DIRETTIVE ANTICIPATE DI TRATTAMENTO
1 Premessa
Oggetto di questo documento è un tema la cui rilevanza è andata costantemente crescendo negli ultimi anni e che, nella letteratura bioetica nazionale e internazionale, viene per lo più indicato con l’espressione inglese
living will, variamente tradotta con differenti espressioni quali:
testamento biologico, testamento di vita, direttive anticipate, volontà previe di trattamento ecc.
Tali diverse denominazioni fanno riferimento, in una prima approssimazione,
a un documento con il quale una persona, dotata di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidererebbe o non desidererebbe essere sottoposta nel caso in cui, nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato. Di questi documenti si discutono in letteratura le diverse possibili tipologie (alcune delle quali hanno ottenuto in alcuni paesi un riconoscimento giuridico). Qui è opportuno citare espressamente almeno le tre principali, che possono naturalmente – ma non necessariamente - intrecciarsi tra loro:
a) il testamento biologico o living will (propriamente detti);
b) la procura sanitaria (durable power of attorney), cioè il documento col quale un soggetto, nella previsione di una sua futura incapacità, designa un suo rappresentante affinché assuma per suo conto e in suo favore, ove l’incapacità realmente si concretizzi, le decisioni sui trattamenti;
c) la storia o “anamnesi” dei valori, un documento al quale la persona affida (in forma narrativa, o comunque attraverso l’espressione dei suoi desideri e dei suoi atteggiamenti nei confronti di possibili scenari di fine vita) le informazioni essenziali sui valori ai quali ha improntato la sua vita e, in generale, sulla sua visione del mondo.
Per far acquisire rilievo pubblico (anche se non necessariamente legale) a questi documenti è auspicabile che essi siano redatti per iscritto, che non possa sorgere alcun dubbio sulla identità e sulla capacità di chi li sottoscrive, sulla loro autenticità documentale e sulla data della sottoscrizione e che siano eventualmente controfirmati da un medico, che garantisca di aver adeguatamente informato il sottoscrittore in merito alle possibili conseguenze delle decisioni da lui assunte nel documento. E’ opportuno inoltre che il documento indichi una scadenza temporale al termine della quale il sottoscrittore debba confermarlo e/o rinnovarlo, pena la perdita di ogni sua validità. E’ inoltre da ritenere che debba spettare esclusivamente alla decisione di chi compila tali documenti stabilire le modalità della loro conservazione, il numero di copie autentiche da produrre e l’individuazione dei soggetti ai quali affidarli per la custodia e per la loro eventuale esibizione e utilizzazione. E’ infine opportuno che i sottoscrittori stabiliscano, ove tali documenti vengano poi effettivamente utilizzati nei loro confronti, se il loro contenuto possa essere reso di dominio pubblico.
2 Testi di riferimento
Il CNB non ha in precedenza dedicato al tema delle direttive anticipate uno specifico documento. Tuttavia, utili riferimenti a questo tema sono contenuti in precedenti documenti del Comitato dedicati a tematiche connesse, come ad es. nel documento
Informazione e consenso all’atto medico. Particolarmente rilevante però è la trattazione contenuta nel terzo capitolo del documento
Questioni bioetiche sulla fine della vita umana, approvato dal CNB il 14 luglio 1995: questa trattazione verrà richiamata nel contesto dei prossimi paragrafi, anche al fine di individuare i punti sui quali il presente documento intende ulteriormente soffermarsi, anche alla luce della più recente riflessione bioetica e di rilevanti novità biogiuridiche.
Tra queste va innanzi tutto segnalata la
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, da cui emerge come il consenso libero e informato del paziente all’atto medico non debba più essere visto soltanto come un requisito di liceità del trattamento, ma vada considerato prima di tutto alla stregua di un vero e proprio
diritto fondamentale del cittadino europeo, afferente al più generale
diritto all’integrità della persona (titolo I. Dignità, art. 3. Diritto all’integrità personale). In modo più specificamente attinente al tema in esame, va altresì ricordata l’avvenuta ratifica da parte del Parlamento Italiano della
Convenzione sui diritti umani e la biomedicina (L. 28 marzo 2001, n. 145), già firmata a Oviedo il 4 aprile 1997. Ribadendo la centralità della tutela della dignità e identità della persona, la
Convenzione attribuisce, all’art. 9, particolare rilievo
ai desideri precedente espressi dal paziente, stabilendo come essi debbano essere
presi in considerazione (“pris en compte”). Si osservi, inoltre, che prima ancora dell’approvazione della legge di ratifica della
Convenzione, il principio dell’art. 9 era già stato accolto, nel 1998, dal
Codice di deontologia medica italiano, che all’art. 34, sotto l’incisiva rubrica
Autonomia del cittadino, dispone: “Il medico deve attenersi, nel rispetto della dignità, della libertà e dell’indipendenza professionale, alla volontà di curarsi liberamente espressa dalla persona. Il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita, non può non tener conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso”. Si deve a tal proposito notare che la formula “non può non tener conto” appare rafforzativa nel rispetto della volontà del paziente in confronto alla formula adottata dall’art. 9 della
Convenzione europea; al tempo stesso, tuttavia, l’estensione di questa previsione viene limitata alla
volontà di curarsi e al caso di
grave pericolo di vita, mentre l’art.9 della
Convenzione – come precisa il punto 61 del Rapporto esplicativo- è mirato a coprire “non solo le emergenze cui si riferisce l’art.8, ma anche le situazioni in cui gli individui hanno previsto che potrebbero essere incapaci di dare il loro valido consenso, per esempio nel caso di una malattia progressiva come la demenza senile”. A parte ciò non si può non apprezzare la sollecitudine con quale la
FNOMCeO aggiorna (e non da ora) la guida comportamentale dei medici italiani ai nuovi indirizzi in materia di protezione dei diritti dei cittadini malati.
3 Le direttive anticipate alla luce dell’art. 9 della Convenzione di Oviedo
Lo sfondo culturale che rende non più rinviabile una approfondita riflessione, non solo bioetica, ma anche
biogiuridica, sul living will è, quindi, rappresentato dall’esigenza di dare piena e coerente attuazione allo spirito della
Convenzione europea sui diritti umani e la biomedicina, garantendo la massima tutela possibile alla dignità e integrità della persona in tutte quelle situazioni in cui le accresciute possibilità aperte dall’ evoluzione della medicina potrebbero ingenerare dubbi, non solo scientifici, ma soprattutto
etici, sul tipo di trattamento sanitario da porre in essere in presenza di affidabili dichiarazioni di volontà formulate dal paziente prima di perdere la capacità naturale. Anche nell’intento di rispettare il più fedelmente possibile il dettato normativo della
Convenzione europea di bioetica, il CNB decide di adottare nel presente documento l’espressione
direttive anticipate di trattamento, per indicare le varie forme di autodeterminazione che possono essere ricondotte entro ad un atto compatibile con il modello etico e giuridico espresso dall’art. 9 della
Convenzione.
