Vittorio LussanaE’ paradossale come gli inventori del giuoco del calcio, ovverosia gli inglesi, non riescano mai a ottenere alcun risultato tangibile nelle competizioni tra le rappresentative nazionali di questo sport. Le loro squadre di club dominano da sempre le competizioni europee. A cominciare dal Liverpool e dal Manchester United, sino ad arrivare all’Arsenal, al Manchester City e al Chelsea. Da cosa dipende, dunque, quest’incapacità britannica di riuscire a ottenere risultati concreti a livello di rappresentative nazionali? Probabilmente, si tratta di un'errata interpretazione del gioco in sé: per lungo tempo, gli inglesi hanno applicato lo schema tattico dei lanci lunghi e dei colpi di testa, al fine di approfittare della costituzione fisica dei propri atleti, generalmente molto alti di statura. Ma dopo lo sviluppo economico avvenuto in quasi tutta Europa nella seconda metà del XX secolo, anche le altre nazioni hanno potuto schierare giocatori dotati di una ragguardevole statura media. Pertanto, la Federazione calcistica inglese ha cominciato a pensare di cambiare il proprio schema di gioco, chiudendosi maggiormente in difesa, al fine di proteggere la propria porta. Eppure, nonostante un certo miglioramento nei piazzamenti e qualche buon risultato, sin dal 1966 la vittoria continua a sfuggire loro. Anche le altre squadre nazionali attraversano lunghi cicli di rinnovamento generazionale: l’Italia e la Germania, per esempio, stanno vivendo esattamente questa fase. Ma dopo un po’, esse si ripresentano e riescono a portare ‘a casa’ qualcosa, anche dopo attese che durano 10 o, addirittura, 15 anni. Per l’Inghilterra, invece, non c’è niente da fare, neanche cambiando il proprio modo di giocare al calcio: gli dei del pallone non sembrano nutrire alcuna simpatia per la compagine britannica. Ma perché? Evidentemente, perché l’Inghilterra ha un proprio problema interno che la indebolisce, inducendola a una serie di decisioni assurde, tardo-ideologiche, totalmente inattuali. Come quella della Brexit: una scelta derivante da un confuso sentimento di nostalgia verso la sua epoca imperiale, che ha toccato il suo massimo splendore nella seconda metà del secolo XIX con lo “splendido isolamento” teorizzato dalla regina Vittoria. Dal 1966 a oggi, anziché affrontare i propri ‘demoni’ interni, l’Inghilterra ne produce di nuovi, autocondannandosi all’irrilevanza politica. Una ‘pomposa superficialità’ che impedisce agli inglesi di scavare sotto alla superficie delle cose, al fine di individuare i suoi uomini migliori. Quelli che, nella cultura ebraica, sono considerati, non certo a caso: “Gli uomini giusti”. Ma bisogna cercarle, vivaddio, queste persone ‘giuste’, anziché affidarsi alle ‘sirene’ del primo che passa. Bisogna saper valutare chi vuole veramente il bene della nazione. Anche se si tratta di qualcuno che sembra un ‘disturbatore’ - come Socrate nei confronti dei suoi concittadini di Atene - poiché impegnato a contraddire il pensiero comune o la cultura media: quella di massa. La quale, infatti, è la vera corruttrice della cultura più profonda di un popolo. Nel corso della Storia, noi abbiamo sempre la periodica apparizione di queste fasi di “splendido isolamento” incentrate su un ripiegamento piccolo borghese nel privato. Ma la somma di tutti i singoli interessi privati non produce affatto una cultura nazionale: lo abbiamo scritto e affermato più volte, in questi ultimi decenni. Al contrario, è il principio dell’interesse nazionale a generare numerosi e felici episodi di realizzazione individuale. Siamo sempre di fronte alla medesima lezione, che il conservatorismo ‘neo-liberal’ del mondo occidentale proprio non vuole comprendere: un’etica dell’interesse individuale totalmente ‘sganciata’ da quella collettiva non libera nessuno. Nemmeno una squadra di calcio.




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R.Del Buffa - Firenze / Italia - Mail - giovedi 15 dicembre 2022 6.52
Sono perfettamente d'accordo. Mi è piaciuto il parallelo giudizio "calcio/politica".


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