Giovanna Albi‘Antigone’, l’opera tra le più famose dell’antichità, fa parte del ‘ciclo tebano’. Essa s’inserisce nella spirale di sangue in cui fu coinvolta la famiglia dei Labdacidi, cui apparteneva il celebre Edipo e la sua discendenza. Il ciclo contiene: ‘Edipo re’, ‘Edipo a Colono’ e ‘I sette contro Tebe’. Pertanto, ‘Antigone’ è la continuazione dell'ultima delle opere appena citate. Rappresentata alle 'Grandi Dionisie' del 442 a. C., la tragedia aprì un aspro dibattito nell’Atene democratica di Pericle, per l’attualità del tema trattato: “Un conflitto”, ebbe a evidenziare Hegel, “tra la legge della famiglia e quella dello Stato e una riflessione sui pericoli di una gestione dispotica di questo”. Ma andiamo ai fatti: i fratelli Eteocle e Polinice (figli di Edipo e da questo maledetti, ndr) sono morti in un sol giorno dopo una duplice strage, combattendo alle sette porte di Tebe di Beozia. Polinice aveva armato sette guerrieri e li aveva posti alle porte della città, muovendo guerra al fratello Eteocle, sostenuto dai Tebani. In un duello di sangue, i due si danno la morte. Questi fatti sono narrati ne ‘I sette contro Tebe’. A tragedia avvenuta, si apre l’Antigone: il tirannico Creonte (cognato di Edipo, ndr), il re-desposta dà ordine di seppellire Eteocle, ma di lasciare insepolto e alla mercé degli uccelli Polinice, che aveva portato guerra alla città di Tebe, pena la morte per chiunque osasse contravvenire alla dura legge. Un messaggero informa che sul corpo di Polinice fosse stata gettato un pugno di terra, simbolo di sepoltura. E che era vista Antigone allontanarsi in lacrime. Contro la ragazza viene dunque decretata la pena di morte da Creonte. A nulla servono le proteste del popolo e le richieste del figlio, Emone, promesso sposo di Antigone. Ella viene chiusa in una caverna a morire di fame. Di contro alla determinazione di Antigone, che strenuamente difende la legge di Zeus e della famiglia, si pone la debole Ismene, sua sorella, la quale non vuole collaborare alla causa dell’eroina. Solo alla fine vorrebbe morire con lei, ma viene scacciata da Antigone, con la consueta ostinazione. Antigone si dà la morte e, di fronte al suo cadavere, si toglie la vita anche Emone. Poi, è la volta di Euridice, moglie di Creonte e sua madre. Siamo cioè di fronte a una catena di orrori, che hanno come palcoscenico Tebe. E’ la saga di una famiglia sbagliata, che tuttavia spiega quali possano essere gli effetti devastanti di una ragione di Stato applicata dispoticamente. La tragedia interpreta tutto il biasimo ateniese verso i regimi tirannici e rappresenta quel momento in cui la legge della famiglia viene sostituita dalla legge di Stato (V sec. a. C.). La norma di Stato è una necessità storica, ma se il re si macchia di tracotanza (hybris, ndr) gli effetti possono essere devastanti e non resta che disperarsi per il danno prodotto (piange, infatti, impotente anche Creonte, alla fine del dramma, ndr). Ecco perché il coro, che interviene negli stasimi, appoggia la causa di Antigone, interpretando il pensiero del popolo nell’Atene democratica. La tragedia è di fama mondiale, perché mette in gioco i conflitti dicotomici più tipici della Grecia antica e dell’umanità tutta: legge della famiglia/legge di Stato; volontà dell’uomo/necessità divina; uomo/donna; patriarcato/matriarcato; democrazia/tirannide. In pratica, Antigone è l’eroina che incarna la lotta delle donne contro gli uomini, delle donne segregate in casa per volontà dei maschi. E’ una femminista ante-litteram, che anticipa i germi del ‘femminismo euripideo’. Ella si oppone al diktat di Creonte non solo perché tiranno, ma anche perché maschio. E il maschio risponde con atroce crudeltà, al fine di frenare lo spirito ribelle non solo del suddito, ma anche della donna. La donna, sola perché soli sono tutti i personaggi tragici; combatte, ma non con l’autolesionismo di una Medea, bensì per quello spirito di ‘elasticità’ del diritto che vuole fatti salvi gli affetti più cari (Polinice). Anche gli dei sono con lei, perché il rispetto per il defunto era un sacramento già nelle religioni pagane. La debole Ismene, invece, è la donna convenzionale, che sottostà alle regole del patriarcato, ma a ben vedere è il 'doppio' di Antigone: la parte fragile che viene schiacciata dall’ostinazione di una decisione irrevocabile. In questa tragedia ci sono gli stasimi (parti corali) più famosi e più intensi della letteratura mondiale. Si riflette sul destino dell’uomo, che molto è avanzato sotto tutti i profili: ha solcato il mare infecondo rendendo navigabile; ha sconfitto molte malattie; ha progredito nella tecnologia. Eppure, nulla può contro la morte e la potenza degli dei, del fato o del destino. Un’amara, ma autentica, riflessione sul destino dell’uomo mortale, che unico tra gli esseri viventi ha piena consapevolezza della morte, presentandone al contempo la naturale inclinazione a interrogarsi “sull’ulteriorità”, come ha sottolineato di recente il filosofo Umberto Galimberti ne ‘Le cose dell’amore’ (Feltrinelli editore). La tragedia è un ammonimento a non superare i limiti dell’uomo, a far valere, in certi casi, un valore etico di rispetto per i defunti senza passare alla contraddizione opposta del ‘relativismo assoluto’, perché l’hùbris ha effetti devastanti sull’umanità, rovesciando il principio protagoreo per cui “l’uomo è misura di tutte le cose”, mentre è sotto gli occhi di tutti che “anche Dio può essere misura di tutte le cose”. Questo è il punto di vista del religiosissimo Sofocle.





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