Come già in precedenza affermato dal CNB, la “più ampia partecipazione dei cittadini nelle decisioni che li riguardano” si applica a tutto l’arco del processo di cura ed è particolarmente richiesta quando il soggetto potrebbe essere privato delle facoltà cognitive e della stessa coscienza, trovandosi così a dipendere interamente dalla volontà di altri. Queste situazioni appaiono particolarmente drammatiche quando l’intervento potrebbe mettere in discussione la vita o la qualità della vita.
Le direttive anticipate di trattamento tendono a favorire una socializzazione dei momenti più drammatici dell’esistenza e ad evitare che l’ eventuale incapacità del malato possa indurre i medici a considerarlo, magari inconsapevolmente e contro le loro migliori intenzioni, non più come una
persona, con la quale concordare il programma terapeutico ottimale, ma soltanto come un
corpo, da sottoporre a anonimo trattamento. A tal fine è opportuno fornire ai medici, al personale sanitario e ai familiari elementi conoscitivi che li aiutino a prendere decisioni che siano sempre in sintonia con la volontà e le preferenze della persona da curare. Si può dunque ben dire – come già osservava il CNB nel documento sopra ricordato sulla
Fine della vita umana - che le varie forme di direttive anticipate “si iscrivono in un positivo processo di adeguamento della nostra concezione dell’atto medico ai principi di autonomia decisionale del paziente”.
Tuttavia, le direttive non possono essere intese soltanto come un’estensione della cultura che ha introdotto, nel rapporto medico-paziente, il modello del consenso informato, ma hanno anche il compito, molto più delicato e complesso, di rendere possibile un rapporto
personale tra il medico e il paziente proprio in quelle situazioni estreme in cui non sembra poter sussistere alcun legame tra la solitudine di chi non può esprimersi e la solitudine di chi deve decidere. La finalità fondamentale delle direttive è, quindi, quella di fornire uno strumento per recuperare al meglio, nelle situazioni di incompetenza decisionale, il ruolo che ordinariamente viene svolto dal dialogo informato del paziente col medico e che porta il primo, attraverso il processo avente per esito l’espressione del consenso (o del dissenso), a rendere edotto il medico di ogni elemento giudicato significativo al fine di far valere i diritti connessi alla tutela della salute e, più in generale, del bene integrale della persona. E’ come se, grazie alle direttive anticipate, il dialogo tra medico e paziente idealmente continuasse anche quando il paziente non possa più prendervi consapevolmente parte. Nell’affermare questo, il CNB intende anche sottolineare, da un lato, che le direttive anticipate assegnano al medico e al personale sanitario un compito valutativo reso assai complesso dall’impossibilità materiale di interazione col paziente, un compito, tuttavia, che ne esalta l’autonomia professionale (ma anche la dimensione umanistica); e, dall’altro, che le direttive anticipate non devono in alcun modo essere intese come una pratica che possa indurre o facilitare logiche di
abbandono terapeutico, neppure in modo indiretto: infatti, le indicazioni fornite dal paziente, anche quando espresse (come è in parte inevitabile) in forma generale e standardizzata, non possono mai essere applicate burocraticamente e ottusamente, ma chiedono sempre di essere calate nella realtà specifica del singolo paziente e della sua effettiva situazione clinica.
Per concludere sul punto, dunque, si può ben affermare che, pur essendo numerosi e complessi i problemi bioetici sollevati dalle direttive anticipate, sul piano etico non esistono radicali obiezioni di principio nei loro confronti, anche se differenti possono essere le motivazioni e gli argomenti che le differenti teorie etiche formulano a sostegno delle proprie posizioni. La letteratura successiva al 1995 non ha portato novità rilevanti su questo punto e il CNB è concorde nel confermare l’attualità del giudizio da esso formulato nel già ricordato documento del 1995.
A fronte di questo consenso di principio, possono però, come si è appena accennato, essere avanzati vari dubbi e varie riserve in ordine alla struttura e alle modalità di attuazione delle direttive anticipate, che finiscono per assumere inevitabilmente una rilevante incidenza etica. Senza pretendere di esaurire l’ampia gamma di problematiche che sono emerse in un dibattito ormai più che trentennale, in questo documento ci si soffermerà su quattro temi la cui analisi appare imprescindibile al fine della introduzione di una prassi accettabile. Questi quattro temi possono essere così riassunti:
A) Come evitare il carattere “astratto” delle direttive anticipate e le inevitabili “ambiguità” dovute al linguaggio con cui vengono formulate, in specie quando il paziente non si faccia assistere, nella loro redazione, da un medico o da altro soggetto dotato di specifica competenza?
B) Quali indicazioni operative possono essere contenute in questi documenti?
C) Quale affidabilità può riconoscersi alle direttive? Quale vincolatività esse devono possedere per il medico dal punto di vista deontologico e giuridico?
D) A quali strumenti è opportuno ricorrere per implementare, qualora ciò appaia desiderabile, le direttive anticipate?
4 Astrattezza e ambiguità delle direttive anticipate
Uno dei rilievi più frequentemente mossi alle direttive anticipate riguarda
l’astrattezza di cui questi documenti inevitabilmente soffrirebbero, un’astrattezza e genericità dovuta alla
distanza, psicologica e temporale, tra la condizione in cui la direttiva viene redatta e la situazione reale di malattia in cui essa dovrebbe essere applicata. Questo rilievo ha maggior ragione d’essere quando si osservi che c’è un senso in cui sarebbe persino augurabile che la redazione delle direttive anticipate avvenga nel tempo in cui la persona è non solo nel pieno possesso delle sue facoltà decisionali, ma anche in buona salute, al riparo dallo stress provocato dall’insorgere della malattia e/o dall’ammissione in ospedale. In tal modo, infatti, la stessa decisione di redigere (o di rinunciare a redigere) le direttive anticipate – ovviamente non pensate come un mero atto burocratico – può diventare momento importante di riflessione sui propri valori, la propria concezione della vita e sul significato della morte come segno dell’umana finitezza, contribuendo così ad evitare quella “rimozione della morte”, che molti stigmatizzano come uno dei tratti negativi della nostra epoca e della nostra cultura.
