Un insolito David Grossman ci sorprende ancora con il suo: ‘Applausi a scena vuota’ (Mondadori). Un palcoscenico deserto, silenzio in sala. Un uomo con gli occhiali, piccolo ed esile, piomba sulla scena da una porta laterale. “Signore e signori, un bell’applauso per Dova’le G."! Eccolo qui, Dova’le G. che intrattiene il pubblico con fare clownesco, alternando momenti di tragica riflessione a facezie e barzellette che risultano le più gradite a un pubblico che sta lì solo per divertissement. Non sa quanto dolore sia scavato nel petto di quell’uomo magrissimo, con la pelle attaccata alle ossa, che si sta esibendo sul palco. Lì, dove le risate più o meno grasse degli spettatori stridono con quella agonia interiore del clown, dalla storia pesante da digerire. La sua è la storia di un bambino che camminava a testa in giù e solo così riusciva ad affrontare il mondo. Da questa posizione rovesciata aveva una percezione accettabile in cui poteva occultare il suo dramma, in parte congenito, in parte risalente a quella maledetta giornata in cui, al campo paramilitare, viene raggiunto dalla notizia della morte di un genitore. Egli parte senza sapere se abbia perso il padre o la madre: nessuno ha avuto il coraggio di dirglielo. Un viaggio oscuro nel deserto con una domanda pungente che gli avvelena la testa: mio padre o mia madre? Eccolo ora sul palco, ormai maturo, ma col la solita domanda nel cuore e nel cervello, lui ancora incapace di camminare dritto. Ma che ne sanno gli spettatori della sua storia e poi cosa interessa loro del destino crudele di un singolo? Tutta l’opera tragicomica si gioca su questo filo sottile: il desiderio di Dova’le G. di sgrovigliare il gomitolo della sua infame esistenza entrando dentro la sua storia e quella altrui. La qual cosa, cozza con il distacco emotivo del pubblico che è lì solo per ridere, per sghignazzare su quanto dice quell’esile fanciullo/uomo divorato dall’ansia di ricostruire i ponti che lo legano al suo passato. Quando l’atmosfera si fa più greve e la storia personale emerge e trova il suo spazio tragico all’interno di battute apparentemente comiche, il pubblico lesina gli applausi: quando il comico si fa più strada, il pubblico, ilare, si diverte, rimanendo sempre scentrato, però, da questo clown doppiogiochista che è il dolore incarnato. Tra gli astanti è presente l’onorevole giudice Avishai Lazar, suo amico d’infanzia, arrivato lì, in quella cittadina poco raccomandabile di Netanya, per invito telefonico del medesimo Dova’le G.. Dal fondo del palcoscenico questi sfodera uno smagliante sorriso e consegna al pubblico, specie al suo amico, la più dolorosa delle storie: la sua. Uno dei più grandi scrittori contemporanei, certamente il più grande tra gli israeliani, riconferma il suo ormai acclamato successo grazie a un trama di assoluta originalità, congiunta con il suo stile evocativo, alogico, fantasioso, assolutamente creativo. La figura del clown ricorda la potenza della parola di 'Vedi alla voce: amore'. Il bambino che cammina a testa in giù rimanda all’opera del medesimo: bambini a zig-zag. Ma ciò che turba di più in quest’opera è l’ansia di raccontarsi che non trova corrispondenza nel pubblico, fino a creare una grottesca incomunicabilità. Siamo ormai avvezzi alle opere di Grossman e al suo alto spessore artistico ed etico. E leggerlo significa ogni volta confrontarsi con le nostre storie. Ma questo testo ci ha colpiti profondamente, laddove il tema dell’incomunicabilità ci appartiene, ormai a partire dal primo Novecento, come la cifra esistenziale dei nostri tempi. Un libro psicologicamente impegnativo ma breve. Quindi, altamente consigliato, come d’altronde tutte le opere di questo autore.