Da sempre, il ruolo sociale della
donna è quello di dover vivere una vita di sacrifici. Ciò è fatto immanente soprattutto nei sistemi culturali e valoriali imperniati sulle
religioni, tanto da far apparire ancora oggi assai poco stravagante che gli incitatori ai sacrifici siano gli uomini, mentre le esecutrici materiali di questi debbano essere sempre e solamente le
donne. In esse, il
moralismo religioso ha storicamente inculcato come
peculiarità femminile quella di essere sempre disposte a
immolarsi. Che gli uomini amino farsi amare e servire e che, per interi secoli, abbiano messo in testa alle
donne che questo sia il loro
precipuo compito, rimane il dato culturale di fondo di una concezione
maschilista e
patriarcale bisognosa di
sudditi, poiché educare le donne al fine di servirsene, da sempre rappresenta il naturale privilegio dei dominatori: cose da
‘maschi’, insomma. In tutte le società
socialmente intrise di religione, si trovano solamente varianti e sottospecie di tali
‘princìpi’. Ma si tratta di
variazioni meschine, poiché in realtà non vi è nessuna reale
presa di distanza rispetto allo spirito multisecolare che, da sempre, caratterizza il difficile rapporto tra le
donne e le
credenze più
dogmatiche. Se si continua a non vedere di buon occhio
capelli al vento o
gonne troppo corte, ciò avviene in quanto il
fideismo irrazionalista non riesce proprio a distaccarsi, né a distinguersi, dal
mondo terreno e che, al contrario, non faccia altro che ribadire il
modello maschilista di esso. In ciò, la
morale cattolica non si eleva affatto al di sopra delle altre: il suo
Dio si comporta esattamente come gli viene richiesto:
“Alla donna l’Eterno disse: io moltiplicherò grandemente le tue pene. Tu partorirai con dolore e i tuoi desideri si volgeranno verso il tuo uomo, che dominerà su di te” (Genesi 3,16). Le parole di un
Dio creato apposta per addossare la
concupiscenza tutta intera alle
donne sono tipiche di
quasi tutte le religioni. Ma si tratta di
costruzioni ingannevoli, che stravolgono la realtà. Chi genera veramente la
libidine? Chi legittima concretamente i rapporti di
possesso tra uomo e donna? Ogni qual volta
Dio ha aperto bocca,
Eva ha sempre saputo bene cosa la attendeva poiché, sin dai tempi più antichi, i patriarchi di tutte le religioni hanno sempre saputo tenere in piedi, senza crepe, le proprie rispettive
tradizioni. Ancora nel
1988, il
Vaticano sentenziava espressamente sulla
“dignità e la vocazione della donna”, facendo diretto riferimento a essa unicamente come
“moglie e madre ubbidiente, succube dell’uomo per fondamentale retaggio dell’umanità”. Ovvero, come fatto voluto da
Dio, che pare non vedere di buon occhio una
donna indipendente, impegnata in un’attività lavorativa qualsiasi, magari di natura dirigenziale. La
Riforma protestante, per parte sua, liberò le
suore dai loro voti, controllando tuttavia severamente che esse divenissero brave
‘donnette’ di casa, docili e mute.
Lutero in persona definì l’uomo
“superiore e migliore” e la donna
“un mezzo bambino, un animale pazzo”. Questo monaco, mentalmente non del tutto
‘registrato’, parlò con l’animo e il lessico più tipico del proprio sesso, predicando come
“massimo onore della donna mettere al mondo figli maschi”. Ma anche
Giovanni Paolo II, nel
1996, si richiamò
all’apostolo Paolo, utilizzando una tra le innumerevoli frasi più misogine del celebre santo dispregiatore della femminilità:
“La donna impari in silenzio, con sottomissione. Non sia permesso ad essa di insegnare, né di usare autorità sul marito, perché Adamo fu formato per primo, poi venne Eva. E Adamo non fu sedotto, bensì la donna, la quale cadde in tentazione. Nondimeno, essa sarà salvata partorendo figlioli e perseverando nella fede, nell’amore e nella santificazione con modestia”. Così parlò
San Paolo: che le donne sappiano, una volta e per sempre, cosa debbono o non debbono fare. L’intera storia della
misoginia fideista dimostra pienamente come le volontà delle religioni non abbiano nemmeno bisogno di
trasformarsi: i
capisaldi rimangono
univoci, le definizioni dei
ruoli sociali immutabilmente stabiliti nel tempo. Nel corso del cammino dell’intera umanità, allorquando la predicazione iniziò a non dare più frutti, si iniziò a far ricorso al mezzo, non meno collaudato, della
violenza: innumerevoli furono le donne che, denunciate come
‘streghe’, dovettero morire perché così vollero gli annunciatori tracotanti della
parola di Dio. Fintantoché le
religioni, prese nel loro complesso di ammorbante
orientalismo ‘cumulativo’, avranno potere sugli animi, gli uomini la faranno sempre pagare alle donne, mantenendole in una condizione di
subalternità. Il
‘Maglio delle streghe’ fu pubblicato nel
1487 ed ebbe la benedizione di un
Papa. Esso fu divulgato in tutto il mondo come autorevole
documento della Chiesa e, in tutte le sue edizioni (una trentina), è perennemente rimasta inclusa una
‘bolla’ che incita espressamente
all’uccisione delle donne. Contro di essa, per
più di 200 anni non vi è stato uno
‘straccio’ di Pontefice disposto a spendere una parola in senso contrario. E le donne dovettero subire penosi interrogatori, o essere oggetto di invereconde investigazioni da parte dei religiosi. Essi estorsero confessioni utilizzando la
tortura, unitamente ad altre innumerevoli sconcezze.