Comunque, anche se, come è ovvio, non è possibile stabilire in astratto quale sia il momento più appropriato per redigere le direttive anticipate, le preoccupazioni per l’astrattezza dovuta alla distanza di tempo e di situazioni possono essere mitigate dalla previsione che la persona può in ogni momento revocare le sue precedenti volontà, o modificarle in riferimento agli eventuali mutamenti nella percezione della propria condizione esistenziale determinati dall’esperienza concreta della malattia. In quest’ultimo caso – e anche indipendentemente da precedenti redazioni – le direttive anticipate possono utilmente assumere la forma nota come “pianificazione sanitaria anticipata”
(advanced health care planning) o “pianificazione anticipata delle cure”. E’ fuor di dubbio che molti ardui problemi decisionali di terapia e di trattamento possono essere, se non risolti, almeno attenuati da questo tipo di documenti, che vengono formulati nell’attualità delle prime fasi della malattia e trovano specifica applicazione soprattutto in relazione a particolari patologie a lenta evoluzione (AIDS, morbo di Alzheimer, malattie tumorali), il cui decorso tipico è sufficientemente conosciuto e per le quali, in base alle correnti conoscenze mediche, esistono diverse opzioni diagnostico-terapeutiche, nessuna delle quali prevalente in assoluto su altre, ma ciascuna caratterizzata da particolari benefici riconnessi con particolari oneri e tale quindi da esigere una valutazione di complessivo bilanciamento, che non può non spettare, almeno prima facie, se non al paziente stesso.
E’ evidente che per quanto una redazione meditata e consapevole delle direttive anticipate possa ridurne in modo significativo il carattere
astratto, è comunque da escludere che questa astrattezza possa essere del tutto evitata. E’ questo già un primo e decisivo argomento (ma non certo l’unico) contro una rigida vincolatività delle direttive anticipate, che, anche se redatte con estremo scrupolo, potrebbero rivelarsi non calibrate sulla situazione esistenziale reale nella quale il paziente potrebbe venire a trovarsi.
5 Il fiduciario
Un ulteriore rilievo spesso avanzato nel dibattito sulle direttive anticipate riguarda il loro linguaggio e la loro competenza. Poiché, si osserva, resta assai difficile per il paziente definire in maniera corretta le situazioni cliniche in riferimento alle quali intende fornire le direttive, questa situazione può essere fonte di ambiguità nelle indicazioni e, quindi, di dubbi nel momento della loro applicazione. Questo rilievo tocca un problema particolarmente spinoso e, se venisse portato all’ estremo – se cioè lo si utilizzasse nel senso di ritenere che l’accettabilità delle direttive anticipate debba dipendere da una loro assoluta precisione di linguaggio o da una assoluta capacità in chi le formuli di prevedere i dettagli delle situazioni di riferimento - toglierebbe ogni valenza bioetica e soprattutto pratica alle direttive: ma sarebbe questa una conclusione eccessivamente drastica, che se venisse, per analogia, applicata ai grandi temi bioetici dell’informazione e del consenso, potrebbe svuotarli completamente di senso. Nessuno, peraltro, dovrebbe dimenticare l’antico avvertimento aristotelico, secondo cui non si dovrebbe mai esigere un grado di precisione maggiore di quello consentito dalla materia.
Altro grave problema, molto affine, ma non coincidente col precedente, è quello della concreta configurazione che a seguito dell’osservanza delle direttive acquisterebbe la decisione terapeutica del medico. Se tale decisione dovesse consistere in una fredda e formale adesione integrale alla lettera di quanto espresso nelle direttive, si verrebbe a determinare un automatismo che, anche in quanto non dialogico, finirebbe per indebolire, se non vanificare, il valore non solo etico, ma anche medico-terapeutico, della prassi medica e per potenziarne il carattere burocratico.
La tecnica ottimale individuata per risolvere queste difficoltà è quella della nomina da parte dell’estensore delle direttive di un
curatore o fiduciario. Questa figura è presente in molti dei modelli di direttive anticipate proposti in Italia e all’estero, alcuni dei quali già hanno ottenuto riconoscimento legale in diversi Stati. In particolare negli Stati Uniti, la direttiva di delega
(Durable power of attorney for health care nello Stato della California; Health care representative nello Stato dell’Oregon; Patient advocate for health care nello Stato del Michigan) costituisce la struttura portante di questi documenti, mentre le direttive vere e proprie vengono formulate sotto forma di limiti posti dal paziente all’azione del suo delegato.
I compiti attribuibili al
fiduciario possono essere molteplici, ma tutti riconducibili a quello generalissimo di operare, secondo le intenzioni esplicitate dal paziente nelle sue direttive anticipate, per farne conoscere e realizzare la volontà; a lui il medico dovrebbe comunicare le strategie terapeutiche che intendesse adottare nei confronti del malato, mostrandone la compatibilità con le sue direttive anticipate o – se questo fosse il caso - giustificando adeguatamente le ragioni per le quali egli ritenesse
doveroso (e non semplicemente opportuno) discostarsi da esse. Tra i principali compiti del
fiduciario va posto altresì quello di vigilare contro la concretissima possibilità di
abbandono del paziente, soprattutto terminale, da parte dei medici e della struttura sanitaria di accoglienza e questo – evidentemente - indipendentemente dal fatto che di
abbandono si faccia esplicitamente menzione nelle direttive. In questo quadro, la figura del fiduciario appare ben più ricca di quella del
power of attorney e assai vicina al ruolo che spesso già svolgono, o dovrebbero svolgere, in queste situazioni, i familiari, con la differenza essenziale, rispetto a costoro, di possedere – in virtù dell’esplicito mandato contenuto nelle direttive anticipate - un pieno e compiuto
diritto-dovere ad essere il concreto e ineludibile punto di riferimento del medico nelle sue pratiche terapeutiche a carico del paziente. In sintesi, spetterebbe al
fiduciario il compito di tutelare a tutto tondo la persona del paziente (a partire dalle direttive da questo formulate) prima ancora che quello di vigilare per la corretta e formale esecuzione
dell’atto in cui le direttive trovino incarnazione (ma naturalmente non dovrebbe esistere alcuna difficoltà di principio a far convergere l’uno e l’altro impegno).
E’ indubbio che la figura del fiduciario crea sottili problemi, che è doveroso evidenziare. Essa appare, in prima battuta, modellata sul paradigma normativo che regolano attualmente la protezione dei diritti e degli interessi del maggiorenne incapace. Tale riferimento è però largamente insoddisfacente ed inadeguato, poiché le misure di protezione (l’interdizione e l’inabilitazione e la successiva nomina di un tutore) previste dall’ordinamento per i maggiorenni incapaci rispecchiano una linea culturale più attenta alla cura del patrimonio e più funzionale agli interessi dei familiari o dei terzi che ai diritti e ai bisogni (non soltanto patrimoniali) della stessa persona incapace. Ciò spiega l’insistenza con cui si sostiene che sia assolutamente necessaria una legge, per introdurre nel nostro ordinamento la figura del
fiduciario, come fattispecie assolutamente nuova. Indipendentemente dall’accoglienza parlamentare che potranno ottenere queste istanze, si può comunque rilevare che esiste, rispetto alla precedente tendenza a tener ferma una netta differenziazione tra il settore degli interessi patrimoniali, dominati in pieno dalla disponibilità, e quello degli interessi personali, che attengono agli stati e alla capacità della persona, una significativa evoluzione del sistema giuridico, caratterizzata dall’idea che l’ ordinamento sia al servizio della libertà, non solo sul terreno degli interessi patrimoniali, e che si debbano fare passi notevoli per riportare nella sfera dell’ autonomia individuale la materia dei diritti attinenti alla persona, diritti che oggi alcuni giuristi chiamano “esistenziali” o che si ricollegano alla “privacy” e che toccano tutta la vicenda umana dalla nascita alla morte. E’ evidentemente nel quadro di questa evoluzione che potrebbe trovare collocazione come nuova la figura del
fiduciario, come del soggetto formalmente incaricato del compito di intervenire a tutela degli interessi sanitari e dei desideri precedentemente espressi da persona divenuta incompetente, qualora sorgessero dubbi sull’interpretazione e/o sull’attualità di tali desideri.
