Caterina Di PerriLe festività pasquali sono d’ispirazione per delle riflessioni non tanto religiose, quanto esistenziali. Duemila anni fa, il Figlio dell’Uomo è stato torturato e ucciso in modo atroce, da coloro che egli era venuto a salvare. Il “sacrificio per salvare l’umanità dal peccato” è una frase ricorrente nelle omelie religiose. Peccato che questo sacrificio si sia rivelato vano. A venti secoli dalla morte di Gesù di Nazareth, l’umanità è allo sbando più totale e per salvarci non basterà il Figlio di Dio, questa volta, ma Dio in persona. Oggi si riconosce il Cristo nel diverso, l’emarginato, il diseredato. Ogni volta che un bambino muore di stenti, di fame o viene abusato, Gesù muore ancora e ancora. E in tutto il tempo che è passato da quella Pasqua ebraica, gli uomini non hanno ancora compreso che solo l’amore può salvare l’umanità. Gesù venne condannato a morte perché la paura di cambiare è qualcosa che impedisce di essere lucidi nel giudicare. Un uomo come il Nazareno parlava di amore e di uguaglianza. E si era autoproclamato monarca di un regno che non era terreno: questo è bastato per essere denunciato e condannato a morte. In realtà, nessuno temeva che egli fosse il Figlio di Dio. Allora come oggi, la figura di Dio è assente, presenzia solo alle messe dei vespri quando gli anziani, timorosi del loro possibile trapasso, recitano il rosario sperando nella salvezza della loro anima. Era il potere terreno che veniva associato a un uomo a fare paura, perché agitava le masse e le spostava lungo la Galilea. Ma il potere che aveva Gesù era quello di condurre gli uomini all’amore. Egli non si interessò mai di politica, ma per capire la sua morte è dal contesto storico che bisogna partire.

I farisei sono ancora tra noi
La casta sacerdotale, ai tempi di Gesù, pensava più ai denari che alle anime da salvare. E la posizione di Gesù, che tentava con le sue parole di sovvertire le regole, faceva temere loro di perdere il potere e le posizioni strategiche nei rapporti con i dominatori romani. “I Farisei”, ossia gli ipocriti, come lui stesso definiva apertamente i sacerdoti del Tempio di Gerusalemme, sono una casta che non si è mai estinta, sempre pronti a tradire e colpire chiunque alle spalle. E purtroppo, sono sempre i più deboli a cadere sotto i loro inganni. Lo vediamo ogni giorno, sui barconi di disperati che attraversano il Mediterraneo con la speranza di salvarsi da una vita tragica, che finiscono col perderla del tutto; nella condizione delle donne in Iran e in Afghanistan, che muoiono perché vogliono essere più libere; nei bambini in Africa costretti a imbracciare i fucili per fare delle guerre che non dovrebbero neanche esistere. Il Figlio dell’Uomo è morto per salvarci da tutto questo. Eppure, noi non siamo salvi. O forse, non ci sappiamo salvare, nonostante i suoi insegnamenti.

La resurrezione: simbolo dell’uomo nuovo
 Con la parabola del chicco di grano, Gesù ci ha insegnato che la morte terrena è solo un passaggio verso la vita eterna. Ma la sofferenza che ancora tante vite umane devono sopportare ogni giorno è un qualcosa che ci fa perdere la speranza in un mondo migliore. E quella resurrezione, che è il simbolo della Pasqua cristiana, stenta a farsi strada negli animi di quanti non hanno più nulla da far germogliare nel loro cuore. Quell’uomo nuovo che il Nazareno voleva forgiare, deve prendere coscienza che questo mondo è mera apparenza, mentre il regno dei cieli potrebbe manifestarsi se solo aprissimo il nostro cuore.





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