L’occidente cristiano si è concesso
migliaia di carnefici che mai si stancavano di esaminare sui corpi delle donne la loro appartenenza a
Satana. Nell’anno
1485, solamente a
Como vennero arse vive
41 presunte ‘streghe’ dopo alcuni
processi sommari. Ma le
donne, come anche dichiarato nel protocollo di un processo del
XIV secolo “non possono che lasciarsi conciliare con la Chiesa, senza tuttavia impedire di essere consegnate al potere temporale, che provvederà alle pene richieste”. Il
Concilio di Trento (1545–1563) fruttò nuovi importanti dogmi per reagire allo
scisma ‘luterano’, senza mai spendere una sola parola sullo
sterminio degli eretici, degli
ebrei e delle
donne. E i roghi che da quel
Concilio discesero non destano, oggi, alcun
interesse storiografico. Eppure, quella strage, protratta nei secoli, non ha riguardato solamente alcuni
casi isolati di peccatrici, bensì fu una vera e propria
dottrina papale. Si pose fine alle uccisioni solo dopo che si imposero le
prime voci laiche provenienti
dall’esterno della Chiesa, la quale si è sempre giustificata attribuendo le proprie
‘malefatte’ alla
volontà di Dio. Perché
il suo Dio è un
Dio ubbidiente, che asseconda docilmente lo spirito dei tempi.
E oggi? Oggi va di moda il
‘cicaleggio apologetico’ degli epigoni, che si traggono d’impaccio attraverso le
omissioni, le
rimozioni o la
negazione stessa dei problemi, al fine di far dimenticare la realtà storica delle
persecuzioni. Oggi, la
teologia cattolica preferisce arrovellarsi sull’esistenza di
un’ideologia ‘gender’, la quale astutamente seduce gli uomini per mezzo del
razionalismo e del
relativismo, in una sorta di
‘diabolico adescamento’: siamo veramente di fronte al
bue che
dà del ‘cornuto’ all’asino. In tutto questo, impossibile non evidenziare la
millenaria paura degli uomini nei confronti delle
donne: un terrore che ha generato una
violenza nuda e cruda, che ha portato teologi come
Alberto Magno a definirle degli
“esseri difettosi”, mentre
San Tommaso d’Aquino, dottore supremo della
Chiesa e delle sue
‘corbellerie’, si è limitato a considerarle
“degli uomini mal riusciti, delle persone a cui manca qualcosa per realizzare la più autentica natura umana”. Persino l’agostiniana
Civitas Dei, uno dei libri fondamentali della cultura occidentale, si lascia andare al
delirio di un
paradiso senza peccato, poiché ne rimane estranea la passione del sesso. Perché la verità di fondo delle
tradizioni religiose nei confronti delle
donne, anche di quella
cattolica, è sempre stata la stessa: esse possono salvarsi dalla propria
reputazione di ‘prostitute’ solamente presentandosi come
verginali fidanzate, come
fedeli consorti o in quanto
madri di molti bambini. Venendo
all’oggi, la
verità va detta per quello che è: il
cattolicesimo ‘familista’ e
‘amorale’ non ha ancora del tutto digerito alcune
‘svolte’ di modernizzazione e di civiltà come, per esempio, il
divorzio, rifiuta le
unioni civili e, di fronte a temi come quelli
dell’omosessualità, della
fecondazione assistita, della
ricerca scientifica a fini terapeutici, del
testamento biologico, dell’eutanasia e, persino, dei
vaccini, desidera solamente
volgere il proprio sguardo da un’altra parte. Della
violenza sulle donne se ne parla sempre al fine di
sdegnarsi per le gravissime conseguenze che si leggono sulle pagine di
cronaca, senza tuttavia sfiorare minimamente le
cause più autentiche del problema, che non discendono soltanto da una sostanziale
assenza delle
forze di Polizia nelle grandi periferie urbane, bensì – se non soprattutto - da una
cultura di massa ancora fondamentalmente
maschilista e
discriminatoria nei riguardi dell’intero
genere femminile. Certamente, generano clamore le notizie di alcune
ragazze stuprate da un
‘branco’ di vigliacchi. Ma alla fine, ciò serve soprattutto a nascondere un dato di fatto ben preciso: la maggior parte delle
violenze sulle donne, sia materiali, sia psicologiche, trovano il loro terreno più fertile, il proprio
‘habitat’ più comune, tra le
mura domestiche. Ovvero, nella tanto decantata
‘famiglia’, che noi consideriamo, fondamentalmente, un