Il riconoscimento della legittimità, e per alcuni dell’opportunità, della nomina di un fiduciario lascia peraltro aperta la questione della esatta rilevanza etico-giuridica della sua funzione. Mentre è fuor di dubbio che le valutazioni del fiduciario in merito al trattamento da riservare al paziente divenuto incompetente acquistano una valenza etica per il fatto stesso che a lui e a lui soltanto l’autore delle direttive anticipate ha affidato questo delicatissimo compito, è da ritenere inopportuno che esse possano acquistare una forza giuridica vincolante. Come per ogni valutazione bioetica, quella del fiduciario deve aspirare a possedere
un’autorevolezza, più che un’autorità giuridicamente sanzionata, e i suoi compiti dovrebbero esclusivamente riassumersi nell’individuazione, in costante dialogo e confronto con i medici curanti, del miglior interesse del paziente divenuto incompetente, a partire dalle indicazioni lasciate da costui nelle sue direttive anticipate. Spetterebbe quindi al fiduciario vigilare perché il medico non cada nella tentazione di praticare alcuna forma di accanimento e concordare col medico la via concreta da seguire, nell’eventualità che si prospettino diverse, legittime opzioni diagnostiche e terapeutiche. Difficilmente, invece, si può ipotizzare che possa rientrare nei poteri del fiduciario quello di esigere la sospensione di terapie di sostegno vitale di carattere non straordinario, sia perché questo equivarrebbe a conferirgli un indebito potere direttivo sul medico, sia perché questo equivarrebbe a conferirgli né più né meno che il potere di decidere sulla sopravvivenza stessa del paziente, il potere cioè di disporre del bene-vita, che l’ordinamento giuridico ritiene del tutto indisponibile, anche da parte dello stesso malato. Ma in tal modo veniamo a toccare il delicato problema del contenuto delle direttive anticipate, che esige una riflessione meno sintetica.
6 I contenuti delle direttive anticipate
Se le direttive anticipate vanno collegate all’affermarsi di una cultura bioetica, che ha già efficacemente operato per l’introduzione del modello del consenso informato nella relazione medico-paziente, e per il superamento del
paternalismo medico, il loro ambito di rilievo coincide con quello in cui il paziente cosciente può esprimere un consenso o un dissenso
valido nei confronti delle indicazioni di trattamento che gli vengano prospettate. Il principio generale al quale il contenuto delle direttive anticipate dovrebbe ispirarsi può quindi essere così formulato:
ogni persona ha il diritto di esprimere i propri desideri anticipati in relazione a tutti i trattamenti terapeutici e a tutti gli interventi medici circa i quali può legittimamente esprimere la propria volontà attuale.
Da questa definizione appare subito evidente (ma mette conto sottolinearlo) che questo principio esclude che tra le direttive anticipate possano annoverarsi quelle che siano in contraddizione col diritto positivo, con le norme di buona pratica clinica, con la deontologia medica o che pretendano di imporre attivamente al medico pratiche per lui in scienza e coscienza inaccettabili. Né, evidentemente, attraverso le direttive anticipate, il paziente può essere legittimato a chiedere e ad ottenere interventi eutanasici a suo favore. Il fatto che spesso la consapevole rinuncia da parte del paziente a terapie di sostegno vitale (così come la rinuncia all’accanimento terapeutico) vengano indebitamente confuse con
l’eutanasia complica evidentemente il contesto problematico di questo discorso. Si aggiunga il fatto che l’ambiguità con cui in alcuni paesi sono state redatte o sono state interpretate in modo inaccettabilmente estensivo dai giudici leggi che hanno riconosciuto validità alle direttive anticipate contribuisce a rendere estremamente complessa la corretta analisi del punto in questione e ha favorito in molti settori della pubblica opinione l’idea che il riconoscimento della validità delle direttive anticipate equivalga alla legalizzazione dell’eutanasia. E’ per questa ragione che il CNB ritiene essenziale eliminare ogni equivoco e ribadire che il diritto che si vuol riconoscere al paziente di orientare i trattamenti a cui potrebbe essere sottoposto, ove divenuto incompetente,
non è un diritto all’eutanasia, ma esclusivamente il diritto a esigere da parte dei medici la sospensione o la non attivazione di pratiche terapeutiche, anche – nei casi più estremi e tragici - di sostegno vitale, pratiche che il paziente avrebbe il pieno diritto morale e giuridico di rifiutare, ove competente.
Tenendo tutto ciò per fermo, l’attenzione deve concentrarsi sui vari tipi di trattamenti ed interventi che, in linea di principio, risultano inclusi nel principio sopra enunciato. Pur senza impegnarsi in una completa analisi comparativa dei contenuti dei modelli di direttive anticipate già esistenti (e non volendo il CNB aggiungere ad essi un suo specifico modello, articolandone compiutamente i contenuti), è possibile identificare quattro tipi di disposizioni generalmente previste dalle direttive anticipate:
a) disposizioni sull’assistenza religiosa, sull’intenzione di donare o no gli organi per trapianti, sull’utilizzo del cadavere o parti di esso per scopi di ricerca e/o didattica;
b) disposizioni circa le modalità di umanizzazione della morte (cure palliative, richiesta di essere curato in casa o in ospedale ecc.);
c) disposizioni che riflettono le preferenze del soggetto in relazione al ventaglio delle possibilità diagnostico-terapeutiche che si possono prospettare lungo il decorso della malattia;
d) disposizioni finalizzate a richiedere formalmente la non attivazione di qualsiasi forma di accanimento terapeutico, cioè di trattamenti di sostegno vitale che appaiano però sproporzionati o ingiustificati;
e) disposizioni finalizzate a richiedere il non inizio o la sospensione di trattamenti terapeutici di sostegno vitale, che però non realizzino nella fattispecie indiscutibili ipotesi di accanimento (rianimazione, ventilazione meccanica, dialisi, chirurgia d’urgenza, terapie antibiotiche);
f) disposizioni finalizzate a richiedere la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale.
