Vittorio LussanaA 45 anni di distanza da una delle vicende più drammatiche nella Storia della Repubblica italiana, riproponiamo una nostra intervista ad Alberto Franceschini, fondatore e leader del gruppo storico delle Brigate Rosse, al fine di sottolineare i motivi che resero impossibile concludere una trattativa, tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978, per salvare la vita del presidente della Democrazia cristiana, Aldo Moro. In particolare, proprio Franceschini fu l’ideatore e il vero stratega del sequestro del giudice Mario Sossi, a Genova, nella primavera del 1974: una vicenda che, invece, si era conclusa differentemente, con il rilascio del prigioniero dopo un lungo interrogatorio, durato più di un mese.

Alberto Franceschini, fu lei a organizzare il rapimento del giudice Mario Sossi, a Genova, nella primavera del 1974?
“Sì, fui io”.


Sossi, però, venne rilasciato: perché ciò non fu possibile con Moro?

“Nelle due vicende hanno giocato un ruolo importante non solo le motivazioni politiche, ma anche altre di tipo personale, caratteriale e di natura antropologica di chi ha ideato l’azione del sequestro Moro. Convinzioni che io, già allora, ritenevo sbagliate. I soggetti che hanno gestito ‘l’operazione Moro’ ragionavano all’interno di una logica fortemente ‘ideologico-dimostrativa’. Tale caratteristica era già presente nell’operazione Sossi: alcuni di noi erano per la liberazione; altri per la condanna a morte del magistrato”.

Intende dire che nelle Brigate Rosse era presente un’ala 'trattativista' nei confronti dello Stato?
“Sto dicendo che c’era un’ala effettivamente politica, che concepiva le azioni all’interno di una logica di obiettivi e di risultati politici. E’ chiaro che, se si vuole arrivare a ciò, devi considerare dei punti di compromesso possibile con la controparte, poiché la politica stessa è la ricerca di un punto di incontro. Ma nelle Br si stava ormai evidenziando un’altra componente, più fondamentalista, che faceva capo a Mario Moretti, che più che alla politica era legata a dei principi ideologici secondo i quali il problema principale era dimostrare che le Br erano risolute, assolutamente in grado di rimanere coerenti, andando sino in fondo ai propri intendimenti”.

Dunque, Moro muore a causa della 'coerenza dimostrativa' delle Br?
“In quella vicenda ha finito col prevalere la componente cultural-caratteriale dei soggetti che hanno gestito quell’operazione, i quali avevano già tentato di condizionare il sequestro del giudice Sossi, proprio al fine di indirizzare la vicenda in un modo diverso. Ma ci sono anche altri elementi interessanti da analizzare: movimenti e mosse di vario genere da parte di alcuni settori di potere dello Stato. Anche questi erano già percepibili, nel corso del ‘sequestro Sossi’. Nel mio libro intitolato ‘Che cosa sono le Br’, edito da Rizzoli, viene documentato proprio il fatto che uno degli ‘uomini-chiave’ dell’operazione era un elemento legato agli affari riservati. E questa non è una cosa che sto inventando io: è agli atti giudiziari”.

Quindi, i servizi segreti già da tempo avevano infiltrato degli uomini tra di voi?
“Certo, uomini che sapevano bene, sin dall’inizio, quel che stavamo facendo e che erano intenzionati a manovrarci. Le azioni ideate in quegli anni, come minimo, ce le hanno lasciate fare, nel tentativo di condizionarci lungo il corso delle operazioni. Ed erano loro a volere la morte del giudice Mario Sossi”.

Secondo lei, gli italiani sono un popolo 'giustizialista' o possono ancora vantare quel famoso primato morale e civile di cui scrisse Cesare Beccaria?
“Credo che, in un Paese come il nostro, forme estreme di terrorismo non possano funzionare, poiché esiste una profonda cultura degli italiani che si rifà al cristianesimo e al cattolicesimo. Resiste ben viva, cioè, una cultura della mediazione, del trovare un punto di compromesso, che rimane un valore forte, importante, per gli italiani, assolutamente da salvaguardare. E dico ciò, riflettendo proprio alla luce della mia esperienza personale”.

Eppure, certe forze politiche sembrano subire, talvolta, il fascino di un certo  populismo: perché?
“Sì, talvolta accade. Ma il ‘qualunquismo’ dell’italiano ‘medio’ rimane componente sociale minoritaria, esposta a rischi di ‘plasmabilità’, anche se può risultare pericolosa, in quanto utilizzabile in vario modo. La Lega, per esempio, cerca di intercettare questo tipo di inculturazione a fini di protesta demagogica. Altri Partiti, talvolta, fanno lo stesso, soprattutto al sud. Inoltre, esiste una certa componente ‘provincialista’ degli italiani: quella di farsi innanzitutto gli affari proprio ripiegando sul privato, per una sorta di cattiva abitudine piccolo-borghese”.

Socrate diceva che, in teoria, il governo dei filosofi e dei sapienti era cosa buona, ma che nella pratica rischiava fallimenti clamorosi: lei cosa ne pensa?
“Noi uomini di sinistra, che siamo stati anche di sinistra estrema, dovremmo riservare qualche riflessione in più sulla soggettività, sulle specificità e sulle variegate identità culturali degli italiani, anche se questo processo di autoanalisi è molto difficile, in quanto carico di complessità. Il dinamismo di trasformazione di una società deve essere affiancato da migliori basi culturali. E la nostra riflessione deve dirigersi maggiormente al momento storico in cui si è realizzata l’unità nazionale, poiché già allora erano emerse contraddizioni importanti sull’indirizzo complessivo, regionalistico o centralistico, del Paese”.





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