Ogni tanto è doveroso rileggere
‘Se questo è un uomo’ (Einaudi, 1958): l’atroce esperienza di
Primo Levi, un chimico
torinese di famiglia
ebrea, vissuta dentro un
‘non luogo’: il lager di
Auschwitz. Lì dove tutti i bisogni vennero calpestati, annichiliti, annullati, fino a creare ombre fatue, che sono
fame vivente. Lo scrittore, datosi alla macchia dopo l'armistizio
dell’8 settembre, venne catturato dalla milizia fascista il
13 dicembre 1943. Siccome era
ebreo, oltre che
partigiano, fu consegnato ai
nazisti che lo deportarono ad
Auschwitz, in
Polonia. Per sua fortuna, nel
1944 il governo tedesco, vista la crescente scarsità di manodopera, stabilì di
prolungare la vita media dei
deportati da eliminare. La sua laurea in
chimica fece il resto. Egli fu uno dei pochi che riuscì a tornare a casa, come ha raccontato in un altro testo,
‘La tregua’, sempre edito da
Einaudi, nel
1963. Fino a quel momento, la narrativa e la saggistica non avevano
nemmeno sfiorato l’olocausto, come argomento di
analisi storiografica. Per motivazioni
politiche. Tutti, almeno una volta nella vita, dovrebbero leggere
Primo Levi. Non solo per il valore di
testimonianza diretta, in un’epoca di
nichilismo strisciante, in cui è totalmente assente la
memoria degli
orrori della Storia, ma anche per il pregio di una scrittura che
graffia l’anima, che la attraversa incidendovi, con caratteri indelebili, un monito perenne:
“Mai più”! Mai più la violenza inaudita. Mai più progetti manicomiali di sterminio di una razza resa colpevole di ogni male, al solo fine di creare un
nemico di comodo. Leggere
Levi aiuta a comprendere il più
feroce e, al contempo,
razionale progetto di
sterminio, studiato scientificamente, a tavolino, con la
freddezza cieca negli occhi. Nessuno mai, prima di allora, aveva tentato di
eliminare un intero popolo togliendogli ogni
dignità, annichilendolo psicologicamente, fino a farlo coincidere con la nebbia perenne di
Auschwitz. Proprio lì dove è inciso in modo inverecondo e folle:
“Il lavoro rende liberi”. Sul fenomeno
‘nazismo’ è stato scritto molto. Ma nessuna opera è, al contempo,
diario e
memoriale, elaborazione letteraria e
studio sociologico, storico e anche
filosofico. Già nel momento in cui vengono catturati, i deportati cominciano a
morire: sradicati dalle loro famiglie, soli, abbandonati dagli uomini e da
Dio, ombre solinghe, fuochi fatui, miseria umana, carne - e ossa - da macello. Giorni interi senza bere, con i piedi nel fango, senza scarpe, nudi ed esposti al ludibrio e all’offesa di chi insensatamente e deliberatamente li derideva, li frustava, si divertiva a vederli perire ogni giorno, in quella lotta per la sopravvivenza. Una lotta impari. I più vengono chiamati, non si sa bene perché,
“mussulmani”: sono quelli che si rassegnano subito, che rispettano gli orari, che eseguono gli ordini, che non rubano, che non fanno nulla per ottenere una razione di pane in più. Costoro morirono tutti e presto. E’ scientificamente provato: non resistettero più di tre mesi. Gli
italiani ebrei, quelli col
numero basso (Primo Levi aveva stampigliato sul braccio una cifra a
sei numeri, ndr) sono anch'essi tra i
“mussulmani”. Lui, invece,
ce la farà, perché deportato nel
1944 e perché
un chimico "serve sempre". Smise di fare domande che non avevano risposta e cercò una strategia di sopravvivenza: rimediare una
razione di pane in più; nutrirsi di
nera brodaglia; imparare a farsi un
cucchiaio/coltello con le proprie mani; convivere col
puzzo suo e dei suoi compagni; col
vuoto esistenziale e
l’aberrazione mentale degli
ufficiali nazisti. Era piccolo e gracile, ma forte di ingegno. E pur indebolendosi di giorno in giorno, riuscì a sopravvivere alla
"discesa negli inferi". Si tratta di
“un viaggio all’ingiù”, come scrisse egli stesso, verso la
bolgia infernale del
lager, ma anche un viaggio, il più doloroso,
dentro se stessi, in corpi irriconoscibili. Visi e palpebre gonfie, piedi piagati e sanguinanti, ferite purulente, scheletri in fila a marciare verso un lavoro insostenibile:
travi pesantissime in ghisa. da trasportare in un’attività insensata, perché di fatto, lì in quel
lager nulla si produceva. Era tutta una
messa in scena per deprimere i bisogni anche minimi dei
deportati, per vederli diventare un nulla da
camera a gas. Lo scopo, ovviamente, non era quello di farli lavorare, ma di rendere tutto
impossibile, di togliere loro tutto ciò che era
vitale con un progetto capillare: sempre meglio di un colpo di pistola alla nuca, senz’altro. E invece, no: l’uomo riesce a essere ancor più abietto e crudele. Vuol
giocare con i morti, perché nel momento stesso della deportazione, essi smettono di vivere. Giorni trascorsi in un
incubo straniante; e
notti fantasmatiche, in cui i bisogni insoddisfatti galleggiano e le torture subite ritornano come un
boomerang dentro il
cervello. Si risente lo
sparo in mezzo alla fronte a
bruciapelo, senza motivo, che ha posto fine alla
non-vita di un compagno. Ma qui nulla ha senso: qui tutto si ripete, fuori dal tempo usuale. Qui c’è solo il
lager: un luogo di nebbia, dove
l’inverno non passa mai e nulla si vede, perché
non c’è speranza. Anche se qualcuno ancora
s'illude, un qualcuno presto destinato a morire, anzi: è già morto.
'Se questo è un uomo' o le opere di
Grossman ci portano a conoscere
l’uomo, la sua
ferocia e la sua
abiezione. E ci avvertono su cosa può diventare
un’ideologia folle, che acceca la vista e, soprattutto, il cuore. L’opera di
Levi è un documento sincero, un racconto con la misura del classico,
un’analisi psicologica e
antropologica dell’uomo. Un trattato scientifico
sull’abisso della mente umana, che produce umiliazioni, offese, degradazione.
“Perciò, non appena il freddo, che per tutto l’inverno ci era parso l’unico nemico, è cessato, noi ci siamo accorti di avere fame… Ma come si può pensare di non avere fame? Il lager è la fame, noi stessi siamo la fame: una fame vivente”. Auschwitz fu la fame.