Non c’è niente da fare: questi non riescono a uscire dal proprio
recinto ideologico. Il ministro
Francesco Lollobrigida, titolare del dicastero
dell’Agricoltura e del Made in Italy, ha utilizzato un’altra volta la categoria
“etnica”, intendendo con questo termine la difesa della nostra
cultura nazionale. Neanche i
nazionalisti son capaci di fare… Sia ben chiaro: la
‘topica’ è meno grave della precedente, quando il ministro parlò di
“sostituzione etnica” da parte degli immigrati. Tuttavia, anche in questo caso egli presuppone
un’idea statica, grossomodo uniforme, di
italianità, che non solo non esiste, ma che rischia di trasformarsi in una
‘gabbia’: nemmeno lo storicismo più idealista e assoluto arriva a questo punto. Il problema del
ministro Lollobrigida è quello di un
clerico-fascismo trascendente non mediato dall’immanenza, che non concepisce alcuna
‘antitesi’ e, di conseguenza, nessuna
sintesi innovativa, sotto il profilo
filosofico-culturale. Tutto ciò che rappresenta un
fatto nuovo non dovrebbe esistere. Anche se ogni giorno accadono un mucchio di cose. La nostra
Costituzione si occupa di
etnologia al fine di tutelare quelle minoranze che, per svariate vicende belliche o politiche, si sono ritrovate in
territorio italiano, oppure
convivono con noi da tempo immemore. Come gli
albanesi in
Puglia; o i
catalani nel nord della
Sardegna; oppure ancora i
tedeschi del
sud Tirolo. La collega
Lilli Gruber, per esempio, dev’essere difesa e tutelata: non possiamo escluderla dalla categoria dei giornalisti perché potrebbe contaminarci con i suoi
wurstel e crauti. E la stessa
Anna Oxa, la quale discende da una famiglia
italo-albanese stabilitasi qui da noi ben prima che si formasse il
Regno d’Italia, non rappresenta un
pericolo etnico per la
canzone italiana. Difendere
l’italianità come
“raggruppamento etnico” significa temere che, durante la partita di calcio
Roma-Spoleto, tanto per fare un altro esempio, i tifosi
‘spoletini’ occupino tutti gli spalti dello
stadio Olimpico: è impossibile che ciò accada. La
tifoseria umbra dovrà essere racchiusa in una determinata zona dello stadio, affinché non disturbi più di tanto la città che la ospita per la partita. Ovvero, con un
limite temporale stabilito a priori, non
‘ghettizzandoli’, poiché anche
l’etnologia è una scienza umanista, dunque non assoluta. Insomma, affermare che
l’Italia sia un
raggruppamento etnico da tutelare o da difendere, dato che gli italiani stessi sono la
maggioranza della popolazione rispetto ad altre comunità che vivono all’interno del nostro territorio, è come tentare di
vendere ghiaccioli al Polo nord. L’identità etnica rientra in una logica di
cultura ‘media’ ponderata, non come unità intesa in senso
omologativo: è da
provinciali, pensarla così.
L’etnologia, in quanto branca della
sociologia, esiste per il
motivo opposto: al fine di studiare le
‘differenze’, per esempio, tra
calabresi e
lombardi, più che le loro affinità. Per distinguere la
soppressata dalla
polenta, insomma, non perché esista un
piatto ‘standard’ da mettere in tavola da
Milano a
Catanzaro. Ognuno mangi quello che vuole, dato che entrambi i cibi appartengono alla dieta mediterranea. E’ vero: i
calabresi hanno una predilezione per i
cibi piccanti; i
lombardi, invece, amano i
retrogusti delicati. Ma si tratta di semplici
distinzioni all’interno di un
perimetro culturale più ampio, il quale è politicamente
democratico, non
verticistico-piramidale o
gerarchico-confessionalista. Insomma,
l’etnologia in quanto scienza studia
varianti e
differenze all’interno di un Paese qualsiasi. E concepisce una
cultura ‘standard’ solo per
grandi categorie: quelle che il
ministro Lollobrigida ha letto sulla
Treccani. Ma anche qui: qualsiasi
enciclopedia, compresa la
Treccani, rappresenta un
compendio di ‘voci’ genericamente intese, non un
testo giuridico che cerca di
prevedere fattispecie a cui far seguire
comportamenti concreti. La
Treccani è
un’opera straordinaria, pensata e voluta proprio da
Giovanni Gentile, che l’ha presieduta a lungo. Ma si tratta di un
compendio culturale, non di un testo che pretende di difendere la
pastasciutta o il
bicchiere di vino. Difendere
l’italianità come principio
“etnico” è una mera
astrazione: le
culture cambiano, si
contaminano, s’incontrano e si
evolvono. La nostra
cultura non è un mero concetto
fotografico, ma un qualcosa che
muta ogni giorno, lentamente ma inesorabilmente. Pensare
all’Italia come
unità etnica significa pretendere che esista un qualcosa di
omologativo e
unificante per tutti, come quando si indossa
un’uniforme. E’
un’Italia da caserma, quella che si ha in testa. Ma non tutti gli
italiani amano la
disciplina militare. Dalle
4 forme di
cultura superiori ‘crociane’, cioè
l’estetica, la
logica, la
morale e
l’economia, possono derivare svariate forme di
cultura tecnica, scientifica, artistica e
umana. Secondo
Giovanni Gentile, che era un filosofo dello
spiritualismo assoluto e che, tuttavia,
non ‘sfociava’ in
astrazioni superomiste, arte e
religione, prese di per sé, sono
inattuali: la prima in quanto momento di
pura soggettività; la seconda, come
concetto teologico di
oggettività assoluta. Esse possono diventare attuali solo se poste a
sintesi con le
scienze umane, come
l’estetica o la
filosofia morale. Ma si tratta, sempre e comunque, di
un’unità che si confronta con la
pluralità: dell’uno che entra
in rapporto col due, detto in termini semplicemente aritmetici. Chiudersi a chiave dentro un
armadio, di qualunque genere esso sia,
etnico, religioso o
ideologico, rappresenta solamente una forma di
irrazionalità paurosa di tutto. Oltreché spaventosamente
superficiale.
(articolo tratto dalla rubrica settimanale Giustappunto! pubblicata su www.gaiaitalia.com)