È successo mentre il mondo era sconvolto dall’attacco alle
Torri gemelle. In modo silenzioso, la
Cina, che già prima di quella data aveva iniziato a siglare accordi commerciali anche in
Europa, ha cominciato l’invasione
dell’Africa. Lo ha fatto in modo intelligente, questo bisogna riconoscerlo. Senza
ingerenze nella politica interna dei vari
Stati africani, dove è riuscita a insinuarsi nell’ultimo ventennio. Questa mossa è stata proprio strategica, condita con un
mix tra
aiuti umanitari ed
economici. Le
multinazionali sono arrivate anche nei Paesi più disastrati
dell’Africa sub-sahariana, dove guerre e carestie sono all’ordine del giorno, così come fame, malattie e morti. Ma il fatto di non interferire con i vari
governi locali, che spesso sono
regimi autocratici, diventa un punto di forza per arricchirsi, sfruttando quelle risorse che non possono essere
infinite in questo continente, bensì
‘diversificate’: finché si potrà ricavare
profitto, anche la
Cina, seppur con una veste diversa, da
nuovo millennio, colonizzerà
l’Africa a suo piacimento.
Il modello cinese in AfricaI pericoli, però, sono dietro l’angolo: il
modello cinese è ancora peggiore di quello
occidentale, perché è basato esclusivamente sul
profitto a discapito di
ambiente, risorse umane, diritti civili e
politici. Come delle
‘cavallette’, le
multinazionali cinesi potranno dare il colpo di grazia a quei Paesi la cui popolazione è già
in ginocchio. Tutti gli Stati che interessano l’aria del
Tigrey, devastati dalla recente guerra, sono interessanti per la
Cina, che aveva già investito prima che scoppiasse il conflitto del
2020. In special modo
l’Etiopia, per accordi di carattere politico, militare ed economico. Del resto, la dislocazione della regione di
Adis Abeba nel
Corno d’Africa è una condizione favorevole per il commercio e gli sbocchi che
Pechino può ottenere in quei territori, soprattutto la via verso il
canale di Suez. Si contano già
46 porti africani, costruiti in diversi Stati, finanziati o gestiti da
compagnie cinesi. I quali, hanno donato
200 milioni di dollari per costruire la sede
dell’Unione africana ad
Adisa Abeba: un investimento che dovrà pur fruttare, in qualche modo, un ritorno per le
casse cinesi. Ma non è solo
l’Etiopia a
fare ‘gola’ alla
Cina: gli interessi sono
‘distribuiti’ anche in
Angola, Gabon, Benin, Egitto, Kenya, Ruanda e
Zambia. Ovunque si possa creare profitto, la
Cina è presente. E durante la
pandemia da
Covid 19 c’è stata un’impennata di
vendite e-commerce, grazie al settore tecnologico cinese. Il
Paese del Dragone, inoltre, tra azioni pubbliche e private, risulta il più grande creditore estero rispetto alle nazioni della striscia
sub-sahariana. Secondo alcune stime, solo nel
2020 il
debito africano di
153 miliardi di dollari, contratto con la
Cina sia da governi, sia da privati. Sempre nel
2020, i
debiti sottoscritti con la
Cina risultano del
29% nel settore trasporti, del
25% nel settore energetico,
dell’11% nel settore estrattivo e
dell’8% nel settore delle comunicazioni.
Lo spirito dell’AfricaIn questo
panorama neo-coloniale di nuova generazione, il nuovo
ministro degli Esteri della
Repubblica popolare cinese, Qin Gang, ha fatto la sua prima visita istituzionale in
Africa. Il viaggio si è protratto dal
9 al
16 gennaio scorso. Il
primato americano in
Africa è venuto meno, così come quello dei vari
Paesi europei che, a volte, facevano ancora la
'voce grossa' su
raccolti e
monocolture. Ma i
capitali cinesi e la loro strategia di
non ingerenza – apparente - nelle questioni interne dei
partner africani, stanno facendo la differenza in luoghi dove
l’arretratezza culturale siede nei posti di potere. Si potrebbe dire che
l’Africa, ancora una volta, è in mano a chi vuole
colonizzarla e
depredarla, fino a
strangolarla. Dalla
‘padella’, alla
‘brace’: la
Storia si
ripete. Volendo scomodare
Hegel possiamo pensare che lo
spirito di questo
continente non è ancora giunto a comprendere chi esso sia veramente, ripetendo sempre le stesse
tesi e
antitesi, ma senza mai giungere a una
sintesi consapevole. Pertanto, secondo la
logica 'hegeliana', si manifesta ciò che deve manifestarsi. E
l’Africa non è mai degli
africani.