La nuova opera di
Pupi Avati, intitolata
'Dante', segnala l’arrivo nelle sale cinematografiche italiane di un
capolavoro. Un film che consacra definitivamente il regista bolognese, il quale ha voluto affrontare un argomento, la
poetica ‘dantesca’, molto complesso, senza avvinghiarsi a nessun schematismo ideologico-politico. Il
Dante di Avati è, soprattutto, un
poeta incompreso, amato solamente da
Giovanni Boccaccio. Fu il profondo amore di quest’ultimo, infatti, a svelare una questione attualissima per il nostro Paese: la
scarsa comprensione, sia da parte del
popolo, sia delle
élites dominanti – a partire dalla
Chiesa cattolica – nei confronti dei
poeti. Il
grado di civiltà di una nazione o di una società, infatti, si misura proprio dal
rispetto che essa nutre nei confronti dei suoi
poeti, non nei
riconoscimenti postumi. Perché la
poetica del ‘Sommo’ fu una tensione dialettica religiosamente rivolta al
rapporto con l’Altro. E la sua ricerca ossessiva di
Dio all’interno delle
cose umane fu
profonda, autentica, sincera. Uno
stile ibrido, quello dell'Alighieri, quasi
plurilinguistico, che rifuggiva dal monolinguismo di
Francesco Petrarca, spesso
assoluto e
selettivo. Fu
Dante il primo intellettuale a sperimentare un abbozzo di
lingua italiana collegata al
popolo, attraverso l’utilizzo del
volgare. E lo fece grazie a uno
stile che seppe unire una
cultura letteraria ‘alta’ con il
linguaggio dei plebei, individuando una sintesi tra
classi dominanti e
tradizioni popolari che dovrebbe, ancora oggi, indicarci un
contenuto identitario ben preciso.
Dante Alighieri fu il vero creatore di
un’identità culturale italiana capace di essere
‘ponte’ tra
intellettuali e popolo, tra il
‘latinorum’ delle
classi egemoni – per dirla col
Manzoni - e
rappresentazione letteraria, lasciandoci una
‘chiave’ interpretativa specifica, totalmente
antiretorica. Concetti individuati molti secoli dopo sia dalla
critica ‘crociana’, sia da quella
‘gramsciana’. Se il rapporto tra
intellettuali e
popolo, tra
dirigenti e
diretti, tra
governanti e
governati è dato da
un'adesione organica, in cui il
‘sentimento-passione’ si trasforma in
comprensione e, quindi, in
nutrimento culturale vivente e
non ‘meccanico’, allora il rapporto tra
cultura ‘alta’ e quella
‘bassa’ diviene, appunto, di
rappresentanza letteraria, indicando una
‘vita di insieme’, una
forza sociale, un
‘blocco storico’. Fu questa l’operazione letteraria tentata da
Dante, il fulcro del suo
sperimentalismo, che divenne il
nucleo centrale del successivo sforzo divulgativo del
Boccaccio: uno dei pochi a rendersi conto di chi avesse di fronte. Non lo compresero i
fiorentini, né le varie
Signorie dell’Italia. E, soprattutto, non lo comprese la
Chiesa di Roma, che si ritrovò innanzi a una
religiosità laica quasi
imperscrutabile per quei tempi: mere
fantasticherie. Solo
Giovanni Boccaccio fu consapevole del fatto che
Dante Alighieri fosse un poeta importante, che stava dando alla luce la
cultura letteraria italiana. Nel consueto e insensibile
silenzio dei suoi contemporanei, che stentarono a
riconoscere un principio, poiché prigionieri di una
mentalità totalmente indirizzata alla
finalità, al
successo immediato, che non contempla mai
processi di lunga lena, esattamente come oggi.
L’Italia non è
meritocratica semplicemente perché
non lo è mai stata. Un popolo che
non riconosce mai meriti a nessuno, poiché abituato alla
sudditanza e alla
gerarchia, alla dipendenza dalle
speculazioni opportunistiche, dai
giustificazionismi retorici. Tutte
contaminazioni formali e
dissimulazioni che impediscono di
guardarsi allo specchio, al fine di riconoscere i propri
difetti e
provare a correggerli, per riuscire a emergere dalle nostre
ciclicità pompose, dai
cerchi concentrici dettati dalle
nostalgie, dalla
suggestione degli
eterni ritorni. Solamente
da morti, in
Italia, si vedono riconosciuti pregi e meriti di un
intellettuale, di un
poeta o, più semplicemente, del
singolo individuo: questo è il vero significato dell’opera di
Pupi Avati, che con questo film ha avuto il coraggio di indicarci, con estrema franchezza, la nostra
tradizionale illiberalità. Una mancanza di contenuti di cui gli italiani sono
colpevoli, in quanto
cattolici controriformisti e
reazionari. Siamo di fronte a un film molto importante, che ha saputo donare
nobiltà al
cinema italiano. E che speriamo venga realmente compreso anche dalla
critica, poiché si tratta di una
fatica vera, derivante da un ventennale lavoro di
ricerca storica da parte di un regista
generoso, ancora oggi ricordato per il suo amore giovanile verso il
jazz in tempi di
provincialismo fascista e
docenti in camicia nera. Un autore a lungo identificato con una
città dotta e, al contempo,
‘materialona’ come
Bologna, meno raffinata della signorile
Firenze, poiché perennemente circonfusa dall’odore dei suoi
tortellini in brodo. Come se un bolognese non possa valicare gli
Appennini per apprezzare un
poeta toscano, poiché condannato a rimanere all’interno del proprio
steccato ‘papalino’, tradizionalista e, in fin dei conti, già pienamente
padano. Ma
Pupi Avati ha finalmente dimostrato che le cose non stanno affatto così.
Per fortuna, per intelligenza e con
estremo coraggio.
Direttore responsabile di www.laici.it