I primi due tipi di indicazioni non sollevano particolari problemi e possono essere formulate in modo sufficientemente preciso e tale da non ingenerare dubbi o difficoltà di sorta in coloro che dovranno dare ad esse esecuzione. Neppure il terzo tipo di indicazioni suscita specifiche difficoltà, in specie quando assume la forma della pianificazione anticipata delle cure e si mantiene nell’ambito delle opzioni diagnostico-terapeutiche prospettabili per il decorso di una specifica malattia. Nemmeno sul quarto tipo di disposizioni insistono controversie di ordine morale, data l’unanime e condivisa condanna dell’accanimento terapeutico.
Le ultime due ipotesi sono invece ampiamente controverse e lo è in modo particolare l’ultima, in specie se si considerano i significati simbolici che si addensano sull’alimentazione e sull’idratazione, anche se artificiali. Alcuni membri del CNB sostengono che al paziente va riconosciuta la facoltà di dare disposizioni anticipate circa la sua volontà (variamente motivabile, in relazione ai più intimi e insindacabili convincimenti delle persone) di accettare o rifiutare qualsiasi tipo di trattamento e di indicare le condizioni nelle quali la sua volontà deve trovare attuazione; e sottolineano la necessità che la redazione di tali disposizioni avvenga (o comunque sia oggetto di discussione) nel contesto del rapporto medico-paziente, in modo che il paziente abbia piena consapevolezza delle conseguenze che derivano dall’attuazione delle sue volontà. Altri membri del CNB ritengono, invece, che il potere dispositivo del paziente vada limitato esclusivamente a quei trattamenti che integrino, in varia misura, forme di accanimento terapeutico, perché sproporzionati o addirittura futili. Non rientrerebbero, a loro avviso, in tale ipotesi interventi di sostegno vitale di carattere non straordinario, né l’alimentazione né l’idratazione artificiale che costituirebbero invece, atti eticamente e deontologicamente doverosi.
Su questo ultimo punto, particolarmente controverso, in particolare per ciò che concerne malati in coma persistente, il CNB si riserva di intervenire con un ulteriore, apposito documento.
7 Affidabilità delle direttive anticipate
Se sulla apprezzabilità morale delle direttive anticipate esiste – supponendo risolti i problemi poco sopra evidenziati - un vasto consenso di principio, non altrettanto si può dire sul valore che a tali direttive sia da riconoscere dal punto di vista della deontologia medica e del diritto. Due sono qui, strettamente connessi, ma analiticamente distinguibili, i punti ai quali sopra si è già fatto rapido riconoscimento e che ora vanno messi esplicitamente in discussione:
a) quello della affidabilità di scelte formulate in un momento anteriore a quello in cui devono attuarsi;
b) quello del carattere per il medico vincolante o orientativo che a tali scelte debba o possa essere attribuito.
Sotto il primo profilo, si osserva che le direttive anticipate, che importano una protrazione di efficacia nel tempo della volontà del malato, evidentemente non assicurano il requisito della persistenza di tale volontà, ossia
dell’attualità di questa nel momento in cui concretamente si determinino le condizioni per cui il medico debba intervenire. Per tale ragione esse vengono spesso considerate con diffidenza da parte della dottrina penalistica, dal momento che non garantiscono l’attuazione della
reale volontà del paziente: il medico non avrebbe mai la certezza che le direttive pregiudizialmente espresse in determinate circostanze e condizioni personali (spesse volte di pieno benessere psico-fisico) corrispondano alle volontà che il paziente manifesterebbe, qualora fosse competente, nel momento in cui si rendesse necessaria la prestazione terapeutica. Si determinerebbe il rischio, per il paziente, di essere deprivato, per una scelta legale obiettivamente improvvida, di un ausilio indispensabile che egli fondatamente potrebbe desiderare qualora la sua volontà potesse confrontarsi con la situazione concreta, che potrebbe essere caratterizzata dalla sopravvenienza di nuove acquisizioni scientifiche, di nuove tecniche di trattamento, tali da rendere curabile – o comunque
diversamente curabile rispetto alle previsioni del paziente - una patologia precedentemente conosciuta come irrimediabile.
Si possono al riguardo elaborare due contro-argomentazioni.
La prima è la seguente: ove un soggetto, pur debitamente invitato a riflettere sui rischi ai quali sopra si è accennato, al fatto cioè che tutte le decisioni anticipate di trattamento possiedono inevitabilmente un carattere precario, contingente ed incerto, confermasse comunque la sua ferma volontà di redigerle, con la sua firma egli manifesterebbe senza equivoci l’intenzione di assumersi personalmente e pienamente, almeno sul piano etico, tale rischio. Trattandosi di un soggetto maggiorenne, autonomo, informato e competente, oltre che personalmente convinto dell’ opportunità per lui di redigere dichiarazioni anticipate, non si vede perché il rischio che egli coscientemente deciderebbe di correre dovrebbe operare nel senso di togliere validità alla sua volontà.
Si può, in secondo luogo, osservare che esigere che la manifestazione del consenso o del dissenso sia valida solo in presenza del requisito dell’attualità rispetto all’atto medico implica logicamente che la volontà del paziente abbia il diritto di essere rispettata fin tanto che costui, pienamente cosciente, sia in grado di ribadirla fino alla fine senza incertezze. Questo non crea alcuna difficoltà per quella che probabilmente resterà sempre l’assoluta maggior parte dei pazienti, quelli sinceramente intenzionati – nel caso in cui perdessero la competenza - a volersi affidare completamente alla competenza e alla saggezza del medico curante e alle sue conseguenti, insindacabili decisioni. Ma ne crea invece di significative, anzi di paradossali, per il caso di quei pazienti, che, avendo firmato un
living will, hanno dato esplicita prova di voler, con un consapevole esercizio della loro autonomia, contribuire a orientare le pratiche mediche e sanitarie da applicare nei loro confronti anche dopo la perdita da parte loro della competenza; per essi –e solo per essi- riprenderebbe spazio quel paternalismo medico, che essi ritengono inaccettabile e che comunque si ritiene non più conforme agli attuali indirizzi della bioetica, che affermano come prioritario il principio del rispetto per l’autonomia del paziente e della centralità della persona. Insomma, per eludere il rischio – indubbiamente grave - della sproporzione che sussiste tra il contenuto della decisione del paziente e il momento in cui essa viene elaborata, si correrebbe il rischio altrettanto grave di far violenza all’autonomia del malato. Da questa difficoltà si può uscire solo se si considera che il concetto dell’attualità esprime un requisito logico e non meramente cronologico-temporale e se si riflette come già il diritto positivo italiano (si consideri ad es. la legge sui trapianti di organi del 1999) abbia già da tempo aperto la strada –sia pure in un contesto non coincidente, ma analogo al nostro- all’accreditamento legale della volontà espressa, anche mediante il silenzio, dal soggetto in vita.
