso, ha fatto il giro del
web il video di una
trans brutalmente
pestata dalle forze dell'ordine a
Milano, in zona
Bocconi. In
flagranza di reato davanti a un edificio scolastico avrebbe scoperto i genitali e minacciato tutti i presenti di voler contagiare loro di
Hiv, patologia di cui è infetta. Sono stati i vigili urbani a prelevarla, allontanarla dalla pubblica piazza e a
‘contenere’ la sua crisi. Ma si devono aggiungere diversi dettagli, per completare il quadro:
1) la donna è
brasiliana, come nel migliore dei
cliché; 2) si tratta di una persona priva del
permesso di soggiorno; 3) ha
precedenti penali, soprattutto di resistenza a pubblico ufficiale;
4) dettaglio meno discusso e quasi rimosso, ha problemi
psichiatrici. Come ogni volta, quando ci sono di mezzo i
bambini, l'opinione pubblica - e non solo - si assesta su
posizioni securitarie: deve essere fatto
"tutto ciò che è necessario" per preservare l'innocenza dei bambini. Impossibile non cogliere
l'eco evangelica della versione sociale del
“whatever it takes” draghiano. L'aspetto securitario si rafforza per le sue connotazioni riguardanti
l'identità della colpevole:
trans, brasiliana, infetta da
Hiv, già
nota al
sistema penitenziario e
clandestina. Cosa aspetta la giustizia a rinchiuderla in cella e a
buttar via la chiave? Varrebbe la pena discutere
dell'eccesso di violenza da parte delle
forze dell'ordine, che purtroppo rispecchiano buona parte del
sentire comune. Poi, in questo caso specifico, la donna ha la colpa di essere
clandestina. Solo chi è
estremamente superficiale non si rende conto di quanto sia complesso far convivere i
diritti dell'individuo, che appartengono a ogni essere umano a prescindere se si trovi nella sua patria oppure no, con gli
interessi legittimi dei cittadini e
dell'ordine pubblico. In questo particolare caso, la vittima del pestaggio dei vigili urbani è anche un
trans, con tutto ciò che comporta, in un Paese come
l'Italia, l'accettazione da parte dell'opinione pubblica della semplice
esistenza di persone che non rientrano in un'identificazione di genere
‘binaria’. Sarebbe da valutare l'incidenza di
malattie psichiatriche sugli
‘invisibili’ in generale, che esistono quasi soltanto negli
onori di cronaca quando compiono
azioni eclatanti di questo tipo. Chi vive in periferia di qualunque grande città, almeno una volta nella sua vita ha assistito a un
Tso (trattamento sanitario obbligatorio,
ndr) di un
marginalizzato. Difficilmente il
‘terzo settore’ riesce a farsi carico di loro: servono
competenze e
strutture altamente specializzate per occuparsi del loro
disagio. Ma
questione securitaria e
questione sanitaria si intrecciano, perché sono divise solo in teoria e non nella pratica, almeno in questo caso. La strada più semplice, che tiene conto del fatto che le due questioni sono
unite, comporterebbe
tornare indietro di 50 anni e riaprire i
manicomi, con tutto quel che erano e che hanno rappresentato per le
democrazie occidentali: una sorta di
‘discarica’ in cui veniva dimenticata ogni
devianza. Una piena attuazione della
legge Basaglia avrebbe previsto
strutture e
locali in grado di coprire, in modo capillare, tutto il territorio per prendersi cura dei
disagi psichici. Persino una versione istituzionalizzata della
società della cura, in cui si portano a norma i
sintomi di una malattia senza scendere alla radice di un
disagio, sarebbe qualcosa di migliore del
nulla di fatto che c’è oggi. Se si escludono le sezioni del sistema carcerario denominate
‘Articolazioni per la salute mentale’ e i
‘Centri di riabilitazione psichiatrica’, la maggior parte delle
patologie della mente riescono a trovare una forma di cura fuori da strutture specifiche. Certo è, che il progressivo
impoverimento degli
strati sociali implica una
minore capacità di accedere alla cura, persino in un sistema sanitario nazionale pubblico come quello italiano. Essere cittadini, e rigorosamente caucasici,
ancora aiuta. Ma se sei una
donna ‘trans’, clandestina e con
problemi psichiatrici, vieni presa gratuitamente a
manganellate dai
vigili urbani per
atti osceni in luogo pubblico. Reato, peraltro,
smentito dalla procura. Dunque, la colpa è solo quella di essere diventata
‘visibile’, invece che rimanere
invisibile.