E’ paradossale come gli
inventori del
giuoco del calcio, ovverosia gli
inglesi, non riescano mai a ottenere alcun risultato tangibile nelle competizioni tra le rappresentative nazionali di questo sport. Le loro
squadre di club dominano da sempre le competizioni europee. A cominciare dal
Liverpool e dal
Manchester United, sino ad arrivare
all’Arsenal, al
Manchester City e al
Chelsea. Da cosa dipende, dunque,
quest’incapacità britannica di riuscire a ottenere risultati concreti a livello di
rappresentative nazionali? Probabilmente, si tratta di
un'errata interpretazione del gioco in sé: per lungo tempo, gli inglesi hanno applicato lo schema tattico dei
lanci lunghi e dei
colpi di testa, al fine di approfittare della
costituzione fisica dei propri atleti, generalmente molto alti di statura. Ma dopo lo sviluppo economico avvenuto in quasi tutta
Europa nella
seconda metà del XX secolo, anche le altre nazioni hanno potuto schierare giocatori dotati di una ragguardevole
statura media. Pertanto, la
Federazione calcistica inglese ha cominciato a pensare di cambiare il proprio schema di gioco, chiudendosi maggiormente
in difesa, al fine di proteggere la propria porta. Eppure, nonostante un certo miglioramento nei piazzamenti e qualche buon risultato, sin dal
1966 la
vittoria continua a
sfuggire loro. Anche le altre squadre nazionali attraversano lunghi cicli di rinnovamento generazionale:
l’Italia e la
Germania, per esempio, stanno vivendo esattamente questa fase. Ma dopo un po’, esse si ripresentano e riescono a
portare ‘a casa’ qualcosa, anche dopo attese che durano
10 o, addirittura,
15 anni. Per
l’Inghilterra, invece, non c’è niente da fare, neanche cambiando il proprio modo di giocare al calcio: gli
dei del pallone non sembrano nutrire alcuna simpatia per la
compagine britannica. Ma
perché? Evidentemente, perché
l’Inghilterra ha un proprio
problema interno che la indebolisce, inducendola a una serie di
decisioni assurde, tardo-ideologiche, totalmente inattuali. Come quella della
Brexit: una scelta derivante da un confuso sentimento di
nostalgia verso la sua
epoca imperiale, che ha toccato il suo massimo splendore nella seconda metà del
secolo XIX con lo
“splendido isolamento” teorizzato dalla
regina Vittoria. Dal
1966 a oggi, anziché affrontare i propri
‘demoni’ interni,
l’Inghilterra ne produce di nuovi, autocondannandosi all’irrilevanza politica. Una
‘pomposa superficialità’ che impedisce agli
inglesi di scavare sotto alla superficie delle cose, al fine di individuare i suoi
uomini migliori. Quelli che, nella
cultura ebraica, sono considerati, non certo a caso:
“Gli uomini giusti”. Ma bisogna cercarle, vivaddio, queste
persone ‘giuste’, anziché affidarsi alle
‘sirene’ del
primo che passa. Bisogna saper valutare chi vuole veramente il
bene della nazione. Anche se si tratta di qualcuno che sembra un
‘disturbatore’ - come
Socrate nei confronti dei suoi concittadini di
Atene - poiché impegnato a contraddire il
pensiero comune o la
cultura media: quella
di massa. La quale, infatti, è la vera
corruttrice della cultura più profonda di un popolo. Nel corso della Storia, noi abbiamo sempre la periodica apparizione di queste fasi di
“splendido isolamento” incentrate su un
ripiegamento piccolo borghese nel
privato. Ma la
somma di tutti i
singoli interessi privati non produce affatto una
cultura nazionale: lo abbiamo scritto e affermato più volte, in questi ultimi decenni. Al contrario, è il
principio dell’interesse nazionale a generare numerosi e felici episodi di
realizzazione individuale. Siamo sempre di fronte alla medesima lezione, che il
conservatorismo ‘neo-liberal’ del mondo occidentale proprio non vuole comprendere:
un’etica dell’interesse individuale totalmente
‘sganciata’ da quella
collettiva non
libera nessuno. Nemmeno una
squadra di calcio.
Direttore responsabile di www.laici.it