Si deve anche aggiungere che, nel caso delle direttive anticipate, come in quello di qualsiasi altra forma di espressione previa della volontà, vale il principio secondo il quale la persona conserva il diritto di revocare o modificare la propria volontà fino all’ultimo momento precedente la perdita della consapevolezza: resta fermo, tuttavia, che a quel punto la volontà nota e implicitamente o esplicitamente confermata va assunta come
ultima volontà valida del paziente, non essendo a nessuno dato di congetturare se e quali altri cambiamenti possano essere intervenuti nel soggetto nel tempo successivo alla perdita della coscienza. D’altro canto, poiché in queste situazioni una decisione di intervento o non intervento deve comunque essere presa, appare preferibile far prevalere la volontà espressa dall’interessato quando era ancora nel pieno possesso delle sue facoltà e quindi, presumibilmente, coerente con la sua concezione della vita, piuttosto che disattendere tale volontà facendo appello alla possibilità di un presunto (ma mai comprovabile) mutamento della volontà nel tempo successivo alla perdita della coscienza.
Secondo questa posizione, quindi, vi sono buone ragioni per sostenere che al consenso o dissenso espresso dal paziente non in stretta attualità rispetto al momento decisionale vada attribuito lo stesso rispetto (alle condizioni che meglio andranno però precisate) che è dovuto alla manifestazione di volontà espressa in attualità rispetto all’atto medico.
8 Vincolatività delle direttive anticipate
Passiamo ora a discutere se alle direttive anticipate debba essere attribuito un carattere (assolutamente) vincolante o (meramente) orientativo. Anche questo tema è stato ampiamente esaminato nel dibattito nazionale e internazionale ed è quindi inevitabile che su di esso esista un ampio ventaglio di opinioni e significativa diversità di vedute. Tuttavia, come mostrano gli avverbi premessi in parentesi agli aggettivi “vincolante” e “orientativo”, è opinione del CNB che il disaccordo sia qui di natura più concettuale che etica e rifletta una rappresentazione delle questioni in gioco inadeguata e che non corrisponde né allo spirito dell’art.9 della
Convenzione di Oviedo, né agli interessi e alle esigenze che, presumibilmente, possono motivare una persona a redigere direttive anticipate. Muovendo, come è doveroso fare, dal rispetto del “bene integrale della persona umana” e
dall’alleanza terapeutica tra medico e paziente, che ne è il naturale corollario, si può infatti argomentare che quando una persona redige e sottoscrive direttive anticipate, manifesta chiaramente la volontà che i suoi desideri vengano onorati, ma, al tempo stesso, indicando le situazioni di riferimento, manifesta altrettanto chiaramente la volontà di non assegnare ai suoi desideri un valore assolutamente (e cioè deterministicamente e meccanicamente) vincolante. La persona vuole che i suoi desideri siano
rispettati, ma vuole che lo siano a condizione che mantengano la loro attualità e cioè solo nel caso che ricorrano le condizioni da lui stesso indicate: si può, infatti, ragionevolmente presumere che nessun paziente intenda incoraggiare attitudini di abbandono terapeutico, privandosi così della possibilità di godere dei benefici dei trattamenti che eventualmente si rendessero disponibili quando egli non fosse più in grado di manifestare la propria volontà. Questo carattere non (assolutamente) vincolante, ma nello stesso tempo non (meramente) orientativo, dei desideri del paziente non costituisce una violazione della sua autonomia, che anzi vi si esprime in tutta la sua pregnanza; e non costituisce neppure (come alcuni temono) una violazione dell’autonomia del medico e del personale sanitario. Si apre qui, infatti, lo spazio per l’esercizio dell’autonoma valutazione del medico, che non deve eseguire meccanicamente i desideri del paziente, ma anzi ha l’obbligo di valutarne l’attualità in relazione alla situazione clinica di questo e agli eventuali sviluppi della tecnologia medica o della ricerca farmacologica che possano essere avvenuti dopo la redazione delle direttive anticipate o che possa sembrare palese che fossero ignorati dal paziente. Questo è, del resto, il modo più corretto per interpretare il dettato dell’art. 9 della
Convenzione di Oviedo, come risulta chiaro dal punto 62 del
Rapporto esplicativo che qui si trascrive: “Questo articolo afferma che quando le persone hanno previamente espresso i loro desideri, tali desideri dovranno essere tenuti in considerazione. Tuttavia, tenere in considerazione i desideri precedentemente espressi non significa che essi debbano necessariamente essere eseguiti. Per esempio, se i desideri sono stati espressi molto tempo prima dell’intervento e la scienza ha da allora fatto progressi, potrebbero esserci le basi per non tener in conto l’opinione del paziente. Il medico dovrebbe quindi, per quanto possibile, essere soddisfatto che i desideri del paziente si applicano alla situazione presente e sono ancora validi, prendendo in considerazione particolarmente il progresso tecnico in medicina”.
A tal proposito, conviene ricordare che in una precedente versione della
Convenzione, i desideri del paziente venivano indicati come “determinanti”, un aggettivo che suscitò molte perplessità e riserve (tra le quali quelle del CNB): da un lato, infatti, tale aggettivo sembrava costituire una violazione dell’autonomia professionale del medico; dall’altro, non sembrava neppure corrispondere alle reali esigenze che – come si è osservato poco sopra - possono indurre un paziente a formulare direttive anticipate. Tuttavia, il passaggio da “determinanti” a “tenuti in considerazione” non dovrebbe essere interpretato come passaggio da un carattere (assolutamente) vincolante a uno (meramente) orientativo. Se è corretto escludere la prima caratterizzazione, anche la seconda va esclusa
quando venga intesa in senso talmente debole da coincidere con la restituzione al medico di una piena libertà decisionale ed operativa, che equivarrebbe a conferirgli un indebito
potere paternalistico, che implicherebbe il completo svuotamento di senso delle direttive anticipate stesse.
Queste osservazioni dovrebbero togliere mordente alla questione del carattere più o meno vincolante delle direttive anticipate. La valenza etica di queste direttive dipende esclusivamente dal fatto che esse conservino la loro attualità nel processo di autonoma valutazione, operato dal medico, circa la corretta sussistenza nella fattispecie delle precise condizioni indicate dal paziente. Ne consegue che se il medico, in scienza e coscienza, si formasse il solido convincimento che i desideri del malato fossero non solo
legittimi, ma ancora
attuali, onorarli da parte sua diventerebbe non solo il compimento dell’alleanza che egli ha stipulato col suo paziente, ma un suo preciso dovere deontologico: sarebbe infatti un ben strano modo di tenere in considerazione i desideri del paziente quello di fare, non essendo mutate le circostanze, il contrario di ciò che questi ha manifestato di desiderare. E’ altresì ovvio che se il medico, nella sua autonomia, dovesse diversamente convincersi, avrebbe l’obbligo di
motivare e giustificare in modo esauriente tale suo diverso convincimento, anche al fine di consentire l’intervento del fiduciario o curatore degli interessi del paziente.