mero ‘involucro’ di infelicità. Studiare più a fondo il tema
dell’attualizzazione di una
più moderna cultura della famiglia, del suo allontanamento rispetto a certe
apologie di stampo
‘tardo-ideologico’, di un allargamento della sua stessa
base sociale, di una sua maggior
‘apertura sociologica’ nei confronti del mondo esterno, insieme a quello dell’approfondimento del
nuovo ruolo che le
donne stanno ormai assumendo, in una società ormai in via di definitiva
secolarizzazione, vengono tutte considerate questioni da
intellettuali ‘radical chic’. Obiezioni giudicate con fastidio e regolarmente sottoposte alle lenti di ingrandimento dei giudizi più
moralistici o dei più odiosi
pregiudizi. La difficile condizione delle
donne discende da gravissime
arretratezze culturali. Questo è un argomento che possiede persino una propria
connotazione territoriale, anche nei gruppi sociali più
aperti e
progressisti. Nella cultura sociale degli italiani si vive una fase
ipocrita e
‘primordiale’ di nuova socialità più libera e aperta, al fine di
occultare sotto al ‘tappeto’ i più terrificanti
retaggi atavici e
ritualisti, che rendono il
possesso dei beni materiali - e quindi anche delle donne –
l’obiettivo primario dell’esistenza stessa. Insomma, sia nelle famiglie più
aperte, sia in quelle più tradizionalmente
conservatrici, impera uno strano
‘familismo all’italiana’, che si rifiuta di assumere determinati elementi di
riflessione critica nei confronti del proprio
modo di vivere, della propria
mentalità, dei propri comportamenti quotidiani, utilizzando altresì i più angoscianti e severi
pregiudizi per
giudicare il prossimo. Ma quanta bella
carità cristiana! Anche i
rivoluzionari più estremi, alla fin fine non si rivelano altro che dei
moralisti pronti a soffocare ogni questione di
libertà individuale, rilasciando volgari patenti di
‘libertinismo’ alla prima ragazza che decide di
separarsi dal marito, per evidenti ragioni di
incompatibilità caratteriale o, addirittura, per sfuggire a
violenze e
umiliazioni quotidiane. Viceversa, nelle famiglie connotate da un forte stampo
‘cattolico integrista’ vige il più netto
rifiuto a mutare, o quantomeno a
‘mutuare’, ogni più piccola
regola di convivenza civile, al fine di
dissociarsi e rifugiarsi nel più
‘sordo’ dei
ripiegamenti egoistici, tipici di una società composta, in larga parte, da
alienati. In conclusione, all’alba dell’anno di grazia
2023, essere
donne rimane una condizione particolarmente
difficile: questa è la verità. Resta fuor di ogni discussione che
l’occidente non viva all’interno di un
‘brodo culturale’ paragonabile a quello del mondo
islamico più
fondamentalista. Tuttavia, non ne siamo neanche troppo
lontani. La
‘cappa soffocante’ di convenzioni e comportamenti che vigono nella nostra
cultura antropologica quotidiana è ciò che impedisce ogni presa di coscienza su come si stiano ottenendo risultati assolutamente
opposti rispetto a quelli desiderati: si continua a rifiutare ogni forma di
innovazione, distaccandosi dalle questioni poste da una società che
avanza inequivocabilmente, rafforzando altresì impulsi e
tendenze ‘generaliste’ che finiscono col diventare la vera linfa vitale della
trasgressività più
violenta ed
eversiva. Il
centrodestra italiano, anche nella sua
versione ‘sovranista’ più recente, sostanzialmente
strumentalizza tali problematiche, per evidenti interessi di
consenso elettorale. Ma anche le forze
progressiste o
di sinistra, che dovrebbero possedere strumenti culturali più adatti ad affrontare con maggiore attenzione e sensibilità questo genere di questioni, sembrano intenzionate a
lasciare per strada proprio tali
qualità, al fine di
inseguire l’ipocrisia di fondo del
‘moderatismo qualunquista’ italiano. Tutto ciò diviene, come abbiamo scritto più volte e in altre occasioni, la causa primaria di una gravissima
caduta di valori e di una
deriva utilitarista, conservatrice e
negazionista, che sta ormai imperversando, senza freno alcuno, nella nostra società.
(articolo tratto dalla rubrica settimanale Giustappunto! pubblicata su www.gaiaitalia.com)