Dopo il lungo periodo di
emergenza sanitaria, che ha visto alternarsi, dall’inizio del
2020, lockdown e coprifuoco, la normalità è tornata a colorare le nostre giornate, scandite dalla frenesia cui eravamo abituati. Normalità che, tuttavia, lascia da parte un cospicuo gruppo di
adolescenti, circa
54 mila in
Italia, che continuano a vivere reclusi in una sorta di
'ritiro sociale'. A tal proposito,
l’Istituto di fisiologia clinica del
Consiglio nazionale delle ricerche di
Pisa (Cnr-Ifc) ha recentemente pubblicato i risultati del primo studio nazionale dedicato al fenomeno
‘Hikikimori’: termine nipponico (in
Giappone, il fenomeno è stato particolarmente oggetto di indagine,
ndr) che significa, appunto,
‘stare in disparte’ e che descrive un autentico disturbo della personalità caratterizzato dalla tendenza a privarsi, quasi completamente, di qualsivoglia
interazione sociale. Le persone che soffrono di questa
sindrome spendono le loro giornate reclusi in casa per lunghi periodi, mesi, a volte anni, in una sorta di
‘ritiro sociale’, che li emargina da qualsiasi attività, lavorativa, di studio, sociale o ricreativa. La
pressione sociale, il
conformismo e la
competitività presenti nella società contemporanea sono spesso citati come
fattori scatenanti della sindrome di
'Hikikomori'. Molti ragazzi vengono così spinti a rifugiarsi in una sorta di
‘isolamento protettivo’, capace di affrancarli dall’ansia correlata alla ricerca del successo e di un riconoscimento sociale. Altri fattori scatenanti possono essere: uno
stato depressivo o
disturbi ossessivo-compulsivi, accanto a vicende come la
separazione dei genitori o
episodi di bullismo. Una deleteria combinazione di fattori sociali, psicologici e culturali che caratterizzano un fenomeno diffuso anche in
Italia, di cui viene oggi fornita una prima stima attendibile grazie allo studio pubblicato dal
Cnr e promosso dal
Gruppo Abele (Onlus fondata nel 1965 a Torino da don Luigi Ciotti) in collaborazione con
l’Università della Strada (impresa sociale impegnata nella formazione di operatori sociali). La ricerca ha preso le mosse dallo studio
Espad Italia (European School Survey Project on alcohol and other Drugs, condotto annualmente dal Cnr-Ifc rispetto al consumo di sostanze psicoattive), coinvolgendo un campione di oltre
12 mila studenti, rappresentativo della popolazione studentesca italiana fra i
15 e i
19 anni. Secondo i criteri diagnostici utilizzati nello studio, è possibile distinguere differenti profili di
ritiro sociale volontario. In particolare, coloro che sono rimasti isolati per oltre sei mesi sono definibili
soggetti ‘Hikikimori’, mentre un periodo di isolamento inferiore ma superiore, comunque, a tre mesi, consente di individuare una situazione a rischio o
‘pre-Hikikimori’. L’81,5% delle persone
‘ritirate’ da
meno di 3 mesi ha affermato di aver mantenuto qualche forma di contatto con amici e parenti. Una percentuale che scende al
73,3% fra i
‘pre-Hikikimori’ e al
68,7% tra i ragazzi definibili come
‘Hikikimori’. Per molti, ricorre la medesima motivazione alla base della scelta: la
“voglia di non vedere nessuno”, accompagnata dall’ansia o dalla
mancanza di interesse nel
socializzare, dalla
mancanza di amici stretti, dal senso di
solitudine o dalla preferenza verso
attività solitarie. Finendo tutti con il passare le proprie giornate sui
social network, ascoltando
musica, guardando la
televisione, giocando on line; per un ristretto gruppo di ragazzi
(l’1% dei ‘pre-Hikikimori’ e il 4,7% degli ‘Hikikimori’), usando
sostanze psicoattive. Sabrina Molinaro, ricercatrice
Cnr-Ifc, ha commentato come il
2,1% del campione intervistato attribuisca a se stesso la definizione di
‘Hikikimori’. Una percentuale che porta a una stima complessiva di circa
54 mila studenti interessati dal fenomeno:
“Questo dato”, ha spiegato,
“appare confermato dalle risposte sui periodi di ritiro effettivo: il 18,7% degli intervistati afferma, infatti, di non essere uscito per un tempo significativo, escludendo i periodi di lockdown. E di questi, l’8,2% non è uscito per un tempo da 1 a 6 mesi e oltre. In quest’area, si collocano sia le situazioni più gravi (oltre 6 mesi di chiusura), sia quelle a maggiore rischio (da 3 a 6 mesi). Le proiezioni ci parlano di circa l’1,7% degli studenti totali (44 mila ragazzi a livello nazionale) che si possono definire ‘Hikikomori’, mentre il 2,6% (67 mila giovani) sarebbero a rischio grave di diventarlo”. Già nel periodo delle scuole medie inferiori è possibile rilevare
l’incubazione delle cause del fenomeno, con una tendenza crescente
all’autoisolamento soprattutto nella fascia di età tra i
15 e i
17 anni. L’aver subìto episodi di
bullismo non è risultata essere fra le cause più frequenti del ritiro, dove invece prevale la difficoltà a gestire i rapporti con i coetanei, caratterizzata da sensi di
frustrazione e
autosvalutazione. Altro dato sorprendente riguarda la
reazione delle famiglie, come ha commentato
Sonia Cerrai (ricercatrice Cnr-Ifc): “Più di un intervistato su quattro fra coloro che si definiscono ritirati, dichiara che i genitori avrebbero accettato la cosa apparentemente senza porsi domande. Il dato è simile quando si parla degli insegnanti”. Su questo terreno, il
Gruppo Abele si è schierato con l’intenzione di promuovere un
seminario per operatori, educatori e insegnanti che si terrà a
Torino il
5 maggio prossimo, proseguendo nel frattempo il
percorso educativo-sperimentale iniziato nel
giugno 2020, puntando così a validare una strategia di intervento che possa qualificarsi come
‘prassi percorribile’: “Il progetto 'Nove e tre/quarti', vincitore di un premio dell’Accademia dei Lincei, che ha finanziato anche lo studio in oggetto”, ha evidenziato
Milena Primavera, responsabile del percorso,
“si è fatto finora carico di una quarantina fra ragazzi e ragazze, le cui famiglie non trovavano risposta alla chiusura e all’isolamento dei loro figli. Per loro si è attivato un affiancamento a domicilio, con la possibilità di frequentare un centro laboratoriale dedicato, dove si svolgono attività individuali o in piccolo gruppo con 'maestri di mestiere', a partire dagli interessi espressi dai ragazzi. Ai genitori viene offerto, in parallelo, un sostegno psicologico volto ad acquisire maggiori strumenti, per gestire le difficoltà dei figli e una prima sperimentazione in rete con il sistema scolastico e i servizi socio-sanitari, per tentare di accompagnare i ragazzi isolati dal mondo a un diverso progetto di vita”. L’obiettivo del
progetto è quello di riportare, gradualmente, i ragazzi
fuori di casa, costruendo un
‘ponte’ tra il loro
‘guscio’ e il
mondo esterno attraverso laboratori destinati a fungere da vera e propria
‘terra di mezzo’, coinvolgendoli sui loro interessi e competenze specifiche in un ambiente rassicurante, lontano dalla
logica della competizione.