9 Come implementare le direttive anticipate
Il problema dell’implementazione delle direttive anticipate può essere considerato sotto due diversi profili. Si può ritenere in generale bioeticamente auspicabile – a causa del complessificarsi delle situazioni di fine vita - che
tutti o comunque la maggior parte dei cittadini ricorra a questo strumento. Chi possiede questa convinzione, riterrà importante non solo determinare nel modo più accurato la forma delle direttive e i limiti della loro operatività, ma anche attivare o comunque favorire vere e proprie forme di promozione sociale per la loro redazione, non diverse nella sostanza dalle campagne che vengono poste in essere per invitare i cittadini a dichiararsi disponibili a donare i loro organi
post mortem.
Si può però anche ritenere che sia altrettanto doveroso bioeticamente il rispetto sia di chi voglia redigere le direttive sia di chi nutra una insindacabile ripugnanza a sottoscriverle. E’ un dato ormai statisticamente verificabile che, anche nei paesi che hanno da tempo legittimato formalmente le direttive anticipate, solo una minima parte dei cittadini è portata a sottoscriverle. E non c’è dubbio che alcune particolari forme di induzione a redigere le direttive anticipate siano particolarmente ripugnanti, come quelle poste in essere da un celebre ospedale londinese, che nel ricoverare pazienti
oldest old, al di là cioè della soglia dei settantacinque anni, propongono (o impongono?) loro – in un momento quindi per essi di particolare fragilità non solo fisica, ma soprattutto psichica - la firma di direttive di rinuncia a terapie di sostegno vitale, nel caso che nel corso del trattamento sopravvengano eventi infausti, anche se non estremi, come ad es. la perdita della vista o della mobilità.
Allo stato attuale della riflessione bioetica, sembra quindi ragionevole ritenere che le direttive anticipate meritino sì di essere implementate, ma unicamente nel senso di favorire la loro corretta formulazione ed applicazione per coloro che intendano avvalersene. Si evita così il rischio che sotto il pretesto di implementazione delle direttive anticipate si cerchi surrettiziamente di favorire nei pazienti, e soprattutto in quelli più anziani, un atteggiamento di
resa nei confronti della morte, che potrebbe tragicamente e indegnamente trasformare l’assistenza ai pazienti terminali in una burocratica accelerazione del processo del morire.
Una volta riconosciuta legittima, nei limiti sopra indicati, l’implementazione delle direttive anticipate, è opportuno ricordare che la legge di ratifica della
Convenzione europea di bioetica (art. 3 comma 1) deleghi il Governo “ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi recanti ulteriori disposizioni occorrenti per l’adattamento dell’ordinamento giuridico italiano ai principi e alle norme della Convenzione e del Protocollo di cui all’art. 1”. Il problema che si pone a questo punto è se ai fini di una effettiva realizzazione pratica del principio posto dall’art.9 della
Convenzione di Oviedo, sia o no auspicabile un formale intervento legislativo che offra un fondamento giuridico alle direttive anticipate.
Il problema si presta a molte letture e a differenti considerazioni. E’ stato non inopportunamente osservato che in una prospettiva di corretta politica legislativa la una catalogazione legale delle direttive anticipate dovrebbe essere preceduta da una adeguata serie di norme in grado di sciogliere il nodo generalissimo e fondamentale della rilevanza da riconoscere giuridicamente alla volontà del paziente rispetto alla potestà medica di curare, stabilendo i limiti, le facoltà e gli obblighi a questa inerenti (ossia l’ambito e i contenuti di quella che oggi viene abitualmente definita “posizione di garanzia” del medico). In base a queste considerazioni, un eventuale riconoscimento giuridico delle direttive anticipate avrebbe una piena giustificazione solo se collocato all’ interno di una disciplina più generale circa la rilevanza della volontà del paziente nell’attività medico-chirurgica, da tempo attesa e reclamata da dottrina, classe medica e giurisprudenza, al fine di porre rimedio a una situazione, come quella attuale, che è fonte di importanti spazi di “incertezza del diritto”.
Secondo ulteriori significative osservazioni, il vero problema bioetico delle direttive anticipate di trattamento è di carattere pratico e operativo, e non dottrinale; e il come realizzare e consolidare una corretta prassi in materia è problema di natura culturale, prima ancora che giuridica. Pur considerando – come non si possono non considerare - definitivamente acquisiti e condivisi i principi stabiliti dalla
Convenzione europea sulla biomedicina, il fatto stesso che sia stato necessario un significativo sforzo per elaborarli e per poi proclamarli formalmente e autorevolmente implica che essi non possano essere considerati come ovvi e scontati: è lecito quindi ritenere che molto tempo dovrà passare prima che essi riescano a modellare adeguatamente il comune modo di pensare dei medici, dei pazienti e più in generale di tutta la pubblica opinione. In questo contesto uno dei principi più avanzati della
Convenzione, quale appunto il riconoscimento del valore delle direttive anticipate, dovrebbe essere considerato non come il punto di arrivo limpido e aproblematico di un ampio dibattito bioetico e biopolitico, ma come una delle premesse articolate, complesse, a volte contraddittorie, sempre comunque bisognose di faticose e continue messe a punto, nel lungo cammino volto a garantire il rispetto della dignità del malato come punto nodale di qualsivoglia pratica sanitaria. Quando non si parta da questa consapevolezza, si corre il rischio di ridurre la lotta per la promozione e la difesa di valori bioetici in generale, e delle direttive anticipate in particolare, a una battaglia di carattere estrinsecamente formalistico: l’esperienza maturata in questi anni mostra, ad es., come l’acquisizione del consenso informato si sia ridotta, nella maggior parte dei casi, semplicemente a quella della firma del paziente apposta su di uno stampato, formulato spesso in termini estremamente distanti dalla comune percezione dei fenomeni. Se questo è vero, non bisogna illusoriamente ritenere che un mero intervento legislativo volto a determinare formalmente i requisiti legali per conferire validità alle direttive anticipate possa produrre risultati diversi da quelli – di tipo inevitabilmente e estrinsecamente formale - che il diritto è in grado di conseguire. Senza voler qui affatto negare l’utilità di una norma giuridica che intervenga a dare attuazione ai principi della
Convenzione, il CNB insiste nell’affermare che bisogna comunque e preventivamente impegnarsi a trarre dall’art. 9 tutte le risorse etiche in esso implicite, valorizzando il rapporto medico-paziente sia nel momento della formulazione dell’atto sia in quello, ben più drammatico, della sua attuazione.
