Giovanna AlbiSotto il nome di ‘Piccoli idilli’ passano una serie di splendide 'liriche leopardiane' pubblicate tra il dicembre 1825 e il gennaio 1826 nel ‘Nuovo raccoglitore’. Esse sono: ‘L’infinito’; ‘La sera del dì di festa’; ‘Alla luna’; ‘Il sogno’; ‘La vita solitaria’. Si tratta di opere in endecasillabi sciolti, che lo stesso poeta definì "idilli" in quanto rappresentazione sublime della sua anima. Leopardi fu, infatti, poeta dello sperimentalismo ottocentesco, che rivisitò l’idillio tradizionale alla Teocrito delle ‘Talisie’, per esempio, in cui la poesia è un quadretto agreste e bucolico nel quale i pastori ingaggiano gare poetiche nella contemplazione della natura. Viceversa, il ‘suo’ idillio diventa scenario interiore dell’animo, che romanticamente si rispecchia nella natura. La sua poetica diviene, dunque, intimista, venata di nostalgica ‘saudade’, in contrapposizione netta tra la poesia degli antichi, d’immaginazione, con quella dei moderni, di sentimento, in cui quast’ultimo va inteso come derivato del ‘sentio’ latino, svelando l’impostazione ‘sensistica’ del genio di Recanati. Questo sentire è contaminato dalla ragione, con cui il poeta instaura un rapporto conflittuale, perché mentre essa ci libera illuministicamente delle false credenze della ‘religio’, al contempo ci sottrae la capacità di immaginare infinitamente, come tipico degli antichi, specie Omero e Pindaro. Ne ‘L’infinito’, pertanto, ci ritroviamo ancora nella sua fase di ‘pessimismo storico’. E innanzi a una ‘natura-madre’, il poeta tenta di recuperare il gusto dell’immaginazione aspirando all’infinito spazio-temporale, benché il vento lo richiami alla realtà e lo riconfini nel finito, in cui l’uomo è costretto per motivazioni strutturali dell’esistenza. Purtuttavia, è bello “naufragar in questo mare” dell’infinita immaginazione: finito-infinito sono il binomio oppositivo del suo pensiero e causa principe del suo pessimismo, che diverrà gradualmente cosmico, come espresso dalla 'Teoria sul piacere'. Secondo quest’ultima, l’uomo è destinato al dolore, perché infinito è il desiderio del bello, ma finito è il corpo per cui l’uomo vive, in perenne frustrazione tra un pensiero che vorrebbe illimitatamente espandersi e un corpo fisico che lo circoscrive. Così come avviene anche attraverso il ricordo, nell’idillio ‘Alla Luna’ dolce è il rimembrare durante la contemplazione del nostro satellite, perché il ricordo lenisce i dolori e la memoria di qualcosa passata, portando ristoro all’anima in espansione, anche se illusoriamente. Il poeta ‘foscolianamente’ sa di illudersi, consapevole della finitezza umana. Ciononostante, egli si illude dilatando, anche se per breve tempo, i suoi orizzonti, dimostrando tutto il suo vitalismo e la voglia di esserci, nonostante la malinconia e la noia, peculiarità della sua indole. Quella noia che egli ben descrisse al Giordani, con le famose parole: “E me vedrai seduto con le mani sulle ginocchia, senza né ridere, né piangere”. Quel sentire nel quale si cade dopo l’illusione, “all’apparir del vero”. Così, mentre ne ‘La sera del dì di festa’ i preparativi fervono e l’anima è gravida di aspettative, al termine della giornata cala il sipario della malinconia, perché tutto è passato “e dell’uom traccia non resta”, in una visione ‘rovinistica’ che lascia il nulla dietro di sé, perché il “reo tempo” foscoliano tutto distrugge. L’analisi 'leopardiana' è lucida e serrata: non vi è Dio che tenga, perché non può esserci consolazione religiosa, per un ateo sensista.





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