Le direttive anticipate dovrebbero rappresentare per i medici un forte richiamo ai loro doveri deontologici e costituire l’occasione per dare inizio e concretezza (ove non lo si sia già fatto, come è evidentemente auspicabile) a un diverso modello di prestazioni sanitarie da porre in essere in situazioni di estrema difficoltà e da considerare come una struttura dinamica di relazioni e non come un apparato statico e procedurale di atti. L’art. 9 va utilizzato per quello che è: lo strumento più semplice per garantire il massimo risultato etico con il minor numero di norme possibili. Va assecondata la tendenza a mantenere strumenti giuridici aperti e flessibili tutte le volte in cui le situazioni da disciplinare appaiano eticamente controverse e le attese sociali siano estremamente incerte. In questa prospettiva, si può auspicare che qualsiasi normativa positiva dedicata alle direttive anticipate
accompagni e non preceda una forte presa di consapevolezza bioetica (da attivare obbligatoriamente nelle scuole di medicina, negli ospedali e più in generale nella società civile) della complessità della questione.
Quanto sopra affermato non toglie, comunque, l’opportunità di ridurre in tempi brevi
l’incertezza del diritto che tormenta attualmente molti operatori sanitari e che induce altresì molti cittadini, risolutamente convinti dell’opportunità e della convenienza di redigere direttive anticipate di trattamento, a ritenere che nel sistema giuridico attuale la loro volontà sia poco e male garantita. In tema di direttive anticipate molte semplici, ma essenziali domande non possono oggi che ricevere risposte incerte e nebulose. E’ necessario che l’espressione dei desideri avvenga in forma scritta o è sufficiente l’espressione orale? E, in ambedue i casi, con quali modalità? Chi ha il compito di raccogliere e conservare queste dichiarazioni? Deve esserne fatta menzione nella cartella clinica? Come può il medico avere la certezza che le direttive anticipate di cui egli sia venuto in possesso non siano state revocate o sostituire da altre? Come può accertarsi che esse siano state redatte da soggetti autenticamente competenti? E nel caso in cui in esse si indichi il nome di un fiduciario, che conseguenze trarre dall’eventuale rifiuto di questo di assumersi il compito affidatogli? Queste e altre domande che emergono continuamente nel dibattito in materia non trovano evidentemente risposta alcuna nel principio generale contenuto nella
Convenzione d’Oviedo e nel Codice di deontologia medica, ma senza una organica e non equivoca risposta, il principio del rispetto per i desideri precedentemente espressi rischia di non trovare pratica applicazione.
In conclusione, è auspicabile quindi un intervento legislativo ampio e esauriente, che risola molte questioni tuttora aperte per quel che concerne la responsabilità medico-legale ed insieme che offra un sostegno giuridico alla pratica delle direttive anticipate, regolandone le procedure di attuazione. Esso darebbe ai medici chiare e non equivoche garanzie per quel che concerne la loro pratica professionale, specie se posta in essere in situazioni di carattere estremo e fornirebbe ai pazienti una ragionevole certezza di attuazione dei loro desideri. Solo una precisa normativa, che precisi inequivocabilmente contenuti e limiti della
funzione di garanzia nei confronti dei pazienti attribuita agli operatori sanitari, può infatti restituire a questi ultimi serenità di giudizio ed aiutarli soprattutto a sfuggire a dilemmi deontologici e professionali altrimenti insolubili, che in alcuni casi li portano ad assumere comportamenti che essi ritengono doverosi e giustificati in coscienza (ma che potrebbero, in assenza di norme chiare ed esplicite, esser loro legalmente contestati, con gravi conseguenza sul piano umano e professionale), ma che in altri e nel maggior numero dei casi li inducono ad attenersi al principio della “massima cautela”, non per ragioni etiche e deontologiche, ma solo per meglio garantirsi dal punto di vista delle eventuali conseguenze legali dei loro atti. Comportamenti, questi ultimi, che nel già ricordato documento del 1995 il CNB consigliava ai medici –per evidenti ragioni di carattere prudenziale, e non certo bioetico- a fronte del carattere “deludente” e “insidiosamente lacunoso” del nostro ordinamento giuridico vigente “nei confronti dei principi di autonomia della persona nell’esercizio del diritto alla salute”.
10 Raccomandazioni bioetiche conclusive
In sintesi, il CNB ritiene che le direttive anticipate siano
legittime, abbiano cioè valore bioetico, solo quando rispettino i seguenti criteri generali:
A) abbiano carattere
pubblico, siano cioè redatte
in forma scritta e mai orale, da soggetti maggiorenni, competenti, informati, autonomi e non sottoposti ad alcuna pressione familiare, sociale, ambientale;
B) non contengano disposizioni che contraddicano il diritto positivo e la deontologia medica o che in particolare impongano al medico pratiche che vadano contro la sua scienza e la sua coscienza;
C) siano redatte, di norma con l’assistenza di un medico che le controfirmi, in maniera non generica, in modo tale da non lasciare equivoci sul loro contenuto e da chiarire quanto più è possibile le situazioni cliniche in relazione alle quali esse debbano poi eventualmente operare;
D) siano precedute da una adeguata e dettagliata informazione relativamente alle situazioni cliniche e alle conseguenze che in tali situazioni può comportare la somministrazione o l’omissione dei vari trattamenti;
E) siano tali da garantire la massima personalizzazione della volontà del futuro paziente e non siano quindi ridotte alla mera sottoscrizione di moduli o di stampati;
F) contengano, per garantire una possibilità di ripensamento da parte del sottoscrittore, l’indicazione certa della data di redazione e quella di una scadenza temporale (individuata dalla stessa persona interessata), al termine della quale esse vadano confermate e/o rinnovate, pena la perdita di ogni loro validità.
Il CNB ritiene altresì opportuno:
a) che il legislatore intervenga esplicitamente in materia, anche per attuare le disposizioni della Convenzione europea di bioetica, ed auspicabilmente nel contesto di una normativa biogiuridica di carattere generale, che colmi gli inaccettabili spazi di incertezza del diritto che caratterizzano attualmente molte pratiche sanitarie di frontiera;
b) che la legge da una parte escluda formalmente ogni carattere
vincolante alle direttive anticipate, ma dall’altra obblighi il medico a
prenderle in considerazione, imponendogli, sia che le attui sia che non le attui, di esplicitare
formalmente e adeguatamente le ragioni della sua decisione, in particolare nel caso in cui egli ritenga doveroso contraddirle in modo rilevante;
c) che nei casi in cui l’attuazione delle direttive anticipate si riveli di particolare complessità sia comunque acquisito da parte dei medici il parere di un Comitato etico indipendente;
d) che le direttive anticipate possano eventualmente indicare i nominativi di uno o più soggetti
fiduciari, da coinvolgere obbligatoriamente, da parte dei medici, nei processi decisionali a carico dei pazienti divenuti incompetenti;
e) che ove le direttive anticipate contengano informazioni “sensibili” sul piano della
privacy, come è ben possibile che avvenga, la legge imponga apposite procedure per la loro conservazione e consultazione (come già avviene, peraltro, in altri paesi europei).